· Città del Vaticano ·

Palestinesi bloccati e imprese israeliane in crisi

Gli effetti della guerra
sul lavoro e l’economia

An Israeli soldier stands guard at the Israeli D.C.O checkpoint for people with VIP status near the ...
14 novembre 2023

C’è un dramma ulteriore che si consuma dentro la tragedia che affligge Israele e Palestina dal 7 ottobre. È lo stato in cui si trovano circa 140.000 palestinesi che ogni giorno prima di quella data andavano a lavorare in Israele, e che ormai da 38 giorni sono bloccati nei loro territori senza alcuna possibilità di raggiungere i posti di lavoro. Tutti i permessi di transito per lavoro sono stati infatti sospesi immediatamente dopo lo scellerato attacco di Hamas nel sud d’Israele, lasciando quasi mezzo milione di persone, cioè i lavoratori e i familiari a carico, senza alcuna forma di sussistenza.

Oltre a loro ci sono poi da aggiungere altre due categorie di professionisti temporaneamente senza lavoro: gli addetti al settore turistico e alberghiero ovviamente crollato a presenze zero, e quei dipendenti che pur lavorando in Palestina per aziende palestinesi possono raggiungere il posto di lavoro solo passando attraverso un check point israeliano che si inframmezza tra i vari insediamenti dei coloni. Insomma, chi prima della guerra doveva attraversare un muro, ora è costretto a rimanere proprio a casa, e senza stipendio (per i tanti che lavorano a giornata), o con una retribuzione ridotta, e affidata perlopiù alla discrezione del datore di lavoro per quelli che percepiscono uno stipendio mensile.

Ma chi sono e cosa fanno queste persone? Principalmente operano nei settori dell’agricoltura e delle costruzioni. Due campi in cui l’interruzione dei lavori ha ripercussioni immediate molto gravi: i raccolti vanno in malora e i nuovi edifici non possono essere consegnati a chi deve abitarli. Il che implica un danno rilevante anche per gli imprenditori israeliani, che, infatti, pur aderendo alle ragioni della guerra, se ne lamentano assai. Il blocco dei permessi di lavoro punisce dunque operai, impiegati, funzionari palestinesi ma pure l’economia israeliana, già penalizzata anche dal richiamo dei riservisti al servizio militare. Negli ultimi anni Israele ha favorito l’immigrazione controllata di lavoratori provenienti dal sudest asiatico e dall’India — non a caso 24 thailandesi, dei circa 30mila che lavorano in Israele, sono al momento tra gli ostaggi detenuti da Hamas a Gaza — per limitare l’utilizzo di manodopera palestinese.

Ma perché malgrado tutto, tanti palestinesi preferiscono lavorare in Israele? Spiega George, 28 anni, proveniente da Bethlehem, impiegato in un albergo del centro di Gerusalemme: «Qui guadagno 6.000 shekel al mese (circa 1.700 euro); a Bethlelhem, se pure riuscissi mai a trovare un lavoro analogo — che non c’è — ne prenderei un terzo». E l’opzione di lavorare in Israele non è vista male neanche dalle istituzioni palestinesi, perché alla fine sono soldi che rientrano in Palestina e ne accrescono il pil. Fino a qualche tempo fa anche le autorità israeliane vedevano bene l’impiego di personale palestinese in Israele, in base alla considerazione che esso favorirebbe una maggiore integrazione come già esiste nel nord d’Israele, e distoglierebbe i giovani palestinesi da tentazioni estremistiche. Ma ora le posizioni di totale chiusura, impersonate dal ministro israeliano per la Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, hanno frenato decisamente la tendenza. George il 7 ottobre era di turno nel suo albergo a Gerusalemme, e dopo qualche giorno d’incertezza ha preferito rimanere nel suo posto di lavoro. Da cinque settimane non vede la sua famiglia, ma almeno ha messo al sicuro il suo lavoro.

Le autorità israeliane hanno riaperto i permessi per due sole categorie: il personale sanitario e gli insegnanti. Le scuole, dopo la prima settimana di guerra, hanno riaperto tutte. Taissir è un insegnante che vive in un villaggio vicino Hebron e insegna a Gerusalemme. Dice: «Le file e i controlli ai checkpoint ora sono molto lunghi. Per essere a scuola alle 8 devo uscire di casa alle 4.30. E tra Hebron e Jerusalem ci sono soltanto 29 chilometri!».

Il timore ulteriore di questi giorni è poi che lo choc e la paura provocati dai massacri di Hamas del 7 ottobre possa compromettere le relazioni personali generalmente buone tra imprenditori israeliani e dipendenti palestinesi. Ma, ancor più, che il ritiro dei permessi possa durare assai più a lungo che nei conflitti precedenti. Il che renderebbe tragica la condizione economica già precaria di tante famiglie palestinesi.

da Gerusalemme
Roberto Cetera