· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
Crisi globali, emergenza climatica e onere del debito aumentano l’indigenza in Africa

Lotta alla povertà
e prosperità per tutti

 Lotta alla povertà e prosperità per tutti   QUO-270
24 novembre 2023

La povertà in relazione al sottosviluppo di vasti settori della popolazione mondiale continua a rappresentare un autentico flagello. L’Africa, da questo punto di vista, continua a essere nell’occhio del ciclone. È sufficiente dare un’occhiata al recente rapporto 2023 dell’Unctad (United Nations Conference on Trade and Development). Si tratta del principale organo sussidiario permanente dell’Organizzazione delle Nazioni Unite operante nei settori del commercio, sviluppo, finanza, tecnologia, imprenditoria e sviluppo sostenibile. Nel documento viene fornito l’elenco dei Paesi meno sviluppati, i cosiddetti Least Developed Countries (Ldc). Su un totale di 46, quelli africani sono 33 tra i quali figurano tra gli altri: Angola, Benin, Burkina Faso, Burundi, Repubblica Centrafricana, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Eritrea, Etiopia, Gambia, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Madagascar, Malawi, Mali.

Da rilevare che le Nazioni Unite hanno istituito la categoria Ldc 52 anni fa. L’elenco si è poi ampliato rispetto ai 25 Paesi iniziali del 1971, raggiungendo un picco di 52 nel 1991, per poi scendere oggi a quota 46. Questi Paesi comprendono circa 880 milioni di persone, il 12 per cento della popolazione mondiale e rappresentano meno del 2 per cento del Pil mondiale e circa l’1 per cento del commercio mondiale. I criteri di giudizio perché un Paese possa essere considerato nella classifica Ldc sono fondamentalmente tre: il reddito nazionale lordo pro capite; il patrimonio umano in riferimento agli indicatori di alimentazione, istruzione (iscrizione scolastica e alfabetizzazione) e salute; e la vulnerabilità economica. Il rapporto Unctad ha anche messo in evidenza che solo sei nazioni sono riuscite a lasciare la posizione di Paese meno sviluppato negli ultimi 25 anni: Botswana, Capo Verde, Maldive, Samoa, Guinea Equatoriale e Vanuatu. Le molteplici crisi globali, l’emergenza climatica, il crescente onere del debito, la dipendenza dalle materie prime e il calo degli investimenti esteri hanno messo a dura prova le economie dei Paesi Ldc, vanificando gli sforzi profusi in vista del conseguimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdg), compresa l’agognata transizione a basse emissioni di carbonio. È dunque evidente che sono tutte economie nazionali a basso reddito e risultano altamente vulnerabili agli shock finanziari e ambientali.

D’altronde il sistema fiscale di questi Paesi non è assolutamente in grado di sostenere politiche di sviluppo degne di questo nome, motivo per cui i governi locali per coprire gli oneri del debito sono costretti a stanziare cifre che alla prova dei fatti costituiscono il doppio di quello che viene da loro erogato per l’assistenza sanitaria e l’istruzione messe insieme. In questi Paesi pertanto finanziare la spesa pubblica è cosa assai ardua. La dicono lunga alcuni indicatori come il rapporto debito/Pil, che è cresciuto dal 48,5 per cento nel 2019 al 55,4 per cento nel 2022 (il più alto dal 2005). La maggior parte dei problemi di debito dei Paesi Ldc sono strutturali, a causa dei persistenti deficit delle partite correnti e della dipendenza dalle volatili esportazioni di materie prime. Un improvviso calo dei prezzi può ridurre drasticamente le entrate pubbliche, rendendo più impegnativi i rimborsi del debito estero. Quasi tutti gli indicatori di sostenibilità del debito sono peggiorati per i Paesi meno sviluppati. Il loro debito estero totale ha raggiunto i 570 miliardi di dollari nel 2022, con la quota pubblica e garantita dallo Stato che ha raggiunto i 353 miliardi di dollari, più di tre volte superiore rispetto al 2006.

