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Il magistero

 Il magistero  QUO-257
09 novembre 2023

Giovedì 2

Il prezzo
di ogni guerra

La celebrazione di oggi ci porta a due pensieri: memoria e speranza.

Memoria di coloro che ci hanno preceduto, che hanno concluso questa vita; memoria di tanta gente che ci ha fatto del bene: in famiglia, tra gli amici.

E memoria anche di coloro che non sono riusciti a fare tanto bene, ma sono stati ricevuti nella misericordia di Dio.

È il mistero della grande misericordia del Signore.

E poi speranza. Quella di oggi è una memoria per guardare avanti, per guardare il nostro cammino, la nostra strada.

Noi camminiamo verso un incontro, con il Signore e con tutti.

E dobbiamo chiedere al Signore questa grazia della speranza: la speranza che mai delude; la speranza, che è la virtù di tutti i giorni che ci porta avanti, ci aiuta a risolvere problemi e a cercarne le vie d’uscita.

Quella speranza feconda, quella virtù teologale di tutti i giorni, di tutti i momenti. La virtù teologale “della cucina”, perché è alla mano e ci viene sempre in aiuto.

Viviamo in questa tensione fra memoria e speranza.

All’entrata, guardavo l’età di questi caduti. La maggioranza è tra i 20 e i 30 anni. Vite stroncate, vite senza futuro.

Ho pensato ai genitori, alle mamme che ricevevano quella lettera: “Signora, lei ha un figlio eroe”. “Sì, ma me l’hanno tolto!”. Tante lacrime in quelle vite stroncate.

E non potevo non pensare alle guerre di oggi.

Anche oggi succede lo stesso: tante persone giovani e non più giovani.

Nelle guerre del mondo, anche in quelle più vicine a noi, in Europa e al di fuori: quanti morti! Si distrugge la vita senza averne coscienza.

Oggi custodendo la memoria dei morti e custodendo la speranza, chiediamo al Signore la pace, perché la gente non si uccida più nelle guerre.

Tanti innocenti morti, tanti soldati che vi lasciano la vita. Ma perché?

Le guerre sono sempre una sconfitta. Non c’è vittoria totale.

Uno vince sull’altro, ma dietro c’è sempre la sconfitta del prezzo pagato.

(Omelia a braccio nella messa per Tutti i fedeli defunti presieduta nel Rome War Cemetery)

Venerdì 3

La piccolezza
è la via
che conduce
al cielo

Benedetto xvi , che oggi ricordiamo insieme ai Cardinali e ai Vescovi defunti nel corso dell’anno, nella sua prima Enciclica Deus caritas est scrisse che il programma di Gesù è «un cuore che vede».

Quante volte ci ha ricordato che la fede non è anzitutto un’idea da capire o una morale da assumere, ma una Persona da incontrare, Cristo: il suo cuore batte forte per noi, il suo sguardo s’impietosisce davanti alle nostre sofferenze.

La compassione di Gesù ha una caratteristica: è concreta.

Egli, dice il Vangelo, si “avvicina e tocca la bara” (Lc 7, 14).

Toccare la bara di un morto era inutile; a quel tempo, inoltre, era ritenuto un gesto impuro, che contaminava chi lo compiva.

Ma Gesù non bada a questo, la sua compassione azzera le distanze e lo porta a farsi vicino.

Di poche parole, Cristo non fa prediche sulla morte, ma dice a quella madre [la vedova di Nain] una cosa sola: «Non piangere!». Perché? È sbagliato piangere? No.

Gesù stesso piange. Ma a quella mamma dice: Non piangere, perché con il Signore le lacrime non durano per sempre, hanno fine.

Egli ha fatto sue le nostre lacrime per toglierle a noi.

Ecco la compassione del Signore, che arriva a rianimare quel giovane figlio.

Gesù lo fa, diversamente da altri miracoli, senza nemmeno chiedere alla madre di avere fede.

Perché un prodigio così straordinario e tanto raro?

Perché qui sono coinvolti l’orfano e la vedova, che la Bibbia indica, insieme al forestiero, come i più soli e abbandonati, che non possono riporre fiducia in nessun altro che non sia Dio.

Sono le persone più intime e care al Signore. Non si può essere intimi e cari a Dio ignorando loro, che godono della sua protezione e della sua predilezione, e che ci accoglieranno in cielo. La vedova, l’orfano e il forestiero.

Guardando a loro, ricaviamo un insegnamento, che condenso nella seconda parola di oggi: umiltà.

L’orfano e la vedova sono infatti gli umili per eccellenza, coloro che, riponendo ogni speranza nel Signore e non in sé stessi, hanno spostato il centro della vita in Dio.

Non fanno conto sulle proprie forze, ma su di Lui, che si prende cura di loro.

Rifiutano ogni presunzione di autosufficienza, si riconoscono bisognosi di Dio e si fidano di Lui: loro sono gli umili.

