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Zona franca
A colloquio con il teologo Pierangelo Sequeri

«Dio si identifica generando
non rispecchiando sé stesso»

 «Dio si identifica generando non rispecchiando sé stesso»  QUO-254
06 novembre 2023

La crisi del mondo contemporaneo, la trasformazione necessaria della teologia e l’urgenza, per la Chiesa, di aprirsi a quello che è il mistero più profondo del cristianesimo: l’immagine di Dio che è relazione, apertura, generatività. Questi i punti cruciali evocati da monsignor Pierangelo Sequeri, teologo e musicologo,  membro della Commissione teologica internazionale, in un’intervista rilasciata all’«Osservatore Romano». Sequeri, che ha partecipato al Sinodo appena concluso, insegna al Pontificio istituto Giovanni Paolo ii per le scienze del matrimonio e della famiglia (di cui è stato preside). Ha ideato e realizzato, con Licia Sbattella, la fondazione Esagramma Sequeri onlus, dove si svolgono percorsi riabilitativi, terapeutici e artistici per bambini e ragazzi con difficoltà psichiche e mentali. È autore di numerosi volumi di teologia fondamentale, in particolare sui rapporti tra estetica e teologia. 

Monsignor Sequeri, «L’Osservatore Romano» sta cercando da alcuni mesi di offrire ai propri lettori degli spunti di riflessione sul mondo e sulla Chiesa, e su una teologia rinnovata che alimenti entrambi. Vorremmo allora iniziare questa conversazione chiedendole, dal suo punto d’osservazione, in questo cambiamento d’epoca dove sta andando il mondo?

Il mondo va in una zona di incertezza, verso una terra incognita. Si pensava che l’umano fosse ormai esplorato, definito, acquisito e che si trattasse solo di svilupparlo. Invece, ora si scopre che c’è una parte ignota. Si è cominciato con l’inconscio, questa parte ignota dell’io fino a poco tempo fa inesplorata. Ma adesso, non è più soltanto l’inconscio, la rimozione delle cose dell’infanzia, a complicarci la vita. Ora c’è una nuova frontiera che va al di là delle nostre abitudini mentali, che si presenta come una nuova dimensione dell’essere e che ci fa anche un po’ paura. Come fosse un buco nero, un grande vuoto. Parliamo di transumano, e ci chiediamo come fa a essere il futuro dell’uomo se è anche il suo superamento? Il nocciolo che però rimane è questo: l’umano ci appare oggi più grande, nel bene e nel male, dei parametri che avevamo definito fin qui. Tanto è vero che siamo in una battaglia intellettuale e filosofica per sapere: l’intelligenza artificiale è umana o non è umana? La differenza dei generi è umana o non è umana? Quindi questo allargamento, questa apertura di orizzonte è un po’ inquietante, ma è anche un po’, come dire, innegabile, nel senso che intuiamo che c’è davanti a noi qualcosa da capire, qualcosa da esplorare. E questo riguarda tutto il sapere, che ora si trova di fronte a questa incertezza. Penso, ad esempio, anche al nostro modo di interpretare i testi, la storia, la tradizione. Oggi siamo arrivati alla «cultura della cancellazione», un modo rivoluzionario di interpretare la storia (che però ha i suoi precedenti nella damnatio memoriae conosciuta dagli antichi); oggi abbiamo acquisito una sensibilità nei confronti di quella che si chiama dignità della persona che non ha quasi più niente a che fare con l’anima, con la parte spirituale, ma ha a che fare con l’identità sessuale, con la forma sociale, con la libertà, un’inedita la libertà di disporre di sé. E tutto questo “nuovo” non è l’invenzione imposta da quattro teorici ma è qualcosa che proviene dall’esperienza, è una conoscenza di noi, che noi stessi abbiamo affinato nel bene e nel male.

E quindi dove va l’uomo? Ci troviamo davanti ad una mutazione antropologica?

