· Città del Vaticano ·

Intervista con padre Gabriele Romanelli, parroco di Gaza

In fuga dalla paura

 In fuga dalla paura  QUO-257
09 novembre 2023

«È molto più dura per me stare fermo qui, che sotto le bombe a Gaza», ci dice padre Gabriele Romanelli, 54 anni argentino di nascita, parroco di Gaza, che incontriamo nel palazzo del Patriarcato di Gerusalemme. È prete della Congregazione religiosa del Verbo Incarnato. Da 18 anni svolge la sua attività pastorale a Gaza. Padre Gabriele il 7 ottobre era andato a Bethlem per comprare delle medicine per una suora, e da allora è lontano dalla sua gente. «Vorrei tornare subito ma ovviamente è impossibile».

Padre Gabriele ci racconti: com’era la vita quotidiana a Gaza fino al 7 ottobre?

Non era una vita serena. Un’ordinaria straordinarietà. Ora si dice che il 7 ottobre è iniziata la guerra, ma noi abbiamo sempre vissuto un clima di guerra. Certo, non tragica come quella che stiamo soffrendo ora, ma a Gaza è routine vivere tra sirene ed esplosioni.

Oltre a me e a padre Jusuf, ci sono le suore della nostra stessa congregazione, poi 5 suore di Madre Teresa, che fanno da 50 anni un lavoro straordinario con i malati e i disabili in particolare, e poi le Suore del Rosario di Gerusalemme che lavorano nella scuola e in parrocchia. Dal 2009, da quando sono parroco di Gaza, ho visto così tante guerre che non saprei più dire il numero; alcune di due o tre giorni, così che le statistiche non le “contano” come guerre. È una vita, che sembra un racconto surreale, perché da un lato tu hai tutte le attività che trovi in ogni parte del mondo, uffici, imprese, negozi, e dall’altra ogni tanto le sirene, le bombe, l’impossibilità a muoversi liberamente ti rendono la vita impossibile.

Anche la nostra vita di religiosi seguiva questa dicotomia: da un lato la messa quotidiana, l’ora di adorazione eucaristica, la cura spirituale, e dall’altra un’intensa attività sociale di assistenza verso i sofferenti e i poveri, e con i giovani, spesso fino alle 23. E poi l’attività educativa, per quanto minuscola, la comunità cattolica gestisce ben tre scuole, frequentate soprattutto da musulmani.

In genere la comunità cattolica di Gaza che posizionamento sociale ha?

È difficile da dire, perché, malgrado il loro numero esiguo, i cristiani si dividono in tre gruppi, a seconda della loro provenienza. Il primo gruppo è quello dei palestinesi che hanno sempre vissuto a Gaza, loro in genere sono relativamente benestanti, commercianti e professionisti; un gruppo che negli anni è diminuito perché molti sono emigrati. Poi un secondo gruppo è quello dei rifugiati arrivati dopo la guerra del 1948: venivano da Gerusalemme, da Tel Aviv, da Jaffa, da Ashkelon, alcuni di loro sono riusciti a crearsi un ruolo nella società malgrado fossero arrivati come rifugiati soltanto con una valigia. Quando arrivarono, furono assistiti per l’inserimento dalla Chiesa cattolica, infatti ancora oggi (sono rimaste solo 11 famiglie) vivono in un piccolo quartiere che è chiamato “quartiere cristiano”, dove ha sede anche la Caritas e il centro Tommaso d’Aquino per la formazione dei giovani cristiani. Quando arrivarono furono alloggiati prima nella chiesa; ci sono alcuni di loro, ormai anziani, che sono nati nella chiesa o nel cortile di fronte. Infine c’è un terzo gruppo più recente arrivato nel 1993, 30 anni fa. Dopo gli accordi di Oslo, Arafat inviò a Gaza un certo numero di funzionari pubblici, molti dei quali cristiani, per garantire la gestione amministrativa della Striscia sotto il governo dell’Olp. Quando nel 2007 poi c’è stato il cambio di governo, essendo fedeli a Mahmud Abbas, sono stati esautorati delle loro funzioni, e ora, pur rimanendo dipendenti del governo centrale di Ramallah, percepiscono solo una parte dello stipendio; loro costituiscono oggi, da 16 anni, la fascia più debole della comunità. Sì, forse lo stato sociale dei cristiani a Gaza è leggermente migliore degli altri abitanti della Striscia, ma questo è soprattutto dovuto alla rete di assistenza sociale messa in piedi dalla Chiesa. La Chiesa Cattolica è piccola ma molto efficace negli aiuti.

