· Città del Vaticano ·

La buona Notizia
Il Vangelo della XXXIV domenica del tempo ordinario (Mt 25, 31-46)

Venite, benedetti
del Padre mio

 Venite, benedetti del Padre mio  QUO-267
21 novembre 2023

«Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere?» (Matteo, 25, 34-38).

La liturgia della prossima domenica ci interpella non solo in vista della fede vissuta ma anche sul piano di una pienezza che possa dirsi radicalmente umana: nessun lettore onesto può sentirsi esonerato da questo appello. Il passo evangelico in questione (Matteo, 25, 31-46) si colloca all’interno di uno dei grandi discorsi gesuani che vede come co-attori e uditori i suoi discepoli: la parabola delle dieci vergini, quella del servo fedele e quella dei talenti hanno anticipato la benedizione rivolta a quanti accolgono, sfamano, visitano. Ancor prima l’evangelista ci racconta dell’acceso discorso del maestro alle folle e ai suoi discepoli, “i guai” lanciati ai farisei, dal sapore di ultimatum profetico: «Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quanti sono stati inviati a te, quante volte ho voluto radunare i tuoi figli come una chioccia raduna la sua covata sotto le ali, eppure voi non avete voluto!»(Matteo, 23, 37). Pare dunque che il vangelo matteano di domenica prossima ci “sussurri cautamente” qualcosa sui sentimenti del maestro di Nazareth: innanzi alla classe religiosa del suo tempo, del suo popolo, egli stesso si sente probabilmente “l’ultimo”. Egli stesso si auto-comprende come uno che è dimenticato, un amante colmo d’amore — “inascoltato”, un affamato sui cigli delle strade religiose — un bestemmiatore ai limiti, un reietto e addirittura un carcerato (dunque trattato come reo di colpa). Nella visione del Gesù secondo Matteo tutto può, però, misteriosamente ricapitolare nella sua persona: quanto egli non ha sperimentato nella vita — accoglimento, ascolto, fede in lui — egli lo “recupererà” anche attraverso la vita degli uomini: «Amen vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Matteo, 25, 40).

In quest’ottica l’invito rivoltoci è duplice: siamo chiamati ad aprire gli occhi ed accorgerci “degli ultimi” in quanto carne della nostra carne, in quanto uomini nel mondo e del mondo come noi e, accogliendo essi, accoglieremo colui che crediamo essere il Figlio di Dio. Ben osava Elisabetta della Trinità quando affermava: «Noi siamo un prolungamento dell’Incarnazione di Cristo».

Faccio punto accostando a quest’intensa pericope matteana le parole del teologo luterano Dietrich Bonhoeffer: «Dio ama ciò che è perduto, ciò che non è considerato, l’insignificante, ciò che è emarginato, debole e affranto; dove gli uomini dicono “perduto”, lì egli dice “salvato”. Dove gli uomini distolgono con indifferenza o altezzosamente il loro sguardo, lì egli posa il suo sguardo pieno di amore ardente e incomparabile. Dove gli uomini dicono “spregevole”, lì Dio esclama “beato”». 

di Deborah Sutera