· Città del Vaticano ·

Padre Ibrahim Faltas ricorda l’assedio alla basilica della Natività a Betlemme nella primavera del 2002

Il coraggio della pace

 Il coraggio della pace  QUO-265
18 novembre 2023

Le storie terribili di questi giorni in Palestina rimandano la memoria a un altro momento di crisi che si consumò poco più di vent’anni fa e che è ormai ricordato come l’“assedio di Betlemme”. Per trentanove giorni la prima pagina de L’Osservatore Romano seguì passo passo lo svolgimento di questo evento entrato nella storia del conflitto israelo-palestinese. Lo ripercorriamo con uno dei protagonisti del tempo, oggi vicario della Custodia di Terra Santa, padre Ibrahim Faltas. Abouna Ibrahim è un personaggio, un pastore, carismatico per le comunità cattoliche di Betlemme e di Gerusalemme. Alto, massiccio, austero, apparentemente severo, ma capace, con un sottile velo di pudore, di emozionarsi mentre si racconta. Nato sessant’anni fa ad Alessandria d’Egitto, frequenta i frati della Custodia di Terra Santa fin da bambino, fino a esserne ordinato prete nel 1992, dopo gli studi al Cairo e a Gerusalemme.

La sua vita è indelebilmente segnata da quel 2 aprile 2002 quando quasi duecentoquaranta palestinesi armati, pregiudicati e ricercati dalle autorità israeliane, dopo un breve e violento scontro a fuoco, cercarono e trovarono rifugio dentro le spesse mura della basilica della Natività. La storia è nota e ancora viva nella memoria, e non necessita di essere raccontata. Faltas ci mostra come segno di omaggio la raccolta delle edizioni de L’Osservatore Romano del tempo che ancora oggi costituiscono la più dettagliata cronistoria di quei trentanove giorni. Tutti gli articoli sono raccolti in un libro, Dall’assedio della Natività all’assedio della città, edito dallo stesso padre Ibrahim. Il nostro colloquio, che si svolge nella High School della Custodia di Terra Santa a Gerusalemme (che Faltas dirige), verte su cosa è rimasto oggi di quell’esperienza, come l’assedio della basilica della Natività abbia segnato un punto di non ritorno per la vita dei cittadini di Betlemme e dei cristiani in particolare. «Non bisogna dimenticare — esordisce — il contesto in cui l’episodio ebbe luogo. Da quasi due anni imperversava nei territori della West Bank (Cisgiordania) e a Gerusalemme la seconda Intifada, che aveva segnato il tramonto delle prospettive di pace seguite agli accordi di Oslo. Io ho conosciuto bene Yasser Arafat. Ricordo il nostro primo incontro: mi dette appuntamento a Gerico alle 2 del mattino; lavorava anche di notte. Sono sempre stato convinto che in fondo volesse la pace. Però non capii mai perché avesse assecondato la rivolta violenta della seconda Intifada. Dai colloqui che avemmo mi feci l’idea che Arafat avesse perso ogni speranza di accordo dopo l’assassinio di Rabin. Con Sharon non c’era solo un’opposizione di vedute, c’era proprio un odio personale reciproco».

E l’ assedio a Betlemme che c’entra?

È proprio durante l’assedio che avviene ciò che cambia il corso della storia. Mentre noi siamo dentro ormai da due settimane, il 16 aprile Israele inizia la costruzione del muro di separazione. Israele punta a difendersi dalle infiltrazioni nel proprio territorio che consentono gli attacchi suicidi dei terroristi. In effetti dopo la costruzione del muro gli attacchi scemeranno ma il prezzo che i palestinesi tutti, anche gli inermi e gli incolpevoli dovranno pagare, sarà altissimo. Da allora non è più la sola basilica ma l’intera città a essere assediata. Il muro significa per molti la perdita di terreni da coltivare, del lavoro per i pendolari in Israele, la perdita delle relazioni familiari. Il muro impedisce anche agli israeliani di entrare e di intrattenere rapporti di affari.

Come si è trovato in mezzo a questa storia che l’ha catapultata sui media di tutto il mondo?

Ah (sorride), io non ero nessuno in effetti: non ero il guardiano del convento, né il parroco. Ero solo un frate che si occupava della nostra scuola e dello status quo della basilica. Ma parlo arabo e il Signore mi ha donato una socialità e curiosità non comuni, perciò a Betlemme ero, e sono anche oggi, amico di tutti. Ero un punto di riferimento per tutti: cristiani, musulmani e anche per i soldati ebrei. In un posto dove tanti spesso non si parlano, con me parlano tutti. Che poi, a dir la verità, io non parlo poi così tanto, ma ascolto molto. E qui, in questa terra, saper ascoltare è una cosa importante. Non sono stato io a pormi come mediatore, erano loro che venivano a parlare con me. Debbo dirti la verità: ancora oggi, ripensandoci, penso di aver fatto bene. Capivo che la mia azione coinvolgeva responsabilità ben più grandi della mia: il custode, il nunzio, la Santa Sede, e soprattutto la vita dei miei confratelli chiusi con me dentro al convento assediato. Avevo paura di essermi assunto una responsabilità troppo grande per un semplice frate, ma che potevo fare? Sarei potuto uscire dal convento con i miei confratelli, lasciando i miliziani dentro da soli, ma sarebbe stata una carneficina: i palestinesi non si sarebbero mai arresi e gli israeliani avrebbero preso la basilica militarmente. Peraltro, oltre alla salvaguardia di vite umane, il mio obiettivo prioritario era che la basilica non fosse teatro di scontri e non riportasse danni. Che si sparasse lì dove Gesù è nato mi sembrava un oltraggio inaudito per il luogo santo più importante della cristianità.