Piccola quanto? Quanti sono esattamente i cristiani a Gaza?

Io faccio le statistiche ogni anno a Natale, prendendole dai registri ecclesiali. L’anno scorso risultava che tutti noi cristiani eravamo 1017. Di questi, i cattolici latini sono appena 135, religiosi inclusi. Poi c’è un ventaglio di varietà: ci sono molti matrimoni misti tra latini ed ortodossi, ortodossi che si considerano cattolici, tanti ortodossi partecipano ai nostri gruppi parrocchiali; abbiamo dieci gruppi parrocchiali. La nostra Chiesa è già ecumenica, di un ecumenismo dal basso più diffuso e pratico delle dispute teologiche. Quindi siamo in totale un migliaio di persone su una popolazione di quasi due milioni e mezzo di abitanti: lo 0,00… qualche cosa. Malgrado l’esiguità abbiamo però, come dicevo, tre scuole, e più di dieci ambulanze equipaggiate della Caritas. Pensi che durante la pandemia più del 60% dei casi di Covid a Gaza sono stati curati dalla nostra Caritas, più del ministero della salute di Gaza e di quello del governo centrale. Abbiamo tre opere di carità: due case delle suore di Madre Teresa, una per i bambini e una per gli adulti, entrambi disabili. E poi abbiamo una casa per quelli che noi chiamiamo i “bambini farfalla”, cioè bambini affetti dalla epidermolisi bollosa, che è una sindrome, senza possibilità di cura, che rende la pelle fragile fino al sanguinamento e alla formazione di bolle su tutto il corpo. E’ una patologia genetica causata dall’endogamia: in Palestina sono ancora frequenti i matrimoni tra consanguinei. E poi la Caritas, il gruppo di Sant’Antonio per i poveri; insomma tante iniziative a sostegno dei più poveri e degli ammalati. Ovviamente tutte queste attività non sono indirizzate solo alla nostra piccola comunità, ma a tutta la popolazione, indifferentemente dall’appartenenza religiosa. Tutti ne beneficiano.

 

Ecco, da questo punto di vista, vorrei chiederle: i cattolici come vengono visti dalla maggioranza musulmana?

In genere vengono ben considerati e ben amati. Spero che questa guerra non rovini anche i precedenti rapporti tra le persone. Posso dire che non abbiamo mai avuto problemi maggiori di relazione interreligiosa. Qualche manifestazione di radicalismo non ci ha mai provocato veri danni.

 

Lei vive a Gaza da tanti anni, può dirci come ha visto la progressiva islamizzazione del conflitto? I palestinesi non avevano una tradizione fondamentalista nel loro passato.

È vero quello che lei dice, anche nella mia esperienza a Gaza ho potuto osservare questo processo. Processo peraltro iniziato già negli ultimi tempi della gestione dell’Autorità Palestinese. Ricordo che immediatamente dopo la presa del potere da parte del gruppo attuale venne indicata l’osservanza del Haram, cioè dei divieti previsti nel codice di comportamento islamico. Poi col tempo, soprattutto dopo la perdita del potere in Egitto dei Fratelli Musulmani, la pressione è diminuita. Deve comunque considerare — lo dico soprattutto per i vostri lettori occidentali — che in tutto il Medio Oriente esiste una diversa percezione del fatto religioso. La gente qui è molto più religiosa, come a volte dico: in Medio Oriente anche l’ateo crede. Nel passato che lei prima ricordava, per esempio, si incontravano nella leadership palestinese dei convinti comunisti che erano però anche ferventi e devoti cristiani. Quando ero a Beit Jala c’era un duro leader comunista che ogni volta che mi incontrava si inchinava e voleva baciarmi la mano. Io gli dicevo “Ma che fai?” e lui mi rispondeva “Ma padre questa mano ogni mattina alza il calice del Signore, il Sangue di Cristo!”. Il Medio Oriente è così. Ora, per tornare alla sua domanda, io non saprei dirle in che misura l’islamizzazione della società sia avvenuta se per convenzione o imposizione, l’unica cosa che mi sento di dirle è che certe radicalizzazioni si nutrono anche dell’ingiustizia delle condizioni di vita.

