· Città del Vaticano ·

I volti della povertà in carcere - 5

Said

 Said  ODS-015
04 novembre 2023

Il quinto incontro de «I Volti della Povertà in Carcere» ci pone al cospetto del dramma della malattia in carcere. Quella che raccontiamo è la storia di un uomo immigrato dall’Egitto, affetto da patologia psichiatrica. Said, tra disorientamento e confusione, ci svela verità dolorose mostrando i segni delle sue povertà. Come dall’inizio di questo viaggio, la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti e la Direzione del Carcere di San Vittore ci accompagnano insieme agli educatori, condividendo l’intento del nostro progetto che non racconta storie per farne cronaca, ma per dare voce a chi non ha voce.

I gesti del nuoto sono i più simili al volo.
Il mare dà alle braccia quello che l’aria offre alle ali.

(Erri De Luca)

Ciò che rimane impresso quando sei in carcere, di fronte ad un detenuto, è il bisogno che questi uomini e donne — persi nel dolore — hanno di essere ascoltati. Said è un turbine di parole incongruenti, i suoi pensieri sono discontinui per via dei farmaci che è costretto ad assumere. Ciononostante riusciamo ad entrare nei suoi incubi e a placare la sua sofferenza. «…Quando sono entrato in carcere, stavo male, dopo 5-6 mesi mi sono abituato, adesso sto bene; il carcere qua non è male, solo che è un po’ stretto. Adesso sono guarito davvero. Io ero malato, parlavo da solo per la strada. Sentivo voci. Adesso sono quasi sette anni che sono morto. Tre anni e mezzo per strada, tre anni e mezzo in carcere». Mentre continua a ripetere “sono morto”, tento di fargli tornare alla memoria un ricordo che lo ricongiunga alla vita reale.

«Cosa vorresti rivedere quando sarai fuori, in Comunità?» Said ripete come una litania: «Qui è un po’ stretto, non c’è il mare. Eh, non c’è il mare. Sono 3 anni e 3 mesi che sono qui, non c’è il mare. Io sono sempre andato al mare quando ero fuori».

Provo a domandarmi perché possa mancargli il mare; forse perché il mare ci inizia ad un volo di cui pensiamo possa essere artefice solo l’aria… o forse gli ricorda la sua terra. Come un papiro che si srotola, interpreto altre informazioni sul tempo che trascorre in carcere. «Facciamo mosaici, facciamo maschere, facciamo le rose con la carta. Da tre anni vado al centro diurno. Ho anche lavorato qua in carcere, per un anno, pulendo le scale e ho guadagnato per fare la spesa e mangiare bene». Appena arrivato dall’Egitto, Said si è subito integrato, lavorando per la metropolitana di Milano. «Io avevo i muscoli, molti muscoli, una faccia gialla, abbronzata, ero bello, non come adesso». Dopo otto anni, si innamora di una donna conosciuta attraverso i social e l’amore irrompe nella sua vita smantellando un equilibrio che da immigrato aveva cercato di costruire. Il ripudio della donna amata, la perdita di un figlio, del lavoro, la mancanza della famiglia sono le cause della sua crisi umana. «Poi ho cominciato a dormire fuori — racconta — non riuscivo a tornare a casa, ho preso una borsa, giravo dentro i pullman per Milano. Allora non ero io, giuro, erano tanti diavoli, un milione di diavoli, e ho cominciato a bere, vomitavo, poi mi portavano all’ospedale. L’ultima volta, la polizia è venuta a prendermi e sono entrato in carcere. Io non ho fatto niente, non sono ladro, non sono spacciatore, non litigo con nessuno, non faccio niente di questo».

Said si calma, lasciandosi accompagnare negli spazi comuni e ci indica i murales che ha contribuito a realizzare, carichi di colori e di energia buona a dispetto dei diavoli che si sono impossessati del suo mondo e della sua povera vita.

di Rossana Ruggiero