E sono questi poveri in spirito a rivelarci la piccolezza tanto gradita al Signore, la via che conduce al Cielo.

Dio cerca persone umili, che sperano in Lui, non in sé stessi e nei propri piani.

Questa è l’umiltà cristiana, non una virtù fra le altre, ma la disposizione di fondo della vita: credersi bisognosi di Dio e fargli spazio, riponendo ogni fiducia in Lui.

Dio ama l’umiltà perché gli permette di interagire con noi.

Dio ama l’umiltà perché è Lui stesso umile.

Scende verso di noi, si abbassa; non s’impone, lascia spazio.

Dio non solo è umile, è umiltà. “Tu sei umiltà, Signore”, pregava san Francesco di Assisi.

Dio ama coloro che si decentrano, che non sono il centro di tutto, gli umili appunto [che] gli assomigliano più di tutti.

Ecco perché, dice Gesù, «chi si umilia sarà esaltato».

Mi piace ricordare le parole iniziali di Papa Benedetto: «umile lavoratore nella vigna del Signore».

Sì, il cristiano, soprattutto il Papa, i Cardinali, i Vescovi, sono chiamati a essere umili lavoratori: a servire, non a essere serviti; a pensare, prima che ai propri frutti, a quelli della vigna del Signore.

Quanto è bello rinunciare a sé stessi per la Chiesa di Gesù!

Chiediamo a Dio uno sguardo compassionevole e un cuore umile, perché sulla via della compassione e dell’umiltà il Signore ci dona la sua vita, vince la morte.

(Messa in suffragio del defunto Sommo Pontefice Benedetto xvi e dei cardinali e vescovi morti
nel corso dell’anno)

Lunedì 6

Non le armi
ma la giustizia
e il dialogo
edificano
la pace

In passato ho già incontrato in Vaticano la vostra organizzazione, voce dei rabbini in Europa. Sono lieto che siamo riusciti a intensificare le nostre relazioni. Il primo pensiero e la preghiera vanno però a quanto accaduto nelle ultime settimane.

Ancora una volta la violenza e la guerra sono divampate in quella Terra che, benedetta dall’Altissimo, sembra continuamente avversata dalle bassezze dell’odio e dal rumore funesto delle armi.

Preoccupa il diffondersi di manifestazioni antisemite, che fermamente condanno. In questo tempo di distruzione noi credenti siamo chiamati, per tutti e prima di tutti, a costruire la fraternità e ad aprire vie di riconciliazione, in nome dell’Onnipotente.

Non le armi, non il terrorismo, non la guerra, ma la compassione, la giustizia e il dialogo sono i mezzi adeguati per edificare la pace.

L’essere umano, che ha una natura sociale e ritrova sé stesso a contatto con gli altri, si realizza nella trama delle relazioni sociali.

In tal senso non è solo capace di dialogo, ma è egli stesso dialogo.

Sospeso tra Cielo e terra, solo in dialogo con l’Oltre che lo trascende e con l’altro che ne accompagna i passi, può comprendersi e maturare.

La parola “dialogo” etimologicamente significa “attraverso la parola”.

La Parola dell’Altissimo è la lampada che illumina i sentieri della vita.

Essa orienta i nostri passi proprio alla ricerca del prossimo, all’accoglienza, alla pazienza; non al brusco impeto della vendetta e alla follia dell’odio bellico.

Quanto è dunque importante, per noi credenti, essere testimoni di dialogo!

Se applichiamo queste constatazioni al dialogo ebraico-cristiano, possiamo dire che ci avviciniamo gli uni agli altri attraverso l’incontro, l’ascolto e lo scambio fraterno, riconoscendoci servi e discepoli di quella Parola divina, alveo vitale nel quale germogliano le nostre parole.

Così che, per diventare edificatori di pace, siamo chiamati a essere costruttori di dialogo.

Non con le nostre forze e con le nostre capacità, ma con l’aiuto dell’Onnipotente.

Il dialogo con l’ebraismo è di particolare importanza per noi cristiani, perché abbiamo radici ebraiche.

Gesù è nato e vissuto da ebreo; Egli stesso è il primo garante dell’eredità ebraica all’interno del cristianesimo e noi, che siamo di Cristo, abbiamo bisogno di voi, cari fratelli, abbiamo bisogno dell’ebraismo per comprendere meglio noi stessi.

Perciò è importante che il dialogo ebraico-cristiano mantenga viva la dimensione teologica, mentre continua ad affrontare questioni sociali, culturali e politiche.

Le nostre tradizioni religiose sono strettamente connesse: non sono due credo tra loro estranei, sviluppatisi indipendentemente in spazi separati e senza influenzarsi a vicenda.

Giovanni Paolo ii nella Sinagoga di Roma osservò che la religione ebraica non «in un certo qual modo, è “intrinseca” alla nostra religione».