Cerchi di capirmi. Non può essere imputato come un delitto essere nati a Gaza. Sedici anni di embargo. È come essere in prigione. Qualche via d’uscita c’è stata solo verso l’Egitto, ma perché dover emigrare verso l’Egitto se le tue relazioni familiari stanno a Bethlem, a Gerusalemme, a Hebron? Mi rendo conto che tutta la situazione è complessa e difficile, ma se in cima ai problemi rimane irrisolto quello della libertà di movimento delle persone, tutti gli altri diventano minori.

E se in cima c’è la pace ancor più. Una vita pacifica è impossibile. Ogni giorno non sai se il giorno seguente potrai andare al lavoro o a scuola. E ogni giorno non sai quando sarà attaccata l’elettricità. Perché, già in condizioni “normali” abbiamo solo 4 ore al giorno di elettricità. Non sai quando poter cucinare, accendere la lavatrice, ricaricare il telefono, guardare le news alla televisione, e ogni giorno quelle 4 ore cambiano, non sono mai le stesse. Tutti a Gaza cercano di autoprodursi energia con le rinnovabili, ma ora i bombardamenti hanno messo fuori uso gli impianti sui tetti. Noi in chiesa siamo fortunati perché abbiamo 8 ore, perché i nostri tetti sono pieni di pannelli solari, e la gente viene in chiesa per ricaricare il telefono. Capisce cosa vuol dire vivere per 16 anni con 4 ore al giorno di elettricità? Magari dalle 4 alle 7 del mattino. E poi, un altro capitolo: l’acqua. Poca e cattiva. La maggior parte della popolazione di Gaza ha un problema con l’acqua. Insomma la vita ‘ordinaria’ a Gaza non è affatto ‘ordinaria’.

Ogni tanto riusciamo in questi giorni a comunicare con il suo gregge a Gaza, quando le linee sono attive. Ed è uno strazio vedere questi 700 uomini, donne, anziani e bambini stipati dentro la chiesa ormai da 32 giorni.

All’inizio erano circa 500, dopo il bombardamento della Chiesa ortodossa di San Porfirio altri 200 si sono uniti a loro. Con quel bombardamento la nostra comunità è diventata ancora più piccola: come le dicevo eravamo 1017, ora siamo 999. Diciotto non ci sono più, sono finiti sotto le macerie del “danno collaterale”. Li conoscevo tutti e diciotto, conoscevo le loro storie, le loro vite, i loro affetti.

Le telefonate di Papa Francesco hanno un valore rinfrancante enorme per tutti loro.

Anche con lei ha parlato.

Sì, e mi ha parlato con la premura e la preoccupazione di un padre. Essendo argentini (ed è l’unico sorriso di questa conversazione, ndr) abbiamo parlato in porteño.

Essere una minoranza è dura ovunque, esserlo in Medio Oriente è più dura, esserlo a Gaza è molto, molto più dura. La maggioranza intorno a noi, non ci è ostile ma ignora la nostra esistenza.

La nostra parrocchia è intitolata alla Sacra Famiglia, perché questa Striscia fu calpestata dai passi di Gesù, Maria, e Giuseppe, in fuga verso l’Egitto. E anche noi oggi siamo in fuga, dalla paura, dall’oppressione.

da Gerusalemme
Roberto Cetera