È stato anche criticato da qualcuno in Occidente per una presunta eccessiva accondiscendenza nei confronti dei palestinesi asserragliati.

Non sanno e parlano (si irrigidisce). È facile parlare quando non si conosce la reale situazione! Per fortuna un gruppo di giornalisti fu testimone di come nacque l’assedio; i palestinesi si asserragliarono di loro iniziativa; io addirittura dormivo quando entrarono, fui svegliato dal parroco. Il giudizio che conta per me è quello dei diplomatici di più paesi che furono impegnati nella risoluzione del caso e che hanno sempre apprezzato il nostro ruolo. Solo chi era dentro può dire con quale fermezza, a volte durezza, senza paura, abbiamo trattato i palestinesi. La penso esattamente come ha detto tempo fa il cardinale Parolin a proposito della tragedia dei migranti: prima si salvano le vite umane, poi si può discutere di tutto.

[...] Mentre parliamo sfogliamo insieme l’album delle foto di agenzia di quei trentanove giorni. Alcune, malgrado la tragicità della situazione, sono buffe: mostrano padre Ibrahim insieme a un altro frate che pure ebbe un ruolo nella vicenda, il polacco padre Severino, sbracciarsi e gridare fuori della basilica. Uno alto alto e l’altro piccolino: sembrano un articolo “il” col saio francescano.

Ha pensato a volte di non farcela? Ha avuto paura del peggio?

Sì, due volte. La mia stanza nel convento aveva una grande vetrata. Una mattina, era il 6 aprile, mi sono svegliato dopo poche ore di sonno, ho scostato le tende e immediatamente sono stato bersagliato da una scarica di proiettili sparati da un cecchino israeliano appostato sui tetti di fronte. È stata la frazione di un attimo: mi sono buttato sotto al letto e lì sono rimasto per qualche minuto, pregando senza respirare. La seconda volta è stata dopo circa due settimane dall’inizio dell’assedio. Le trattative erano a un punto morto e la soluzione militare sembrava ormai improcrastinabile. Avevamo perso le speranze. Indipendentemente dal possibile esito cruento che ci avrebbe comunque coinvolti, prevaleva in me un senso di impotenza, di sconfitta e di isolamento. Mi ero esposto molto e avevo esposto al pericolo i miei confratelli senza aver raggiunto alcun obiettivo. Ricevevo molte telefonate sul cellulare ma rispondevo solo a poche: quelle delle parti in causa e di qualche giornalista amico, mai a numeri sconosciuti. Perciò non so ancora oggi perché risposi a quel numero lungo e strano. Riconobbi però subito l’accento e il tono inconfondibili di quella voce: “Non abbiate paura. Noi siamo con voi. Io sono con voi”. Era Giovanni Paolo ii che, pur rimanendo sempre informato attraverso il nunzio apostolico, arcivescovo Pietro Sambi, e il padre custode di Terra Santa, Giovanni Battistelli, aveva voluto parlare direttamente con me. Non ricordo cosa sia stato capace di farfugliare in quei momenti rispondendogli emozionato. Ricordo invece molto bene quando, tempo dopo, a storia conclusa, andai a Roma a ringraziarlo insieme al nunzio e al custode. Mi riconobbe subito: “E lei deve essere padre Ibrahim”. Mi abbracciò calorosamente. Quella telefonata nell’animo dei frati fu una scossa di speranza: il Papa è con noi, stiamo facendo bene. Poi finalmente, dopo trentanove giorni, l’epilogo incruento. I palestinesi uscirono e furono trasferiti, chi in Europa chi a Gaza. E noi frati uscimmo con loro.

Cos’è cambiato da allora?

È cambiata, in peggio, la condizione di vita degli abitanti di Betlemme. Chi può, soprattutto i giovani, i cristiani, se ne va. In tremila se ne sono già andati. Però voglio vedere positivo e aggiungo: è cambiata anche molto la percezione della nostra presenza in questi luoghi. Sono passati anni ormai, ma qui non dimenticano che i frati hanno rischiato di essere uccisi per salvare la vita a duecentoquaranta musulmani. E anche gli israeliani hanno apprezzato alla fine il nostro operato; sanno che a parti invertite lo avremmo fatto anche per loro. È la logica di san Francesco a Damietta, che attraversa le linee nemiche per portare una parola di pace.

[...] Padre Ibrahim su questa battuta ci lascia. Anche se vive e lavora a Gerusalemme, ogni pomeriggio varca il muro e corre a Betlemme: «C’è una fila di gente che mi aspetta ogni giorno. Gente che chiede aiuto. E noi cerchiamo di fare il possibile per aiutarli. Tutti. Cristiani e musulmani. Tutti figli di Dio».

da Gerusalemme
Roberto Cetera