Papa san Paolo vi nel 1971 istituì la Caritas affinché l’esercizio da parte della Chiesa del servizio della carità, sia a livello di assistenza sia di animazione pastorale, fosse presente, in maniera capillare e organizzata, in ogni diocesi. A Roma, dopo la creazione di un primo gruppo di animatori Caritas per la raccolta di aiuti in favore delle popolazioni colpite dal terremoto in Friuli del 1976, san Giovanni Paolo ii , nel 1979, istituì presso il vicariato l’ufficio pastorale Caritas, nominando direttore don Luigi Di Liegro.
Volendo approfondire la figura e il ruolo del “buon samaritano” del xxi secolo, «L’Osservatore di Strada» ha bussato alla porta del direttore della Caritas di Roma, Giustino Trincia, che con grande disponibilità ha risposto alle nostre domande.
Non sono qui a chiederti di parlare di poveri e povertà — li conosco bene entrambi —, ma di parlare di chi se ne prende cura, ovvero un po’ anche di te stesso. Ti imbarazza questo scambio di prospettiva e di ruoli?
Non provo nessun imbarazzo. In fondo il nostro compito, e dunque anche il mio, è di fare il possibile per aiutare a fare bene il bene favorendo l’incontro tra chi desidera essere di aiuto e coloro che ne hanno bisogno. La buona volontà non basta, per fare bene all’altro occorre anche un po’ di competenza; la disponibilità a lavorare in squadra e a sostenersi; l’umiltà a rendersi disponibile ad apprendere dagli altri e dalle stesse persone povere che si vuole aiutare. Non sono cose semplici, soprattutto quando, provenendo da una lunga esperienza lavorativa, si pensa di non avere granché ancora da imparare, soprattutto da chi viene da dolorosi fallimenti lavorativi e familiari.
Nella mia esperienza ho conosciuto tante difficoltà, ma ho incontrato anche tante persone che mi hanno aiutato, con disinteresse e amicizia. Perciò, tramite te, vorrei prima di tutto ringraziare tutti i buoni samaritani — anche laici e non credenti — che vengono in soccorso dei mendicanti che affollano le strade delle nostre città. Qual è, secondo te, la cifra distintiva del volontariato cristiano?
Credo, anzitutto, che sia la povertà di spirito. Gesù, infatti, si è fatto povero per noi, per noi tutti, perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà (cfr. 2Cor 8,7-9). La povertà di spirito è la condizione indispensabile per un vero ascolto dell’altro e per una compassione profonda e non di facciata. Per un cristiano penso che non ci sia cosa peggiore che mettersi su un piedistallo e guardare dall’alto verso il basso il fratello o la sorella povera e permettersi di giudicarli. Noi siamo i loro allievi: ascoltiamoli senza pregiudizi, ci daranno grandi insegnamenti.
L’altro aspetto distintivo è la consapevolezza che tutto in definitiva è nelle mani di Dio padre che ama tutti, a prescindere. Sempre.
Le realtà che operano nel campo dell’assistenza a chi vive in condizioni di disagio sociale costituiscono una vera galassia. Ciascuna ha un proprio “marchio di fabbrica”. Questo può costituire un valore aggiunto, che tuttavia meriterebbe di essere esplicitato attraverso un confronto più approfondito. Mi capita talvolta di notare un po’ di confusione, di sovrapposizioni. Un po’ più coordinamento non potrebbe aiutare a soddisfare i bisogni di un maggior numero di persone?
È facile coordinarsi se c’è prima un reciproco ascolto e un intenso dialogo e se c’è, poi, chiarezza e condivisione sugli obiettivi da raggiungere. Abbiamo molto bisogno di entrambi per aiutarci a mettere al centro dell’impegno di ognuno, di ogni comunità, di ogni organizzazione, il punto di vista e la condizione umana, spesso così dolorosa, dei poveri. Pure in questo caso la Parola di Dio è di enorme aiuto. Cristo, pur essendo come Dio, assunse la condizione di servo (cfr. Fil 2,5-8). Aggiungo che il problema non è tanto il fare di più per più persone, ma quello di aiutarci a risollevare le persone povere, a rimetterle in piedi, a renderle autonome e non dipendenti, a volte, anche di una carità molto schiacciata sull’assistenzialismo. Se rendo l’altro dipendente da me, non gli faccio certamente un buon servizio.
Molti volontari che conosco mi ripetono: “Non sei tu che devi ringraziare me, ma sono io che devo ringraziare i poveri perché nello svolgere il mio servizio ricevo molto più di quello che do”. È una bella frase e sono convinto che sia detta con grande sincerità. Allo stesso tempo, però, rivela la tendenza a riportare l’attenzione su sé stessi piuttosto che sulla persona a cui ci si rivolge. Forse chi fa volontariato non lo fa solo “ad maiorem Dei gloriam”, ma si aspetta comunque un tornaconto? Magari psicologico o spirituale, quasi a volersi assicurare, un domani, un “lotto” migliore in Paradiso?