Vi chiamò «nostri fratelli prediletti», «nostri fratelli maggiori». Si potrebbe dunque dire che il nostro, più che un dialogo interreligioso, è un dialogo familiare.

Quando mi recai alla Sinagoga di Roma, dissi che «apparteniamo a un’unica famiglia, la famiglia di Dio, il quale ci accompagna e protegge come suo popolo».

Siamo legati gli uni agli altri davanti all’unico Dio; insieme siamo chiamati a testimoniare con il nostro dialogo la sua parola e con la nostra condotta la sua pace.

(Discorso consegnato a una delegazione
della Conference of European Rabbis)

Mercoledì 8

Una fede
in movimento
tra la “gente
delle strade”

Tra i tanti testimoni della passione per l’annuncio del Vangelo, quegli evangelizzatori appassionati, presento la figura di una donna francese del Novecento, la venerabile serva di Dio Madeleine Delbrêl.

Nata nel 1904 e morta nel 1964, è stata assistente sociale, scrittrice e mistica, e ha vissuto per più di trent’anni nella periferia povera e operaia di Parigi.

Abbagliata dall’incontro con il Signore, scrisse: «Una volta che abbiamo conosciuto la parola di Dio, non abbiamo diritto di non riceverla; una volta ricevuta non abbiamo diritto di non lasciare che si incarni in noi, una volta incarnata in noi non abbiamo diritto di tenerla per noi: da quel momento apparteniamo a coloro che la attendono» (La santità della gente comune, Milano 2020).

Dopo un’adolescenza vissuta nell’agnosticismo, a circa vent’anni Madeleine incontra il Signore, colpita dalla testimonianza di alcuni amici credenti.

Si mette allora alla ricerca di Dio, dando voce a una sete profonda che sentiva dentro di sé, e arriva a comprendere che quel «vuoto che gridava in lei la sua angoscia» era Dio che la cercava (Abbagliata da Dio. Corrispondenza 1910-1941, Milano 2007).

La gioia della fede la porta a maturare una scelta di vita interamente donata a Dio, nel cuore della Chiesa e nel cuore del mondo, semplicemente condividendo in fraternità la vita della “gente delle strade”.

Poeticamente si rivolgeva a Gesù così: «Per essere con Te sulla Tua strada, occorre andare, anche quando la nostra pigrizia ci supplica di restare. Tu ci hai scelti per stare in uno strano equilibrio, un equilibrio che può stabilirsi e mantenersi solo in movimento, solo in uno slancio. Un po’ come una bicicletta, che non si regge senza girare [...] Possiamo star dritti solo avanzando, muovendoci, in uno slancio di carità».

È quella che lei chiama la “spiritualità della bicicletta” (Umorismo nell’Amore. Meditazioni e poesie, Milano 2011).

Soltanto in cammino, in corsa viviamo nell’equilibrio della fede, che è uno squilibrio, ma è così: come la bicicletta. Se tu ti fermi, non regge.

Madeleine aveva il cuore continuamente in uscita e si lascia interpellare dal grido dei poveri.

Sentiva che il Dio Vivente del Vangelo doveva bruciarci dentro finché non avremo portato il suo nome a quanti non lo hanno ancora trovato.

In questo spirito, rivolta verso i sussulti del mondo e il grido dei poveri, si sente chiamata a «vivere l’amore di Gesù interamente e alla lettera, dall’olio del Buon samaritano fino all’aceto del Calvario, donandogli così amore per amore [...] perché, amandolo senza riserve e lasciandosi amare fino in fondo, i due grandi comandamenti della carità si incarnino in noi e non facciano che uno» (La vocation de la charité, 1, Œuvres complètes xiii, Bruyères-le-Châtel).

Infine, Madeleine ci insegna che evangelizzando si viene evangelizzati.

Guardando a questa testimone del Vangelo, anche noi impariamo che in ogni situazione e circostanza personale o sociale della nostra vita, il Signore è presente e ci chiama ad abitare il nostro tempo, a condividere la vita degli altri, a mescolarci alle gioie e ai dolori del mondo.

Ci insegna che anche gli ambienti secolarizzati ci sono di aiuto per la conversione, perché i contatti con i non credenti provocano il credente a una continua revisione del suo modo di credere e a riscoprire la fede nella sua essenzialità (cfr. Noi delle strade, Milano 1988).

Delbrêl ci insegni a vivere questa fede “in moto”; questa fede feconda che ogni atto di fede fa un atto di carità nell’annuncio del Vangelo.

Saluto
ai polacchi

Tra pochi giorni celebrerete l’anniversario della riconquista dell’indipendenza della Polonia. Questa ricorrenza vi stimoli alla gratitudine verso Dio. Trasmettete alle nuove generazioni la vostra storia.

(Udienza generale in piazza San Pietro)