· Città del Vaticano ·

Intervento del Segretario per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni Internazionali al simposio accademico per la commemorazione dei 60 anni di relazioni diplomatiche con la Repubblica di Corea

La Santa Sede condivide l’anelito del popolo coreano alla pace della penisola

 La Santa Sede condivide   l’anelito del popolo coreano  alla pace della penisola  QUO-267
21 novembre 2023

Ringrazio sentitamente per l’invito rivoltomi da S.E Mons. Mathias Ri Iong-hoon, Vescovo di Suwon e Presidente della Catholic Bishops’ Conference of Korea, e dalle Autorità del Governo a partecipare a questo Simposio.

Come è noto, l’occasione odierna si iscrive nel contesto delle celebrazioni per il 60° anniversario delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e la Repubblica di Corea: il 9 settembre del 1963, infatti, l’allora Delegato Apostolico, S.E. Mons. Antonio del Giudice, fu ufficialmente informato dell’intenzione di accreditare presso la Santa Sede un Ministro Plenipotenziario ricevendo, al contempo, in Seoul un Internunzio Apostolico. Il tradizionale scambio di Note Verbali avvenne il 7 dicembre successivo e fu reso pubblico quattro giorni dopo, l’11 dicembre 1963, data assunta comunemente come l’inizio delle piene relazioni tra le due parti. Da allora, undici Rappresentanti Pontifici e diciotto Ambasciatori si sono alternati nelle rispettive sedi, coltivando un solido rapporto bilaterale, fondato sulla reciproca fiducia e amicizia.

Ho scoperto con interesse che il numero “60” riveste un significato particolare nella cultura coreana, evocando il passaggio ad un nuovo ciclo vitale e ad una fase di maggior pienezza. In termini molto simili, tale cifra rappresenta anche nella Sacra Scrittura la preparazione ad un pieno compimento. Nella Bibbia, inoltre, il numero “60” esprime anche l’idea di supporto reciproco e di interconnessione. Questi significati simbolici contribuiscono a definire il senso di quanto stiamo celebrando: scaturite dall’incontro tra la Chiesa cattolica e la Terra del Calmo Mattino, le relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e la Repubblica di Corea ne hanno dato formale riconoscimento, rivelandosi feconde di benèfici effetti per il progresso spirituale di tutto il popolo coreano. È auspicio di tutti noi che tale rapporto possa ulteriormente progredire nel futuro verso una sempre più proficua collaborazione.

Nel contesto di tale anniversario si è recentemente concluso anche il progetto di ricerca e conservazione archivistica che questo Simposio mette a tema: ideato e sostenuto dalla Conferenza Episcopale Coreana e dal Governo della Repubblica di Corea, esso ha riguardato i fondi conservati presso l’Archivio Apostolico Vaticano, la Biblioteca Apostolica e la Rappresentanza Pontificia di Seoul. Tale progetto fornisce un’ulteriore propizia occasione per mettere in piena luce il patrimonio diplomatico, culturale e sociale costituito dalla sessantennale relazione tra la Santa Sede e questo Paese.

Al fine di meglio apprezzare il valore di questo cammino condiviso, sono di valido aiuto due direttrici indicate dal Santo Padre Francesco durante il suo viaggio a Seoul, nell’agosto del 2014: «Essere custodi di memoria e custodi di speranza»1.

Custodi di memoria


Gli ultimi sessant’anni hanno segnato per la Corea un impegnativo cammino di progresso e trasformazione. Da giovane Paese appena sorto dalle ceneri della guerra essa ha saputo trasformarsi in una Nazione prospera e moderna, è emersa sulla scena internazionale quale potenza economica e industriale, pienamente inserita nella vita della Famiglia delle Nazioni, in seno alla quale si è guadagnata la fama di attore attivo e di partner affidabile. Nel medesimo arco temporale, il Vangelo vi è attecchito con grande vitalità e da terra di missione la Corea è divenuta luogo di partenza di numerosi missionari. In modo corrispondente, dal 1963 in poi, anche gli scambi bilaterali con la Santa Sede sono andati crescendo ed approfondendosi. In questi sei decenni diversi avvenimenti memorabili hanno scandito il consolidamento dei rapporti: tra tutti, tengo a menzionare i tre Viaggi Apostolici — quelli di San Giovanni Paolo ii nel 1984 e nel 1989, e quello di Papa Francesco nel 2014 — e le visite dei Capi di Stato coreani in Vaticano — quella del Presidente Kim Dae-jung nel 2000, e quelle del Presidente Moon Jae-in nel 2018 e nel 2021 — tutti eventi che testimoniano di un’ottima relazione e di mutua sintonia.

