· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
L’allargamento del gruppo con sei nuovi Stati membri cambia gli equilibri globali

Quale futuro per i Brics?

 Quale futuro per i Brics?   QUO-258
10 novembre 2023

Per poter comprendere il cambiamento in atto nella geopolitica internazionale occorre tenere presente il ruolo dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), un’aggregazione di Paesi che a partire dal gennaio 2024 avrà altri sei “membri effettivi”: Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. La decisione è stata ufficializzata nell’agosto scorso al vertice di Johannesburg in Sud Africa. È evidente l’influenza che questi Paesi, nel loro insieme, avranno nell’Africa subsahariana e in quella mediterranea, per non parlare della macroregione latinoamericana, del Medio Oriente o del sudest asiatico.

Siamo infatti di fronte ad uno scenario inedito rispetto a quello che si era delineato a partire dalla metà del secolo scorso. Per diversi decenni, sia gli Stati Uniti come anche l’Europa hanno avuto il potere di dettare gli standard di normalità a tutti gli altri attori internazionali sostenendo la sintesi vincente di mercato e democrazia. Ma oggi, questo mondo non esiste più. Con il passare degli anni, come era già evidente negli anni Novanta del secolo scorso, la globalizzazione, nelle sue molteplici declinazioni, ha determinato uno scenario sempre più complesso segnato dal graduale mutamento della distribuzione del potere e del prestigio internazionale, per effetto del declino relativo degli attori occidentali, della comparsa di un vero sfidante globale quale la Cina e, sullo sfondo, dell’ascesa di altre grandi potenze almeno potenzialmente globali quali l’India e la Russia, e dell’assunzione di sempre maggiori responsabilità all’interno delle rispettive regioni da parte di Stati quali la Turchia in Medio Oriente, il Sud Africa nell’Africa subsahariana e il Brasile in America Latina.

La progressiva affermazione di questo nuovo aggregato geoeconomico, identificato dall’acronimo Brics, era già stata prefigurata nel 2001 da Jim O’Neill, allora chief economist della Goldman Sachs. In un documento (Global Economics Paper No: 66) redatto per la Banca di investimenti statunitense, egli scrisse senza esitazione che queste nazioni avrebbero verosimilmente dominato l’economia mondiale del secolo appena iniziato e risultava dunque necessario inglobarle nell’economia mondiale egemonizzata dal sistema occidentale.

Il problema di fondo è che questo processo si è sempre più rivelato strutturalmente problematico. Se, infatti, un tempo le strade percorribili erano predefinite e non negoziabili, oggi le opzioni disponibili appaiono di più aperte, ma spesso confliggenti. Con il risultato che si acuisce una sorta di disordine planetario motivo per cui sulle questioni che contano — ad esempio, la scelta delle misure da adottare di fronte al global warming, o l’emergenza vaccinale in Africa, per non parlare della ricerca di un’intesa per la pace in Ucraina o in Palestina — si determina un vero e proprio immobilismo ben descritto dall’economista, giornalista e scrittore venezuelano Moisés Naím: «Un mondo in cui i protagonisti dispongono di potere sufficiente per bloccare le iniziative di tutti gli altri, ma nessuno ha il potere di imporre la propria linea d’azione, è un mondo in cui le decisioni non vengono prese».

Lungi dal voler essere pessimisti, il quadro che abbiamo di fronte, a livello globale, potrebbe essere definito, prendendo in prestito il gergo del professor Lucio Caracciolo, come una sorta di “Caoslandia”, vale a dire un contesto estremamente complesso nel quale le aggregazioni politiche ed economiche rispondono a certi determinati interessi che comunque da soli non riescono a soddisfare quelli dei singoli Paesi. Motivo per cui spesso ci si muove in ordine sparso.

Questa fenomenologia, dunque, non può essere letta e interpretata con il lessico della “guerra fredda”, vale a dire dei blocchi, ma con quello dell’interazione tra i Paesi nell’ambito delle rispettive aggregazioni. Dunque uno scenario che, parafrasando il sociologo polacco Zygmunt Bauman, appare liquido nella sua composizione. Pertanto l’allargamento del Brics contribuirà certamente ad ampliare la base di consenso del cartello consentendo una maggiore diversificazione tra le fonti di crescita delle economie dei Paesi membri, anche se poi non sarà tutto oro quello che luccica. Ad esempio, la new entry nei Brics, l’Egitto, per quanto possa fare affidamento sulla collaborazione con economie robuste come quella cinese e indiana, dovrà pur sempre misurarsi con la difficoltà cronica di prendere in prestito nella propria valuta, una debolezza che alla prova dei fatti può determinare, usando il gergo anglosassone, un calo di sentiment da parte degli investitori stranieri, quello scenario che ha condotto in questi anni alla crisi finanziaria di molti Paesi del Sud del mondo.