Mettersi al servizio di persone fragili, povere, rappresenta per molti, partendo dai giovani, una straordinaria occasione di contatto con quella realtà fatta di emarginazione e d’esclusione sociale, che è spesso nascosta da modelli culturali dominati dal primato assoluto dell’io e dell’affermazione di sé a tutti i costi, rispetto alla necessità di assumere la logica del “noi”. Più che la motivazione iniziale del fare volontariato, l’importante è maturare nel tempo il valore della gratuità del proprio impegno. La carità o è gratuita e nulla si aspetta in cambio, neppure come gratificazione per sé stessi o per la propria organizzazione, o altrimenti è altro. Più è discreta la carità, senza tanti proclami o etichette e bandierine, e maggiormente permette a chi la pratica di crescere sul piano spirituale.
Una domanda da “avvocato del diavolo”. Riconosco che tra le persone che si trovano in condizioni di bisogno, c’è anche chi si accontenta e tenta di vivere di assistenzialismo, oppure chi ha aspettative (quando non pretese) eccessive ed ha atteggiamenti arroganti. D’altra parte vedo pure, tra chi si prende cura di loro, una certa propensione a guardare il povero dall’alto verso il basso come se non fosse una persona adulta, e ad avere atteggiamenti duri.
Spesso non è facile capire cosa fare, cosa dire o non dire. In generale penso che nelle situazioni critiche la via migliore sia quella del silenzio e del guardare la persona che si ha di fronte negli occhi e possibilmente con dolcezza. Ci si riesce se si è con la pace nel cuore. In generale, mi convinco sempre di più che non siamo chiamati a dare consigli o soluzioni, ma a stare accanto, ad ascoltare, sospendendo ogni giudizio e cercando di tirare fuori le risorse, i talenti che ogni persona ha.
I poveri spesso hanno perso totale fiducia in sé stessi. Il primo aiuto che possiamo dare loro è riconoscerli anzitutto come persone e accettarli così come sono, anche se appaiono impresentabili. La via del rapporto con i poveri è anzitutto quella dell’amicizia, ben oltre dunque la distribuzione dei beni di prima necessità, che resta a volte indispensabile, ma questo richiede disponibilità e tempo ed è per questo che dobbiamo essere in molti ad occuparci dei poveri.
Se non ci fossero la Caritas e le tante altre organizzazioni ecclesiali e non ecclesiali che si prendono cura delle emergenze sociali — che poi sono persone in carne ed ossa — bisognerebbe inventarle. Spesso si sentono voci critiche: “Ci dovrebbe pensare lo stato, il governo”. Giusto! Ma se non lo fanno?
Non c’è contraddizione alcuna tra il dare in prima persona — cibo, vestiti, denaro, tempo, competenze professionali — a chi non ha e il necessario impegno per intervenire sulle cause che provocano tante vecchie e nuove forme di povertà. Fermarsi al primo significa spesso cadere in quell’assistenzialismo che il più delle volte rischia di cronicizzare la dipendenza di coloro che chiedono un pasto, una coperta, un tetto, oltre naturalmente una relazione umana più calda. Fermarsi al secondo, senza fare esperienza del primo, significa rischiare di precipitare nell’astrattezza, nella battaglia di idee fine a sé stessa. È necessario trovare un punto di equilibrio e io penso che a Roma ci sia bisogno di un forte recupero nel mondo del volontariato del valore e della necessità della partecipazione politica — parlo nella sua accezione più alta, al di là della legittima dialettica tra le forze politiche — quella che, dal punto di vista dei poveri della città, è indispensabile per promuovere e tutelare il bene comune.
È splendido vedere quante associazioni, quanti gruppi, quante comunità testimoniano in prima persona l’essere prossimi ai tanti che vivono l’esperienza della povertà o addirittura della miseria. È triste, invece, constatare quanta poca energia si impieghi nel mondo del volontariato romano per l’analisi, la ricerca, la denuncia e la proposta; tutte componenti indispensabili per agire sulle cause del tanto lavoro povero o in nero che c’è; delle migliaia di famiglie senza un tetto e degli oltre 100.000 appartamenti vuoti; della decennale progressiva riduzione dell’offerta di servizi e di cure da parte del servizio sanitario nazionale pubblico, a fronte di liste di attesa scandalose; delle crescenti condizioni di solitudine e di emarginazione che colpiscono soprattutto larghe fasce della popolazione anziana, giovanile e femminile.
Non ci sarà nessuna maggioranza politica nelle istituzioni pubbliche in grado, da sola, di affrontare adeguatamente i gravi problemi che sono di fronte a tutti, senza un rapporto finalmente di pari dignità con il tessuto civile, religioso ed economico della città.
A me sembra che se la politica ufficiale tende a non cogliere l’urgenza di un forte cambiamento di rotta negli stili e nei contenuti della propria azione (intanto, solo il 37% degli aventi diritto al voto ha partecipato alle ultime elezioni regionali), l’articolato mondo del volontariato romano stenti non poco ad andare al di là del pur lodevole intervento di solidarietà sugli effetti di tante contraddizioni e di tante disuguaglianze.
Fabrizio Salvati e Giustino Trincia