Custodire la memoria di questo percorso e degli eventi che lo hanno segnato può essere utile a meglio comprendere il presente, a scoprirne le radici e ad apprezzarne gli aspetti più positivi.

Di fronte a tale ricchezza di avvenimenti storici, il compito di essere “custodi di memoria” si esprime, innanzitutto, attraverso la riconoscenza per i molti doni che sono germinati dalla reciproca relazione.

Alla Santa Sede non mancano certo motivi di gratitudine verso la Corea. Verso la Chiesa locale, innanzitutto, per la fede e la vitalità delle quali sa dare testimonianza, per il crescente impegno missionario e la sempre più autorevole partecipazione alla vita della Chiesa Universale. La Santa Sede è profondamente riconoscente anche alla Repubblica di Corea: alle sue genti e ai Governi che si sono succeduti fin qui. È grata per la libertà e il rispetto che sono garantiti alla comunità cattolica nel Paese e per la proficua e attenta collaborazione in vista del bene comune.

D’altro canto, diverse sono state, e sono ancora oggi, le attestazioni di riconoscenza per il ruolo che la Santa Sede ha svolto nel processo di affermazione internazionale della Repubblica di Corea. A tal proposito, è frequente il riferimento alla nomina, nel 1947, di Mons. Patrick James Byrne a Visitatore Apostolico, che costituì il primo riconoscimento a livello mondiale della Corea come Stato sovrano ed indipendente. Arrestato nel 1950, durante l’invasione da parte delle forze nordcoreane, egli morì di stenti dopo pochi mesi: una vicenda personale, la sua, che testimonia di un impegno radicale a salvaguardia della libertà, fino al dono totale della vita. Ugualmente citata è l’assistenza offerta dall’allora Arcivescovo Angelo Roncalli, futuro Papa Giovanni xxiii , al tempo Nunzio Apostolico a Parigi, alla Delegazione coreana inviata alla iii Sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nel dicembre 1948: l’abile opera diplomatica del Rappresentante Pontificio in Francia, infatti, contribuì al successo della missione, che condusse al riconoscimento ufficiale della Repubblica di Corea da parte dell’O.N.U., il 12 di quello stesso mese.

Come detto, questo Simposio mette a tema il progetto di studio e conservazione dei documenti delle raccolte archivistiche del Vaticano: esso è un ottimo esempio di quella “custodia della memoria”, alla quale il Santo Padre ci incoraggia. L’imponente programma degli interventi di ricerca e restauro è stato particolarmente lungimirante, poiché ha posto in piena luce l’importanza che i materiali archivistici rivestono nella cultura e nella prassi della Chiesa. Quando si menziona il termine “archivio”, viene immediatamente evocata la parola greca “arché”, nel suo significato di principio e origine: essa indica l’inizio a cui fare riferimento. In ogni archivio — e in particolare in un complesso qual è quello dell’Archivio Vaticano e della Biblioteca Apostolica — si offre la possibilità di immergersi nel corso vivo della memoria collettiva, riscoprendo gli albori dai quali proveniamo e i fondamenti sui quali siamo radicati. Nell’ottica cristiana, però, le testimonianze d’archivio non si limitano ad essere una documentazione del passato, fonte di un interesse solamente immanente: su di esse, piuttosto, la fede stessa si può saldamente ancorare, poiché nel dispiegarsi degli eventi storici l’occhio del credente scorge il rivelarsi progressivo del disegno salvifico di Dio. La Chiesa, dunque, ritrova negli archivi qualcosa in più che dei semplici depositi di testi: i documenti lì conservati sono, piuttosto, uno strumento che le permette di raccontare la vita della comunità e di riconoscere in essa il segno della presenza di Dio nella tangibilità dei fatti storici. Dalla narrazione degli eventi passati, i credenti derivano l’idea della loro missione più vera: essere in questo mondo la testimonianza della salvezza divina. Dunque, per la Chiesa l’impegno per il bene comune, con tutte le sue concrete vicende, nasce da un mandato di natura propriamente teologica e spirituale.

