· Città del Vaticano ·

All’Augustinianum aperti i lavori del convegno sulla dimensione comunitaria della santità

Esperienza tangibile
della vita di Dio

 Esperienza tangibile della vita di Dio  QUO-261
14 novembre 2023

La santità non è una statica adesione a una perfezione di vita morale, ma una dinamica di relazione, esperienza concreta, tangibile, della vita stessa di Dio. Lo ha sottolineato il cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione, nella sua prolusione al convegno sul tema: «La dimensione della santità», apertosi lunedì pomeriggio, 13 novembre, all’Istituto patristico Augustinianum. Moderata da Alessandro Gisotti, vice direttore del Dicastero per la Comunicazione, la prima sessione è stata introdotta dal saluto del cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi, promotore dei lavori che si chiudono giovedì 16.

L’intervento del cardinale de Mendonça


Nel suo intervento, il cardinale de Mendonça ha offerto una riflessione sul capitolo 19 del libro del Levitico, ritenuto il «caposaldo dell’intera Torah» e in particolare, sul versetto 2, che recita: «Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo». In questo modo, ha spiegato il porporato, viene evidenziato il carattere universale della santità. D’altra parte, ha osservato, essa si esprime in un comportamento etico ma non vi si esaurisce, in quanto non può essere confinata a un livello esclusivamente “rituale”. Quello che il Signore chiede all’uomo di fare, ha detto il prefetto, illumina il mistero di Dio stesso, in una misteriosa circolarità. Per questo, il nucleo centrale della santità «non è una statica perfezione morale, ma una dinamica libera di relazione. Non è solo un “essere buoni”. Questo ha a che fare con un riverbero globale dell’appello di Dio alla santità». Nel Levitico, l’io viene dopo il “tu” e questo è fondamentale, ha fatto notare il cardinale, se si considera che la santità di Dio non è l’indifferenza, l’inaccessibilità. «La santità — ha detto — si declina con la categoria dell’alterità e della relazione. Il concetto di santo è una estensione del divino nell’umano. La santità è espansiva», non è un’ideologia, ma una esperienza “tattile” nella vita stessa di Dio, che include la dimensione dell’intimità, del silenzio, anche dell’assurdo che abita l’esistenza umana. In questo senso, la santità è «correre il rischio di vivere la trasformazione operata in noi da Cristo, altrimenti la fede è una passione inutile».

L’introduzione del cardinale Semeraro


Il cardinale Semeraro, nell’introduzione ha ricordato il brano paolino della prima lettera ai Corinzi (10, 16-17), che è il testo referente fondamentale e il più adatto per illustrare la comunione dei santi: «Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane». È la «sinodalità» fondamentale della Chiesa, ha detto, che è poi quella che intende san Giovanni Crisostomo, il quale con la parola «sinodo» indica l’assemblea liturgica che, «unendo la propria voce a quella degli angeli e dei santi, con-verge per innalzare la medesima lode a Dio tre volte santo».

Rispetto alla dimensione comunitaria della santità, ha spiegato che così formulata essa potrebbe fare pensare «a una recente acquisizione nella teologia della santità». Si tratta, invece, «di un classico anche se occorre ammettere che, almeno sino al Concilio Vaticano ii e al suo magistero sulla vocazione universale alla santità, la concezione in massima parte emergente non è stata comunitaria», bensì fortemente «individualistica». Nei trattati specifici, infatti, «a parte le considerazioni dogmatiche generali sulla nota della santità della chiesa, ci si riferisce quasi del tutto al singolo credente». Con tutto ciò, ha aggiunto, si troverà senz’altro «un fondamento nella formula ecclesiologica della communio sanctorum inserita, benché tardivamente, nel Simbolo degli Apostoli». Il primo credo rimastoci che ne attesta la presenza, difatti, «è il commento di Niceta di Remesiana (414)». Il suo senso originario, ha evidenziato, è «probabilmente legato all’uso orientale di indicare la medesima partecipazione dei circumstantes al cibo santo posto sull’altare». C’è, poi, l’altro senso, ancora oggi, forse, prevalente nel comune sentire dei fedeli e iniziato da Fausto di Riez, un vescovo contemporaneo di Niceta, «di comunione della Chiesa sulla terra con la Chiesa celeste degli angeli e dei santi». Un esempio concreto della consapevolezza di questa comunione, ha ricordato il prefetto, è un testo molto bello di Paolino da Nola. Nella patrologia latina, ha osservato il cardinale, «i commenti patristici più lapidari, e più noti», al brano paolino sono quelli di sant’Agostino e di san Leone magno. San Tommaso d’Aquino, ha aggiunto il porporato, «confermerà e fisserà sino ad oggi questi significati nella nostra tradizione teologica». Già nel Commento alle Sentenze egli «ne porrà la ragione fondamentalmente nella virtù della carità, la quale connette i cristiani l’uno all’altro». Sull’articolo di fede Tommaso «torna, ovviamente, nel Commento al Simbolo, dove, richiamando l’ecclesiologia paolina della Chiesa corpo di Cristo, argomenta ricorrendo all’analogia con il corpo umano».

