· Città del Vaticano ·

L’arcivescovo Peña Parra in occasione della firma dell’accordo tra Santa Sede e Società Dante Alighieri

L’italiano lingua
di comunione

 L’italiano lingua di comunione  QUO-273
28 novembre 2023

L’italiano, lingua della comunicazione nella Chiesa, è un ponte verso l’universalità e la fraternità, un richiamo alla preghiera di San Francesco e alle parole di Dante. Lo ha sottolineato l’arcivescovo Edgar Peña Parra, sostituto della Segreteria di Stato, in occasione della firma, lunedì mattina, 27 novembre, nel Palazzo Firenze a Roma, dell’accordo tra la Santa Sede e la Società Dante Alighieri.

Esso prevede la possibilità, per gli officiali e i dipendenti della Segreteria di Stato, di approfondire e perfezionare l’utilizzo della lingua italiana attraverso corsi specifici e dedicati. Al personale diplomatico infatti, ha detto il presule, è richiesta «l’indispensabile conoscenza di più idiomi, favorita anche da accordi simili con altri istituti linguistici, ma è l’italiano che tutti devono compiutamente padroneggiare», in quanto rappresenta la lingua corrente in uso: basti pensare «ai discorsi e agli interventi più importanti dei Pontefici», anche solo a quelli «degli ultimi tre — nessuno dei quali italiano — redatti e pronunciati nella lingua del “Bel Paese”».

L’accordo è stato firmato dall’arcivescovo e dal presidente della Società Dante Alighieri, Andrea Riccardi. La cerimonia della firma è stata preceduta dai saluti dell’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede, Francesco Di Nitto, e da un convegno di studi sul tema «L’italiano nella Chiesa», nel quale è intervenuta anche Rita Librandi, professore emerito dell’Università Orientale di Napoli.

Nel suo intervento il sostituto ha fatto notare che la Chiesa cattolica non è solo promotrice della lingua italiana nell’ambito della Curia romana, ma anche attraverso «la sua missione caritativa ed evangelizzatrice nel mondo, in particolare mediante il servizio diplomatico della Santa Sede», visto che in ogni rappresentanza pontificia si parla italiano. Anche nelle Conferenze episcopali è usata la lingua italiana, che permette «la comunicazione tra ecclesiastici di diverse provenienze, spesso accomunati dall’aver condiviso un periodo di studi specialistici a Roma». Lo stesso avviene nei numerosi istituti di vita consacrata diffusi nel mondo, così come nei movimenti ecclesiali e nelle comunità di più recente fondazione. «In una Chiesa sempre più internazionale e sinodale — ha aggiunto — dove è già avviato un processo volto a un’inclusione maggiormente partecipativa, l’italiano svolge un ruolo essenziale» come «lingua di comunione». Lo provano, ha detto il sostituto, le statistiche ufficiali, reperibili nell’Annuario Statistico della Chiesa e nell’Annuario Pontificio. È sufficiente «dare uno sguardo all’attuale composizione del collegio cardinalizio, mai così rappresentativo dell’universalità ecclesiale, per rendersene conto». L’italiano, dunque, «assume in ambito ecclesiale una cifra “universale”, e sappiamo l’importanza di quest’ultimo aggettivo, pressoché sinonimo» di “cattolico”.

Monsignor Peña Parra ha quindi evidenziato “due momenti genetici” dell’idioma, che ne mostrano «il felice connubio con la fede». La letteratura italiana, ha spiegato, viene inaugurata dal Cantico delle creature di san Francesco, che «segnò anche nel Poverello di Assisi il passaggio sostanziale dal latino all’italiano». È eloquente «tale inizio, connotato dalla poesia e dalla preghiera, che si uniscono in una composizione cantata, la cui musica fu scritta dallo stesso Francesco». Il testo parla di «una fraternità universale e simbiotica con le creature animate e con quelle inanimate». L’autore volle che fosse recitato, oltre che per lodare Dio, «per edificazione del prossimo». E tale edificazione «si pone nel segno della lode e della benedizione, con un’attitudine positiva nei riguardi dell’esistenza», tanto più preziosa se si considera che il santo compose il Cantico due anni prima di morire, mentre, «ormai cieco, era in preda al dolore per le numerose malattie di cui soffriva». Esaltò dunque ciò che «non vedeva e fece della lingua un canale di lode e di speranza». Arrivò addirittura a chiamare “sorella” persino la morte, benedicendo la “maledetta” per eccellenza. Una lingua si “attestava”, pertanto, «tramutando il muro invalicabile della morte in un ponte verso la vita». La trasformazione del dolore in lode e «l’ammirazione per la bellezza che ci circonda, e nella quale siamo immersi, unitamente alla santità di vita e a un senso universale di fraternità, segnano così il debutto dell’italiano nella scena letteraria mondiale».

L’arcivescovo ha poi accennato al secondo “momento genetico” in riferimento a Dante Alighieri. Nell’ultimo Canto del Paradiso, «quello della visione di Dio, egli prega l’Altissimo e lo invoca proprio a proposito della sua lingua». Dante invoca di «rendere la sua capacità di esprimersi atta a consentirgli di tramandare ai posteri una scintilla della gloria divina».