Tale interconnessione tra una visione di principio e l’evidenza dell’evoluzione storica è certamente utile per illuminare anche l’azione diplomatica della Santa Sede, le sue ragioni e gli eventi che ne hanno segnato il cammino. A tal proposito, si potrebbe affermare che la diplomazia pontificia sembri talvolta muoversi lungo linee teoriche e a livello di meri principi: coscienza e libertà religiosa, dignità dell’essere umano, educazione e carità. Eppure proprio questi temi, apparentemente astratti, pongono problemi estremamente concreti, dai quali dipendono gli Stati stessi, la loro convivenza pacifica, il loro sviluppo e il loro avvenire. Proprio la capacità della diplomazia della Santa Sede di assumere una prospettiva e un fine “alti”, ancorati alle verità evangeliche e svincolati da interessi contingenti, costituisce una delle sue più grandi originalità, come ha sottolineato lo stesso Papa Francesco nel discorso al Corpo Diplomatico nel 2019: «L’obbedienza alla missione spirituale, che sgorga dall’imperativo che il Signore Gesù ha rivolto all’apostolo Pietro: “Pasci i miei agnelli” (Gv 21, 15), spinge il Papa — e dunque la Santa Sede — a preoccuparsi dell’intera famiglia umana e delle sue necessità anche d’ordine materiale e sociale. Tuttavia, la Santa Sede non intende ingerire nella vita degli Stati, bensì ambisce ad essere un ascoltatore attento e sensibile alla problematiche che interessano l’umanità, con il sincero e umile desiderio di porsi al servizio del bene di ogni essere umano»2.

Forte di tale disposizione fondamentale, in questi sessant’anni la Santa Sede ha cercato di offrire al popolo coreano una cooperazione sincera e un ascolto attento, sostenendone le aspirazioni profonde, comprendendone le preoccupazioni e condividendone le attese.

Custodi di speranza


Custodire la memoria, però, è un impegno che va oltre il semplice ricordo o la doverosa riconoscenza: la rievocazione del passato risulterebbe, infatti, sterile se non dovesse condurre anche a trarre da esso le risorse necessarie ad affrontare con lungimiranza le speranze e le sfide del futuro.

La pacifica convivenza delle Nazioni è messa oggi alla prova su molti fronti e non mancano grandi sfide che si profilano, nella regione come nell’intera comunità delle Nazioni, sollevando incognite sul futuro comune: il diffondersi di un sempre maggior numero di scontri armati e di focolai di guerra — l’ormai famosa “Terza guerra mondiale a pezzi” alla quale il Santo Padre fa spesso riferimento — la corsa agli armamenti e la minaccia nucleare, il terrorismo, la disaffezione per la concertazione multilaterale, solo per citare alcuni esempi. In questa ora decisiva della sua storia, l’umanità sembra oscillare tra timore e speranza: i progressi scientifici più straordinari, le innovazioni tecnologiche più impensate e perfino la crescita economica più prodigiosa, se non sono coniugate con un autentico progresso sociale e morale, rivelano un volto crudele e si ritorcono, in definitiva, contro l’uomo stesso.

Di fronte alle preoccupazioni che derivano dall’attuale contesto internazionale, la Chiesa e le strutture della diplomazia sono accomunate da un medesimo compito: essere segno di speranza. Non certo un sentimento soggettivo ed evanescente, la speranza alla quale siamo chiamati appare, piuttosto, come un criterio ispiratore per il concreto agire comune. Essa consiste nel ridare voce all’idea che la contrapposizione e la guerra non sono un destino ineluttabile, ma possono essere superate grazie al dialogo. Per la Santa Sede, questo si traduce in un impegno costante, che mira a conoscere i fatti e le situazioni interpretandole alla luce dei principi evangelici e delle norme internazionali, senza tralasciare ogni pur minimo elemento che possa favorire la concordia ed evitare il conflitto.

