· Città del Vaticano ·

Sulla porta di casa Mamadou, alla cui storia è ispirato il film “Io capitano”, racconta quello che al cinema non abbiamo visto

Il primo volto amico ? Quello di un pescatore di Mazara del Vallo

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04 novembre 2023

«Il mio capitano è un pescatore di Mazara del Vallo. È stato il primo a vedere un barcone di 66 persone partito dalla Libia e diretto in Italia spaccato a metà, incagliato in mezzo al mare. È stato il primo a fermarsi, a cercare di comprendere chi fossimo e cosa facessimo, a chiamare i soccorsi. Non se n’è mai andato. È restato lì, intorno alla nostra barca col suo peschereccio, vicino a un mucchio di disperati. Abbiamo parlato, ci ha dato fiducia, abbiamo creduto in lui e ci ha salvato».

Questa scena al cinema non l’abbiamo vista. Il film Io capitano, diretto dal regista Matteo Garrone e candidato per l’Italia al premio Oscar 2024, si ferma poco prima: quando Kouassi Pli Adama Mamadou, il giovane di cui la pellicola racconta il viaggio “epico” dall’Africa all’Europa, si rende conto di aver compiuto la sua missione, di essere riuscito a salvare se stesso e i suoi compagni dalle acque del Mediterraneo.

La nuova vita di questo giovane, arrivato in Italia dalla Costa d’Avorio nel 2009, inizia proprio in quel momento, nell’attimo in cui incrocia lo sguardo di quel pescatore e comprende la straordinarietà di essere salvato e l’unicità di salvare. Quando si parla di salvezza, non c’è differenza tra attivo e passivo. C’è solo un vuoto da colmare, un gesto da fare, un passato da capovolgere, ma da non dimenticare. Perché le radici sono importanti. E proprio da quelle radici prende forma il presente di Mamadou.

«Sono partito nel 2006 dalla Costa d’Avorio con mio cugino per due motivi. — racconta Mamadou parlando a «L’Osservatore di Strada — Nel mio paese c’era la guerra civile. Scontri tra ribelli e soldati, manifestazioni e povertà erano all’ordine del giorno. Poi, chiusero anche le scuole. Noi eravamo dei bravi studenti, conoscevamo la storia e la geografia, eravamo affascinati da quello che consideravamo il resto del mondo. Volevamo conoscerlo! Così un sogno, ben presto, diventò un’idea: andare in Europa per realizzare qualcosa». Lasciare tutto per partire verso il nulla. Tuttavia, «non era facile. La situazione politica e sociale ce lo impediva. Ancor più, la nostra famiglia era contraria: così, decidemmo di andare via di nascosto».

Ma il sogno si tramutò ben presto nel calvario di cui tanto si parla in Occidente e di cui raramente si ha un’idea precisa: «In un mese attraversammo quattro paesi: Ghana, Burkina Faso, Niger e Algeria — prosegue Mamadou —, mentre mio cugino veniva arrestato dalla polizia, io fuggivo nel deserto. Mi ero perso. Ho avuto a che fare col caldo torrido, coi passaporti falsi e coi trafficanti di esseri umani. Finalmente, giorni dopo riuscii ad arrivare in Libia, dove ho trascorso tre anni della mia vita. Appena arrivato in prigione, un ragazzo ghanese mi spiegò la dura legge del “lavora, paga e sarai liberato”, quindi andai a fare il muratore, misi da parte il denaro e trovai il modo per partire. Ma non lo feci. Dovevo trovare mio cugino. Dopo mesi di ricerca, lo incontrai casualmente. E in quel momento è rinato il sogno, interrotto ancora una volta dalla prigione e dalla necessità di dover pagare altri soldi pur di essere liberato». Certo, bisogna mettere in conto che la vita di un migrante è fatta più che mai di imprevisti: «L’arrivo in Italia non è stato da meno — confessa Mamadou —: a Lampedusa ho scoperto che gli hotspot sarebbero stati solo un punto di passaggio. Sono stato trasferito a Roma in Caritas e al Centro Astalli. Non avendo un posto in cui dormire, decisi di andare a Napoli, alla Caritas di Castel Volturno, e poi a Caserta, nel centro Caritas Tenda di Abramo».

Ed è proprio a Caserta che qualcosa, nella vita di Mamadou, cambia. Dopo anni di viaggio, nasce una prima idea di quotidianità, Mamadou impara l’italiano e lo fa grazie a dei giovani, il cui impegno e la cui spontaneità gli fanno tornare in mente la figura del pescatore che lo aveva salvato. Essere salvati e salvare, di nuovo. Gli occhi del salvatore, di chi giunge in aiuto senza avere niente, ma offrendo tutto: «In poco tempo siamo diventati anche noi dei volontari. Volevamo sì essere accolti, ma volevamo pure renderci utili. Abbiamo iniziato a cucinare, a pulire gli spazi della Caritas e, ogni mercoledì, distribuivamo cibo e vestiti ai poveri. Abbiamo capito come l’unico e il miglior modo per sentirsi parte di una comunità sia questo».

No, un processo del genere non capita a tutti. «E chi pensa alle persone rimaste in Libia, a chi è intrappolato nel deserto, a chi non ce l’ha fatta, a chi non riesce a integrarsi?» s’interroga Mamadou, trovando nel film di Garrone una forte risposta sociale: «Io capitano racconta storie intrecciate che, insieme, compongono un grande racconto capace di toccare il mondo intero. Questo film, per me, è un riscatto senza confini: io e altri migranti urliamo che è tempo di avere leggi capaci di dare la possibilità a chiunque di partire e di arrivare in un altro paese attraverso canali di ingresso regolari. Non era mai avvenuto prima. Quel sogno con cui sono partito, “realizzare qualcosa”, si sta avverando».

Ma solo se si diventa comunità «riusciremo a comprendere che noi esistiamo, che siamo anche noi esseri umani. Sì, abbiamo avuto tante difficoltà, eppure abbiamo avuto il coraggio di affrontare la vita. Ora possiamo aiutare, ascoltare, infondere speranza, far credere a qualcuno nelle proprie capacità». Le sfide sono molte: tanti migranti sono colmi di rabbia, approfittano della buona volontà dei volontari o sono affranti perché inconsapevoli della situazione che li aspetta in Italia.

«Il volontariato serve proprio a questo — ribadisce Mamadou —: a ricordare come si è stati salvati e quanto è importante salvare, a comprendere che l’aiuto non va mai in una sola direzione, a farmi io capitano di una comunità». Perché «non sono stato il primo a venire, ma non sarò neanche l’ultimo».

di Guglielmo Gallone