Sempre stando al rapporto dell’Unctad, lo spostamento dei Paesi meno sviluppati verso finanziatori privati, combinato con un mix diversificato di obblighi a breve e lungo termine nei confronti di creditori con diversi livelli di rischio, ha aggiunto complessità ai loro profili di debito.

Di fronte a questo scenario, l’unico modo per trovare sollievo immediato e soluzioni durature al crescente peso del debito per poi investire nello sviluppo sostenibile è quello di richiedere sovvenzioni, prestiti agevolati e, in ultima analisi, un meccanismo multilaterale di rinegoziazione del debito che sia trasparente e rispondente alle esigenze di queste economie svantaggiate. A seguito della pubblicazione del rapporto, il 7 novembre scorso, il segretario generale dell’Unctad, Rebeca Grynspan, ha affermato che «il successo dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile è inestricabilmente legato al progresso di queste nazioni», sottolineando il fatto che per i Paesi meno sviluppati sta per scadere il tempo per il conseguimento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile. Inoltre, qualora la risposta alle esigenze di finanziamento dei Paesi meno sviluppati non fosse tempestiva, avverte il rapporto, l’impatto del cambiamento climatico si aggraverà sensibilmente. Infatti 17 dei 20 Paesi più vulnerabili e meno preparati al cambiamento climatico sono Paesi meno sviluppati, molti dei quali africani.

Per quanto concerne il tema dei cambiamenti climatici che interessano l’intero continente africano, il rapporto dell’Unctad ha messo in evidenza come l’imminente lancio del Fondo per le perdite e i danni in occasione della 28° Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Cop28) rappresenti un potenziale punto di svolta per i Paesi meno sviluppati, a condizione che siano tra i principali beneficiari e che le loro esigenze specifiche siano prese in considerazione. Tuttavia, il successo del fondo dipenderà dalla disponibilità di risorse adeguate sotto forma di sovvenzioni, costi di transazione minimi ed esborsi rapidi.

A questo proposito, il rapporto esorta i Paesi avanzati a impegnarsi nel garantire un afflusso minimo annuo al fondo stabilendo una strategia credibile per la mobilitazione delle risorse. Naturalmente il rapporto dell’Unctad non è l’unico a mettere in evidenza le criticità di cui sopra. Esistono infatti diversi modi per misurare l’attività economica e la ricchezza di un Paese o di un continente. Ad esempio, la Banca mondiale utilizza una classificazione che riguarda i Paesi a basso reddito, i cosiddetti Low income countries (Lic). Il valore di riferimento usato è il reddito nazionale lordo, il cui acronimo inglese è Gni che al Pil aggiunge i profitti realizzati all’estero da parte di cittadini del Paese in questione meno i profitti fatti da compagnie e investitori stranieri sul territorio dello stesso Paese. Stando a questa classificazione, i Paesi più poveri sono quelli con un reddito annuale procapite inferiore a 1.135 dollari. Ma questo indicatore non fa che confermare il trend negativo evidenziato dall’Unctad. Infatti, la situazione dei Paesi a basso reddito è peggiorata dal 2000. Ad esempio, la mortalità materna è ora più alta del 25 per cento, mentre l’aspettativa di vita media è oggi di soli 62 anni, tra i tassi più bassi del mondo.

Come se non bastasse, entro la fine del 2024 il reddito medio delle persone nei Paesi più poveri sarà ancora inferiore di quasi il 13 per cento rispetto a quanto previsto prima della pandemia. Considerando che i Paesi a basso reddito hanno un Pil complessivo di circa 500 miliardi di dollari — molto poco se confrontato ai 100.000 miliardi dell’economia globale — non è lecito perdere tempo. Lungi da ogni retorica, urge l’inserimento del continente africano in un percorso nuovo, fatto di un’integrazione sempre maggiore con l’economia globale, protagonista del suo sviluppo, che rifiuti la logica imperante di un’Africa semplicemente depredata delle sue ricchezze.

di Giulio Albanese