Ciò premesso, ha spiegato, nel testo di san Paolino di Nola è presente qualcosa che nei testi pur fondamentali citati sembra come passato in secondo piano. È, però, un qualcosa che aiuta a comprendere meglio il termine «dimensione» presente nel tema del convegno. Si tratta «del carattere dinamico e personale dei vincoli che congiungono i cristiani, segnalato dal richiamo alla virtù della speranza». Scriveva san Paolino: stamus in praesenti, nitimur in futurum, dove «il verbo latino nitor unito alla preposizione in seguita dal caso accusativo indica una forte tensione spirituale, una spinta verso l’alto». Dato che «l’àncora, che tradizionalmente simboleggia la speranza, non è in basso», ma, come si legge nella lettera agli Ebrei, è fissata in alto». La «dimensione» si muove, dunque, tra i due poli: «del presente e del futuro: stamus in praesenti, nitimur in futurum». È un movimento «dall’uno all’altro, che riguarda ciascuno di noi, oggi, nel nostro terreno peregrinare».

Le relazioni di Manicardi e Borghesi


Nella sessione mattutina di oggi, martedì 14 novembre, Luciano Manicardi, monaco di Bose, ha spiegato che Tommaso d’Aquino «si oppone a coloro che aprivano a caso la Bibbia per risolvere le controversie riconoscendo che una simile pratica è un’offesa allo Spirito Santo, mentre i cristiani hanno come metodo quello di dibattere e discutere in assemblea». Se è vero che, nello spazio cristiano, «ogni istituzione sinodale è preceduta e nasce dall’evento fondante della comunione», così ogni istituzione, «ogni riunione sinodale deve condurre alla comunione, creare comunione, avere la comunione come obiettivo ultimo». Comunione che «si edifica per la via faticosa del comune ascolto, della comune discussione, della comune consultazione, della comune deliberazione». Il passaggio pasquale «dall’io al noi avviene anche con l’arte della condivisione della parola, ma non solo». In effetti, «la realizzazione della sinodalità richiede competenze relazionali». Questo vale per tutti, ovviamente, ma deve essere «sottolineato in modo particolare per chi è incaricato di un ministero ordinato».

A sua volta, Massimo Borghesi, dell’Università di Perugia, ha sottolineato che uno dei santi cari a Papa Francesco è Pierre Favre. L’ideale di questo gesuita è il «ritorno alla vita della Chiesa primitiva». Si tratta della risposta alla crisi morale e religiosa della Chiesa del tempo, profondamente mondanizzata. È dal mutamento della vita, ha fatto notare Borghesi, da una autentica testimonianza di fede e di carità che occorre ripartire, perché il male non alberga, innanzitutto, nell’intelletto, nelle idee, ma nell’anima. In questo senso, occorre «curare il cuore» e a ciò miravano gli Esercizi ignaziani, «a una Riforma della Chiesa attraverso la riforma personale». Un progetto, ha aggiunto, che ricorda «da vicino quello del giovane provinciale Bergoglio nella Chiesa argentina degli anni Settanta».