· Città del Vaticano ·

La stanchezza tra israeliani e palestinesi per un conflitto lungo 75 anni

Coltivare la speranza
e credere nella pace soprattutto
in un tempo di crisi

epa10960968 Family members taking part in lighting 1,400 memorial candles in memory of the victims, ...
11 novembre 2023

Nella preghiera per la pace dell’altra sera a Gerusalemme il cardinale Pizzaballa ha ricordato come il tratto distintivo del cristiano sia quello di sopravanzare la lamentazione della sofferenza con la coltivazione della speranza. Anche quando la speranza è offuscata dalle nubi del male, dell’incomprensione, della violenza, della guerra. Non è soltanto un esercizio di carità degli uomini di buona volontà velato dall’utopia che ci conforta e ci sostiene. La speranza è un atteggiamento che si esprime concretamente nella durezza della realtà.

La speranza germina sempre dalla crisi. Che non va rimossa ma accolta, come ci ricorda Papa Francesco. Così accade anche nella realtà della politica. Così anche nella realtà del conflitto israelo-palestinese. Alla guerra di Yom Kippur seguì la pace con l’Egitto. Alla prima Intifada seguirono gli accordi di Oslo.

Perché la guerra mostra a tutti le proprie fragilità. Anche a chi la vince.

Così è anche per l’orrore del 7 ottobre. Le “vittorie” reclamate poi sul terreno militare dall’uno e dall’altro non riescono a nascondere la debolezza che alberga nei due campi. Debolezza che si esprime soprattutto nella stanchezza. I due popoli sono stanchi. Stanchi di una guerra che quest’anno celebra il suo 75° anniversario. Stanchi gli israeliani di vivere in un paese che vede ogni giorno le sue grandi potenzialità limitate da un’instabilità permanente. Stanchi i palestinesi di vivere una situazione insostenibile di privazione della libertà di movimento, di angherie e di soprusi. Una stanchezza palpabile in ogni conversazione nelle strade di Gerusalemme. Forse l’ipotesi dei due Stati, come sola risposta possibile a questa stanchezza, paradossalmente non è mai stata così vicina come oggi. Non è cosa di domani, né di dopodomani; perché non può darsi come vittoria di chi ha scatenato questa guerra. Ma in entrambe le società (meno nei politici che le rappresentano) cresce un’insofferenza al presente che può avviare una pacificazione definitiva. «Dobbiamo imparare a rispettare ed onorare il dolore altrui, noi il loro e loro il nostro» ha detto ieri Rachel Golberg Polin, la madre del giovane Hersh ostaggio a Gaza da 35 giorni. Non è utopia. È speranza.

di Roberto Cetera