Adesso percepiamo che quello che abbiamo conosciuto fino ad oggi non è forse tutto quello che l’umano è, non è tutto quello che all’umano è possibile essere, non è tutto quello che l’umano è destinato a diventare. Questa sì è una svolta antropologica. Non è una delle tante svolte del costume che si sono sempre avute nella storia dell’umanità. Piuttosto si tratta di una svolta del punto di vista, della prospettiva. La maggior parte dei nostri contemporanei si sta abituando a questa percezione, cioè a considerare necessaria ma non sufficiente la conoscenza dell’umano acquisita fin qui. Tutto questo è una trasformazione non da poco, perché i cattolici avevano scommesso su una figura di umano che si pensava immutabile, e la teologia in particolare si era molto appoggiata sull’umano, che è il bello del cattolicesimo, il quale si è inventato una religione che non si considera alternativa all’esperienza umana e alla conoscenza dell’esperienza umana. Questa “scommessa” è legata al dogma dell’incarnazione ed è un fenomeno abbastanza raro nella storia delle religioni perché normalmente la sfera religiosa, la sfera del sacro si definisce appunto come separata. Per noi cristiani, il legame è invece, per così dire, indissolubile, ma di fronte a questa apertura, a questa incertezza dell’umano, ecco che si apre la crisi e la difficoltà a sintonizzarci anche criticamente con questo cambiamento d’epoca.

Questa svolta antropologica non ha portato anche al rifiuto della dimensione trascendente?

Non più. La cosa interessante è che sta lievitando una cultura che sarà pure ostica, neoilluministica, decostruzionista, ma che va precisando questo suo confronto con il mistero umano, cioè va accettandolo come una dimensione che ha un “oltre”, che va esplorato anche con gli strumenti della religione, persino con alcune geniali intuizioni del cristianesimo. La critica semmai è sul fatto che la teologia cristiana, secondo la nuova cultura emergente, pratica questa esplorazione rimanendo ancorata alle sole evidenze acquisite in passato, mentre la libertà e la profondità di questa esplorazione andrebbe perseguita oltre il legame con l’antropologia che abbiamo custodito fin qui. Si avverte insomma il bisogno di andare oltre, ma al tempo stesso di mantenere il meglio delle acquisizioni del cristianesimo. Ci sono intellettuali di prima fila, penso a nomi come Jean-Luc Nancy, Luc Ferry e altri che sottoscrivono la formulazione cristiana del concetto di amore, di amore del prossimo; tutte cose, dicono, che non possiamo permetterci di perdere. Se noi teologi non stiamo attenti a questi fermenti, se rimaniamo addormentati ancora un po’, temo che in futuro perderemo anche questo treno e dopo cominceremo a inseguirlo così come è già successo per la filosofia. Quando la filosofia è diventata atea, e si è staccata da noi per un po’, abbiamo detto: vadano alla malora, sono tutti eretici. Dopo abbiamo dovuto inseguirli e oggi rischia di succedere la stessa cosa.

Il problema della teologia è a livello innanzitutto simbolico, di linguaggio?

Proprio così, il problema del rinnovamento della teologia è quello di aver trascurato la propria potenza simbolica che paradossalmente ci viene riconosciuta dagli altri. Sono oggi i più lontani che parlano del Dio cristiano visto come un prodigio: l’Onnipotente che si fa fragile e vulnerabile è infatti una grande apertura sul tema dell’uomo, vuol dire appunto che l’uomo ha dentro di sé quel qual cosa che non può essere buttato, semplicemente perché è vecchio o debole. Soltanto un concetto come l’incarnazione può affermare questa fiducia, altrimenti la partita antropologica è già persa. Il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, ateo e anticlericale, ha scritto una trilogia sulla storia simbolica dell’umanità e dedica 200 pagine al dogma della verginità materna di Maria in cui invita noi cattolici a non trascurare la potenza di questo simbolo. In una società come la nostra, scrive, l’idea espressa da questo simbolo, per cui una donna che diventa madre non è una donna “consumata”, di seconda scelta o minor valore, è un’idea strepitosa. Una donna madre è una donna intatta, esattamente come la vergine, perché dal punto di vista della sua integrità, della sua dignità, del suo valore, la maternità non toglie niente. Sono temi che mi sarei aspettato di leggere in qualche manuale di mariologia e invece noi magari diciamo tante belle cose, ma finiamo per parlare solo al nostro mondo di sacerdoti e suore. E invece l’ateo anticlericale riesce incredibilmente a far parlare il dogma della verginità materna al mondo contemporaneo.

La sensazione è che i simboli stanno scomparendo non solo dall’orizzonte della Chiesa, ma del mondo.

