· Città del Vaticano ·

A sessant’anni dalla morte di Clive Staples Lewis

Con la luce dell’immaginazione

 Con la luce  dell’immaginazione    QUO-267
21 novembre 2023

Nel 1938 Borges ebbe un incidente che accelerò il processo, già avviato, di perdita della vista. Per la prima volta non lesse un libro, ma un libro gli fu letto, dalla madre, e questo primo libro “ascoltato” era Lontano dal pianeta silenzioso di C.S. Lewis. L’impatto fu fortissimo e non privo di conseguenze. A Borges il libro infatti piacque molto, ne scrisse anche una recensione (apparsa nel 1939 su «El Hogar») e, soprattutto, da quel momento il poeta incominciò la carriera di narratore privilegiando esclusivamente la letteratura fantastica. Nella recensione, significativamente intitolata «Un primo memorabile libro», Borges elogiava «l’infinita onestà di quell’immaginazione, la coerente e minuziosa verità del suo mondo fantastico […] Nei capitoli che descrivono il viaggio interplanetario vi è inoltre una naturale atmosfera poetica». Non contento, l’anno successivo pubblicava sulla rivista Sur, il suo primo racconto fantastico intitolato «Tlon, Uqbar, Orbis Tertius», che poi comparirà nella celebre raccolta Finzioni. Come sottolineato da Emir Monegal nella biografia letteraria dedicata al poeta argentino, le relazioni tra il romanzo di Lewis e il racconto di Borges sono molte ed evidenti.

Il punto centrale è questo ed è opportuno ricordarlo oggi, a 60 anni dalla morte dello scrittore inglese Clive Staples “Jack” Lewis, scomparso il 22 novembre del 1963: grazie anche alla lettura del suo romanzo, Borges nel momento in cui perde la vista accende, ancora più intensamente, l’immaginazione, a conferma che i veri artisti, hanno il dono di vedere e far vedere ai loro lettori e fruitori. L’arte possiede questa dote che la rende come un potente “collirio” che pulisce e purifica gli occhi degli uomini permettendo loro di acquisire come una vista più nitida, ampia ed acuta della realtà. È il fenomeno che accade quando un uomo prende in mano un libro e, come si suol dire, “ci si immerge”. Lo stesso Lewis ha tanto riflettuto sul fatto della lettura e nel saggio Lettori e letture, afferma: «Leggendo le grandi opere della letteratura divento migliaia di uomini e allo stesso tempo rimango me stesso. Come il cielo notturno della poesia greca vedo con una miriade di occhi ma sono sempre io a vedere, qui come nella religione, nell’amore, nell’azione morale e nella conoscenza, supero me stesso; eppure, quando lo faccio, sono più me stesso che mai». Superarsi per rimanere se stessi, anzi riacquisire una pienezza che si perde se all’uomo viene amputata l’ala dell’immaginazione. Con queste riflessioni Lewis rispondeva implicitamente (poi lo farà anche in modo esplicito) all’accusa di “escapismo”, rivolta in quegli anni a lui e al suo amico Tolkien, il fatto cioè che la letteratura cosiddetta “di evasione” sia occasione di fuga, alienazione, disimpegno dal reale. I due amici e scrittori, involontari capostipiti del genere fantasy, risposero in modo diverso ma convergente sul fatto che si tratta non di evasione quanto di “visione”. Una buona opera “di fantasia” offre una luce potente (fantasia viene dal greco fòs, luce) che anziché costringere libera, amplia la capacità umana di vedere. Non è un caso che la protagonista dell’opera più celebre di Lewis, la saga delle Cronache di Narnia, sia la piccola sorella Pevensie dal nome Lucy. I bambini hanno lo sguardo acuto, fresco, ci dice Lewis, capace di trovare anche negli oggetti più dimessi della quotidianità, come un armadio, la breccia attraverso cui passa la luce di una realtà più grande di quella misurabile con i soli occhi impolverati dall’abitudine o con il cuore sclerotizzato dalla scontatezza. Si tratta di avere lo sguardo dei santi, quello per cui come scrive Pasolini parlando di Madre Teresa di Calcutta, «quando guarda, vede».

Le opere di Lewis offrono al lettore questa occasione di «pulizia dello sguardo». Merito anche quegli aspetti sintetizzati dal giudizio espresso da Borges: lo scrittore inglese è veramente un autore dotato di un’immaginazione onesta, capace di creare mondi ricchi di una verità coerente e minuziosa, e infine naturalmente portato alla poesia. Inoltre Lewis, anche questo punto è sottolineato da Borges, proprio come Tolkien, è attento allo spessore filologico delle sue storie, cioè a tutto quell’apparato linguistico che, secondo i due scrittori-filologi di Oxford, deve necessariamente accompagnare ogni creazione fantastica che si rispetti.

Detto questo, come puro narratore, Lewis è senz’altro inferiore all’amico Tolkien. Eppure, almeno nel mondo angloamericano le Cronache di Narnia e le Lettere di Berlicche non hanno nulla da invidiare, come successo, al Signore degli anelli (mentre in Italia, ahinoi, Lewis è molto meno noto) che, peraltro, deve forse la sua nascita, proprio allo stesso Lewis. Lo dice in fondo lo stesso Tolkien quando ammette, come ricorda il suo biografo Carpenter, che «il debito impagabile che io ho nei suoi confronti non è tanto un’influenza come la si intende di solito, quanto il puro incoraggiamento. A lungo è stato il mio unico pubblico. Solo lui mi ha messo in testa l’idea che la mia roba poteva essere qualcosa di più di un divertimento privato». I due, Jack e John, hanno scritto uno per l’altro storie fantastiche pensando di non essere apprezzati da molti altri oltre a loro due; si sono rotondamente sbagliati e di questa loro amicizia così feconda, milioni di lettori nel mondo gli sono ancora oggi profondamente riconoscenti.

di Andrea Monda