Suonano oggi più che mai attuali alcune espressioni di Papa Francesco a tale proposito: «La pace e la stabilità internazionale sono incompatibili con qualsiasi tentativo di costruire sulla paura della reciproca distruzione o su una minaccia di annientamento totale; sono possibili solo a partire da un’etica globale di solidarietà e cooperazione al servizio di un futuro modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità nell’intera famiglia umana»3. La diplomazia pontificia, in particolare, si prefigge, oggi come nel passato, di essere strumento a servizio dell’umana coesistenza e una voce che riafferma, in ogni occasione possibile, la comune aspirazione alla stabilità, alla sicurezza e alla pace. L’azione diplomatica della Santa Sede, infatti, rimane saldamente impegnata nel faticoso sforzo di garantire l’ordinata convivenza mondiale e quella tanto auspicata pace che, lontana dall’essere un mero equilibrio di forze, scaturisce e si identifica piuttosto con la giustizia.

La Chiesa e le strutture della diplomazia, comprese quelle degli Stati, sono chiamate a collaborare per riportare speranza al mondo, vincendo la logica soffocante della contrapposizione e rigenerando il respiro della fratellanza. In particolare, ad esse spetta di ribadire la prospettiva di quella solidarietà tra i popoli che, sola, può generare vero progresso comune. Esaminando le motivazioni che muovono gli individui e gli Stati, emerge chiaramente che la necessità e l’interesse giocano un ruolo significativo: tali fattori influenzano naturalmente le scelte che essi compiono, segnandone in ultima istanza i destini. Le sfide attuali e future, tuttavia, non potranno essere vinte se non affrontandole anche da una prospettiva di fratellanza e di dedizione al dialogo. Per soddisfare le esigenze e gli aneliti del nostro tempo, le legittime preoccupazioni politiche o economiche dovrebbero essere sempre integrate con un più ampio senso di solidarietà che, consacrandosi ad ogni individuo come fratello e sorella, detiene la chiave per il vero successo.

Nella prospettiva dell’essere “custodi di speranza”, credo che l’auspicio condiviso da noi tutti sia quello di una sempre crescente collaborazione tra la Sede Apostolica e la Repubblica di Corea nell’affrontare le grandi sfide che incombono sul presente e sul futuro del mondo, in particolare della regione dell’Asia Orientale. A tal proposito, tengo a ribadire, soprattutto, la profonda partecipazione con la quale la Santa Sede condivide l’anelito del popolo coreano alla pace della penisola. Il Santo Padre sostiene da sempre ogni sforzo che sia volto al «riconoscimento sempre più ampio della realtà che tutti i Coreani sono fratelli e sorelle, e membri di un’unica famiglia»4, nella speranza che l’impegno comune possa tradursi in un futuro di riconciliazione, di stabilità e di pace. Non è possibile scoraggiarsi nel perseguimento di tale obiettivo, che va a beneficio non solo del popolo coreano, ma dell’intera regione e del mondo intero.

Ringrazio nuovamente per l’accoglienza e l’attenzione che mi avete offerto e auguro a tutti un proficuo svolgimento di questo Simposio di studio.

di Paul Richard Gallagher


1. Cfr. Francesco, Incontro con i Vescovi della Corea. Discorso del Santo Padre, Conferenza Episcopale Coreana (Seoul), 14 agosto 2014.

2. Francesco, Discorso al Corpo Diplomatico, 7 gennaio 2019.

3. Francesco, Messaggio sulle armi nucleari, Atomic Bomb Hypocenter Park, Nagasaki, 24 novembre 2019.

4. Francesco, Omelia nella Messa per la Pace e la Riconciliazione, Seoul, 18 agosto 2014.