È vero, anche se questa è soltanto metà della verità. Da un lato il simbolo nel senso forte, cioè di un significato che lascia intuire la sua profondità, si sta molto alleggerendo e svuotando perché appunto prevale la conoscenza simbolica di tipo funzionale, matematico, ingegneristico, procedurale: i simboli sono i simboli della matematica che significano alcuni oggetti, alcune operazioni. Ma attenzione, c’è anche in parallelo una potenza del simbolico che lavora all’incontrario e dice: tutti i simboli che fino ad ora hanno significato la trascendenza sono ora funzionali anche alla scoperta delle possibilità di godimento della vita che viviamo. Il maestro di questo rovesciamento simbolico è la pubblicità commerciale, che è più intelligente di Hegel. La pubblicità commerciale batte la Fenomenologia dello Spirito 2 a 0, poiché essa sta avvolgendo la nostra mente e il pianeta, e ci sta dicendo: guardate qui, questa è la realtà che conta e io sono in grado di vendervela. È l’astuzia della pubblicità commerciale simbolica che vende appunto simboli: non vende automobili ma prestigio, non vende detersivi ma purezza, non vende la casa ma comfort; vende la dignità delle tue proprietà, della tua libertà, della tua padronanza di te e funziona benissimo. A questo punto il compito della teologia è riportare al suo posto la potenza del simbolico. Un lavoro che correlativamente chiede che si disinneschi questo rovesciamento e si incominci a dire: guarda che si tratta solo di un’automobile e basta. Ma al tempo stesso si deve accettare la lezione che deriva da tutto questo, da questa nuova antropologia: il fatto cioè che, con tutto il nostro illuminismo, una verità che non appare nella forma simbolica di un affetto non può essere affermata in modo convincente. Questo il cristianesimo lo sapeva, fino al Medioevo e a tutto il Seicento; sapeva che la verità non ha alcuna chance senza un’attrazione simbolica, senza capacità di ridestare in te un affetto al quale non puoi rinunciare, perché una volta che l’hai vista non puoi più perdertela. In questo la teologia è un po’ debole, anche se ha cominciato a praticare questo linguaggio. Il problema è che questo non deve essere soltanto una retorica, una sorta di psicologia per le folle, ma deve diventare una struttura, un sistema di conoscenza, una teoria ontologica della realtà.

Crisi del simbolo, svolta antropologica: la teologia si è fatta trovare impreparata, come mai?

Credo che ci siano due ragioni: una storica e una ecclesiastica. Storicamente la teologia si è molto specializzata nel confronto, anche polemico — ma anche di adattamento —, con la ragione illuminista che aveva cercato di esaltare il valore di una ragione che non ha bisogno dei simboli, degli affetti e delle esperienze estetiche. Si è così specializzata sulla dimostrazione logica e ontologica dell’esistenza di Dio. La ragione ecclesiastica è la ragione del dogma ed è diventata un’interpretazione letterale della parola del dogma. Adesso essa teme un’interpretazione simbolica che, secondo me, è invece più profonda. E questo perché se togli al dogma la sua radice simbolica, perdi la sua verità intrinseca. E così il dogma comincia ad assomigliare a un oggetto fisico che non solo non comunica nessuna affezione ma diventa povero, perde qualcosa della sua profondità. Nonostante una sempre maggiore sensibilità, ancora oggi il popolo ecclesiastico intende la forma simbolica come una forma retorica, come un arredo. Eppure, prendiamo il vangelo e ci rendiamo subito conto che Gesù parla in termini “fiscali” della religione (il culto, la purezza dei cibi, la frequentazione del tempio, le regole della legge) soltanto con i suoi interlocutori polemici, ma quando parla a tutti gli altri rivelando il mistero del Regno di Dio usa il linguaggio delle parabole, cioè della vita quotidiana. Nelle parabole praticamente non c’è religione, non c’è l’evidenza del gergo religioso; Gesù dice che il Regno di Dio è simile a un seme che nutre, cresce. La teologia accademica deve diventare capace di questa operazione compiuta da Gesù: dire le cose più alte di ciò che è il Padre, di ciò che è il Figlio, di ciò che è la Trinità, di ciò che è l’incarnazione di Dio, di ciò che è l’amore del prossimo, rendendo profonda la lingua dell’esperienza quotidiana. I pensatori non credenti sono già andati oltre l’illuminismo, constatandone il limite di una riduzione del pensiero che impoverisce la comprensione del mistero dell’uomo e della sua profondità. Essi quindi incontrano il cristianesimo già percependolo come qualcosa di estrapolabile dall’armatura razionale e apologetica con cui abbiamo cercato di proteggerlo seppur in buona fede.

E dunque ora dove può o deve dirigersi la teologia?

