· Città del Vaticano ·

«L’abbigliamento di un fuochista» di De Gregori

La parabola del Titanic
vista dal molo

 La parabola del Titanic vista dal molo  QUO-273
28 novembre 2023

Il porto è il luogo dove salpano le navi. Quel momento, quell’atto del distacco dalla riva, è un taglio, una rivoluzione, un parto. Lo rende molto efficacemente il regista Emanuele Crialese nel film Nuovomondo del 2006, in cui si vede questo squarcio che si apre improvvisamente tra la terraferma e la nave che, mollati gli ormeggi, prende il largo. Lo stesso squarcio viene narrato mirabilmente da Francesco De Gregori in una canzone raccolta in uno dei suoi album migliori, Titanic, del 1982.

La tragedia del più (tristemente) famoso transatlantico di tutti i tempi è qui vista attraverso tre canzoni, tre scene, tre livelli della stessa imbarcazione prometeica, dal più basso al più alto. Nel primo, quello dello “squarcio”, si vede la traversata del Titanic dal basso, dal punto di vista dei fuochisti, quindi da sotto il livello del mare e nel momento in cui l’avventura sta solo per cominciare. Nel secondo si vedono le tre classi dei passeggeri durante la traversata così piena di orgoglio e di promesse e infine si sale fino al terzo livello, quello della plancia di comando, dove si erge forte del suo potere assoluto, il capitano, ma ormai siamo arrivati all’esito finale della tragedia e tutto quel potere si deve arrendere di fronte a quella fatale «donna bianca, così enorme alla luce delle stelle che di guardarla uno non si stanca».

I tre brani che De Gregori compone si adattano perfettamente ai tre momenti e ai tre luoghi. Andando a ritroso: il terzo atto è quello de I muscoli del capitano, una sonata con un testo che riecheggia il futurismo e, nella sua dolcezza da valzer, “controcanta” la tragicità dell’affondamento; il secondo è la canzone che dà il titolo all’album, un effervescente swing «con l’orchestra che ci accompagna / Con questi nuovi ritmi americani» piena di euforia, vitalità e sensualità e per finire c’è L’abbigliamento di un fuochista, la ballata dell’inizio della tragedia, tesa e struggente, tutta chitarre e voci, che sa di povertà, di Sud e disperata speranza.

Stiamo nel porto e il Titanic è quella «nera nera nave che mi dicono / che non può affondare». Chi parla è il figlio, è lui il fuochista che dialoga a distanza con la mamma che è rimasta lì sul molo e con «quale pena dentro al cuore / Adesso che la nave se ne è andata / E sta tornando il rimorchiatore». La nave è nera anche perché il figlio sta lì in mezzo ai fuochi e al carbone, in un luogo in cui «mi rubano la vita / Quando mi mettono a faticare / Per pochi dollari nelle caldaie / Sotto al livello del mare». La mamma assiste, senza parole, senza occhi: «Figlio con quali occhi / Con quali occhi ti devo vedere / Coi pantaloni consumati al sedere e queste scarpe nuove nuove (…) Con questo sguardo di animale in fuga / E queste lacrime sul bagnasciuga che non ne vogliono sapere / Figlio con un piede ancora in terra e l’altro già nel mare / Con una giacchetta per coprirti e un berretto per salutare / E i soldi chiusi dentro la cintura / Che nessuno te li può strappare / La gente oggi non ha più paura, nemmeno di rubare».

Lo squarcio di quel rimorchiatore che torna senza il figlio, ricorda alla madre il parto. «Figlio senza catene / Senza camicia, così come sei nato», ma il salto indietro nella memoria è una rincorsa per il salto in avanti, verso il futuro, l’avvenire: «Figlio che avevi tutto e che non ti mancava niente / E andrai a confondere la tua faccia con la faccia dell’altra gente / E che ti sposerai probabilmente in un bordello americano / E avrai dei figli da una donna strana / E che non parlano l’italiano».

Passato, presente e futuro sono tutti lì, nel pianto della donna rimasta protetta nel porto, in quella frattura posta «in questa croce di Novecento» che sembrava già predire la fine cupa, violenta, di un secolo partito troppo veloce per il suo stesso passo nella folle conquista del mondo a bordo di una «nera nera nave che non può affondare».

di Andrea Monda