Non è marginale il fatto per cui nella Dichiarazione finale di Johannesburg venga messo in primo piano «l’impegno per un multilateralismo inclusivo e il rispetto del diritto internazionale, compresi gli scopi e i principi sanciti nella Carta delle Nazioni Unite come pietra miliare indispensabile, e il ruolo centrale delle Nazioni Unite in un sistema internazionale in cui gli Stati sovrani cooperano per mantenere la pace e la sicurezza, per promuovere lo sviluppo sostenibile, per garantire la promozione e la protezione della democrazia, dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutti e per promuovere la cooperazione basata sullo spirito di solidarietà, rispetto reciproco, giustizia e uguaglianza».

Da questo punto di vista, un’occhiata al loro peso economico nel mondo conferma la loro influenza. Con l’ingresso nei Brics di altri sei Paesi, il cartello rappresenterà oltre il 45 per cento della popolazione mondiale con 3,7 miliardi di abitanti; in confronto il g7 (Germania, Canada, Usa, Francia, Italia, Giappone e Regno Unito), esprime appena il 10 per cento della popolazione mondiale con 775 milioni di abitanti. Da rilevare inoltre che nel 2022 il nuovo aggregato a 11 Paesi dei Brics ha registrato un Pil pari a 29.374 miliardi di dollari. Un valore, questo, inferiore ai 43.700 miliardi di dollari dei Paesi g7 i quali però sono già perdenti sulle esportazioni in alta tecnologia. Secondo i dati della Banca mondiale, i Brics a 11 sono in netto vantaggio con oltre 990.000 miliardi di dollari di esportazioni contro 755.000 miliardi dei Paesi g7 .

Tra i Brics esistono ovviamente molti orientamenti e percezioni differenti. Un dato consolidato e in crescita è l’utilizzo delle monete locali nei commerci e questo con la finalità di sostenere le economie nazionali contrastando la fuga di capitali. Si è molto parlato e scritto dell’intenzione dei Brics di creare una nuova moneta circolante. «Ciò non è mai stato veramente in agenda» ha spiegato l’economista Paolo Raimondi che da anni studia l’economia dei Paesi emergenti, precisando che nella Dichiarazione finale del summit di Johannesburg hanno incoraggiato l’uso delle monete locali nel commercio internazionale e nelle transazioni finanziarie tra i Brics e i loro partner commerciali, auspicando il rafforzamento delle reti bancarie e la possibilità di fare pagamenti nelle valute locali. «La vera novità — commenta sempre Raimondi — è che ora essi stanno studiando la creazione di un’unità di conto, sul modello dell’Ecu europeo prima dell’entrata in vigore dell’euro». L’Ecu — è bene rammentarlo — non è stata una moneta circolante ma un sistema per favorire il commercio dentro l’Unione europea e con gli altri Paesi, preparando il processo di unione monetaria, politica e istituzionale dell’Europa.

Nel frattempo, comunque, indipendentemente da quelli che saranno gli esiti del confronto monetario a livello globale, non c’è da dormire sonni tranquilli. Come tutti sanno infatti, l’incertezza geopolitica che continua a dominare su scala globale, legata alla guerra russo-ucraina, alla crisi israelo-palestinese, alle tensioni intorno a Taiwan, al global warming e al rischio di shock sui mercati dell’energia e delle materie prime, pesa come una spada di Damocle sul presente e sul futuro dell’economia mondiale e in particolare su quella del continente africano, acuendo la crisi debitoria la cui composizione, almeno per la parte corporate resta tuttora pericolosamente sbilanciata verso le valute forti.

Di positivo, guardando allo scenario africano, c’è da considerare che tra i possibili effetti positivi del potenziamento dei Brics potrebbe esserci, almeno sulla carta, quello rispetto all’Africa Continental Free Trade Area (AfCFTA). Si tratta del mercato comune africano che disegna la nuova geografia economica a livello continentale e rappresenta una pietra miliare all’interno del processo d’integrazione africana attraverso il libero scambio delle merci. Non è facile immaginare il futuro anche se poi è chiaro che le convergenze in materia economica non dovrebbero, almeno in linea di principio, prescindere da allineamenti che escludano l’Africa da un confronto e una collaborazione con tutti i player internazionali.

Tutto questo però sarà realmente possibile se vi sarà un effettivo impegno per un nuovo ordine economico internazionale ben evidenziato nell’esplicita richiesta formulata a Johannesburg di «una riforma delle istituzioni di Bretton Woods, compreso un ruolo maggiore per i mercati emergenti e i Paesi in via di sviluppo». In un mondo-villaggio globale se questa istanza fosse delusa sarebbero seri guai per tutti e nessuno uscirebbe vincitore.

di Giulio Albanese