Secondo me la fase del dialogo e del confronto è finita. Andava bene fino a 30 anni fa, quando sia il popolo di Dio, sia la comunità civile nel suo complesso avevano bisogno di percepire che l’interpretazione cristiana non si definisce per contrapposizione a quello dell’ateo o del non credente. Allora, quando Sequeri e Cacciari andavano in giro a fare i loro dialoghi, il punto importante era che si dimostrasse fisicamente un rispetto reciproco, cioè che l’altro da me mi può riconoscere nonostante la mia fede e che, secondo lui, io posso dire qualcosa di sensato. Adesso tutto questo è già superato, il popolo lo ha capito e continuare in questa direzione rischia di diventare un teatrino. C’è invece bisogno di una teologia più creativa. E la Chiesa deve imparare a fidarsi di una teologia più creativa che arriva a interpretare la bellezza del mistero cristiano anche illuminando questo andare oltre il mistero dell’uomo, senza aver paura di sbagliare o di rinchiudersi nel linguaggio consueto. A volte percepisco che questo è ancora un momento in cui prevale il timore di svendere, di perdere tutto di abbandonare le radici ecc. I nuovi filosofi hanno dimostrato un’apertura che non fa perdere le radici.

Una teologia quindi aperta al tema della dimensione affettiva della vita. Come si pone di fronte al tema, ineludibile come un macigno che sta lì, della morte?

L’affezione è indiscutibilmente legata alla vita. E qui subentra la tradizione più arcaica dell’uomo che coincide con la preistoria dell’uomo e resiste tutt’ora, perché altrimenti nessuno vivrebbe. Questa tradizione ha sempre concepito la morte come un passaggio. È questa una convinzione profonda che non si capisce chi gliel’abbia data all’uomo sin dall’inizio dei tempi. La morte non è la fine ma un confine, un attraversamento. La cultura dell’essere umano è iniziata con la sepoltura dei morti con tutte le loro cose, insieme agli oggetti che gli servono per il passaggio. Ora, come fa un uomo primitivo a concepire l’idea del passaggio di fronte alla morte? È una convinzione sofisticata e molto profonda radicata nell’uomo molto prima che i greci si “inventassero” l’anima. Qui c’è una saggezza preistorica dell’umano, indeducibile dall’esperienza, che l’umano ha sempre conservato. Allora c’è un intellettualismo di troppo quando affermiamo che veniamo dal niente e andiamo verso il niente. L’umano non ha mai pensato in questo modo.

L’avvento della fisica quantistica ha messo in crisi non solo il determinismo scientifico, ma tutta la filosofia che andrebbe ripensata completamente. Si può dire che il rapporto urgente e fecondo oggi è non tanto tra la teologia e la filosofia, ma tra la teologia e la scienza?

La fisica ci rende cauti. Eppure questa rivoluzione scientifica interpella anche tutta la teologia, pensiamo all’escatologia. Prendiamo la formula del credo, spesso trascurata, ma che è migliore della nostra teologia dei “nuovissimi”, quando dice «credo nella resurrezione dei morti e la vita che verrà». Ora, se è vita, non può essere un congelamento dell’anima; se è vita, io voglio fare qualcosa nell’aldilà, voglio che Dio mi insegni come si fanno i mondi, come si addomesticano gli angeli: ho bisogno di fare qualcosa. Il punto è che io (come già Dio prima di me) siamo un centro di relazione, altrimenti non esisteremmo. Questo per me apre un capitolo sulla forma sociale dell’essere umano. Il nostro individualismo è come un regresso all’ingenuità della fisica atomica pre-quantistica, secondo la quale c’è il piccolo atomo che fa il suo lavoro con gli elettroni e i protoni ed è un’unità indivisibile, quindi inviolabile e il suo assemblaggio produce la realtà. L’individualismo sgretola, attraverso una falsa immaginazione, l’unicità dell’evento la cui bellezza e la cui libertà sono generati dagli incontri, e non dall’autosufficienza. Questo secondo me è il punto di partenza. Che Dio è relazione.

 

Il Dio che è relazione, lo chiediamo ad un padre sinodale, dice qualcosa anche alla Chiesa di oggi che si presenta come sinodale, cioè non autoreferenziale. Oppure questa è una lettura forzata?

Invece è proprio così: autoreferenzialità e perfezione. Il modello che parassitariamente ha consentito all’individualismo di ricevere un apporto non voluto da parte della teologia è una concezione autoreferenziale di Dio, cioè l’idea che la perfezione ha la forma di uno che gode di sé stesso, che è specchio della propria perfezione e al quale niente può essere aggiunto. Ma Dio è amore, relazione, così ci dice l’ontologia trinitaria. Torniamo indietro con la memoria e andiamo a vedere come nel primo millennio la Chiesa realizzò un’impresa strepitosa perché, confrontandosi con il monoteismo metafisico dei greci, che non è il nostro, essa ha dato consistenza alla trascendenza di Dio, una cosa che il mito non aiutava a realizzare. Un’operazione sacrosanta, necessaria ma non sufficiente. Adesso è il momento di riscoprire che Dio, che pure essendo perfetto e al quale non manca niente, non è certamente autoreferenziale. Questo concetto dell’individuo la cui perfezione è realizzata essenzialmente nella forma del godimento di sé non esiste, non è mai esistito, non c’è neppure nel fondamento del pensiero su Dio — non è mai stato per noi un principio, diversamente che nella metafisica greca. I ragazzi si stanno accorgendo che non è vero, si accorgono sulla loro pelle che l’autosufficienza è fonte di angoscia e di malinconia ma non sanno dargli i nomi perché appunto la cultura dice, in modo martellante: essere sé stessi, autonomi, indipendenti. La Trinità contiene questo anticorpo prodigioso rispetto all’idea greca che è racchiusa nella prima parola che definisce Dio, il quale non è sostanza, né assoluto, né identità, ma generazione. Generazione è un vocabolo che è insieme dinamico e affettivo. I padri greci del concilio di Nicea si trovavano di fronte al problema di un Dio che non poteva essere generato, perché se è generato è un gradino inferiore. E i padri dissero no: qui il generato è nello stesso livello del generante, che è eterno come il generante, cioè c’è una generazione eterna. E siccome in greco non si può dire una cosa del genere, cambiarono la semantica della lingua greca. Aprirono così una voragine non da poco, ma che adesso potrebbe essere la nostra felicità, perché vorrebbe dire che il principio della creazione assoluta, che per noi è Dio, vive nella generazione, nella vita. Il principio di tutte le cose, la legge di tutte le cose è un Dio generato e generativo; quindi non solo nessuno si fa da sé, ma nessuno è destinato a godere di sé stesso. Dio per primo. Questa è la cosa bellissima: anche in Dio non c’è un godimento di sé, ma c’è un godimento della generazione, c’è un amore che si fa spirito e unisce i due, ma non c’è un godimento di sé. Ogni inclinazione a concepire l’assolutezza, la perfezione in termini di autorefenzialità può essere tranquillamente congedata perché è una strada mortifera. Nel caso di Dio perché ci consegna un’immagine di Dio alla quale di ciò che succede a noi non può importare veramente. Lo ha detto anche Ratzinger, in un’intervista pubblicata sull’«Osservatore Romano»: noi cristiani abbiamo una concezione di Dio che dal punto di vista della filosofia ha anche una sua perfezione, ma per noi è desolante. In questa concezione aristotelica, dice Benedetto xvi , «Dio, l’Eterno, è in sé, non cambia. Sta in sé, non ha relazione ad extra. È una parola molto logica, ma è una parola che ci fa disperare […] Con l’incarnazione, con l’avvento della theotokos, questo è cambiato radicalmente perché Dio ci ha attirato in sé stesso e Dio in sé stesso è relazione e ci fa partecipare nella sua relazione interiore». Prima dei grandi concili cristologici che dicevano che Gesù è figlio di Dio, il popolo è stato il primo a dire che Maria è la madre di Dio, e questo ci ha fatto capire che quello schema dell’autosufficienza non è il riflesso del principio. Penso che tutto questo sia così strepitoso che ho voluto recentemente scriverci un libro dal titolo Il Grembo di Dio (Roma, Città Nuova 2023, p. 200), in cui valorizzo questo ragionamento contro l’individualismo. Senza bisogno di mettere tra parentesi il dogma, bisogna parlarne come faceva Gesù, usando la lingua dell’esperienza. Se noi riuscissimo a educare le generazioni che vengono all’idea che essere generati e generare non solo è bello, ma è anche la forma della realizzazione della qualità personale di ogni identità — perché anche Dio è così — non sarebbe bellissimo? Dio si identifica generando, non rispecchiando sé stesso, ma generando si autogenera, diventando Padre si identifica come Dio. Diventando Figlio si identifica come Dio. Se riusciamo a dire questo, noi cambiamo non solo la teologia, non solo la Chiesa, ma il mondo.

di Andrea Monda
e Roberto Cetera