· Città del Vaticano ·

Canti dalle periferie Il diritto di parlare e di essere ascoltati

 Canti dalle periferie Il diritto di parlare e di essere ascoltati  ODS-015
04 novembre 2023

La parola più ricorrente in questi “canti dalle periferie” è “angeli”. Così i nostri autori prediligono definire i volontari e gli operatori che hanno incontrato nei momenti di maggiore difficoltà o con i quali continuano il loro percorso verso una vita degna di essere vissuta. C’è grande gratitudine per il loro servizio umile, nascosto, senza grandi gratificazioni e spesso a contatto con persone esasperate dalla loro condizione. Un grazie sincero che, proprio per questo, non risparmia qualche consiglio: «ricordatevi che non siamo tutti uguali».

Capiteci, non siamo
tutti uguali!

I volontari e hli operatori cercano di fare del loro meglio. Il loro è un lavoro molto, molto difficile, perché hanno a che fare con persone diverse l’una dall’altra, con un passato e un presente spesso fatto solo di sofferenze e privazioni.

Non posso e non voglio dire che c’è chi è più gentile, più attivo, più efficiente. Farei un torto a qualcun altro.

L’unica cosa che mi sento di raccomandare è di cercare di capire meglio la psicologia delle persone che hanno davanti: non siamo tutti uguali!

Mi hanno fatto sentire
un essere umano
pronto alla ripartenza

Avevo sempre evitato con cura la zona del Colle Oppio perché ci bivaccavano i “disperati” che usufruivano della mensa della Caritas. Finché un giorno sono stato proprio io ad aver bisogno di quell’aiuto. Grazie ad Imma, del centro d’ascolto di via Marsala, sono stato accolto nell’Ostello Don Luigi di Liegro, dove potevo cenare e dormire. Ma a pranzo ero sempre lì, alla mensa di Colle Oppio.

Imma è stata la prima operatrice che ho conosciuto. Mi ha ascoltato, ha capito la mia paura di finire per strada e, sorridendo, con fare pacato è riuscita magicamente a tranquillizzarmi.

Subito mi sono accorto che quella persona mi avrebbe aiutato nelle cose pratiche, visto che in pochi minuti aveva sollevato il mio spirito con tanta facilità. Infatti è stato proprio così: dopo tre giorni mi ha chiamato per dirmi di andare all’ostello dove c’era un posto letto per me.

In ostello sono stato accolto da Marianna, altra anima magica, che mi fece il quadro delle 200 persone ospiti. Persone deluse, preoccupate, arrabbiate con la vita e pronte ad esplodere al primo intoppo. Parlava anche lei con pacatezza e sorridendo. Emanava energia positiva e lo avvertivo chiaramente.

Poi ho conosciuto gli altri operatori e volontari: Andrea, Vincenzo, Anthony, Ludovica, Stefania, Luca, Michele e poi Patrizia, Pasquale, Stefania, Alessandra, Vittorio, Samanta, ed altri ancora. Quasi tutti tra i 25 ed i 30 anni e tutti accomunati da un grande amore per quello che fanno e che fanno con l’anima. Mi sembra incredibile vedere tutto quello che gli viene richiesto e quanto cuore mettono nel farlo.

La mia può sembrare una descrizione irreale. Ma, vi assicuro, le cose stanno così. E quando chiedo a qualcuno di loro cosa li spinge, la risposta è sempre uguale: l’amore per il prossimo.

Tenere in piedi questi “pronti soccorsi” di esseri umani è davvero arduo ed anche gli organizzatori hanno il loro gran da fare con sempre poche disponibilità economiche da amministrare. Anche un rubinetto che funziona male per più di un giorno può causare rimostranze esplosive. Gli ospiti si infiammano trovando in poco la scusa per sfogare la loro rabbia, ingigantita spesso da alcool e stupefacenti. Anche il minimo errore di comportamento di un volontario o di un operatore (sono esseri umani anche loro) può provocare furiose rimostranze.

Insomma, un ambiente difficile. Eppure, i loro interventi, a tutti i livelli, sono sempre dei sedativi somministrati con il sorriso, il cuore e l’anima.

A tutti questi, che io chiamo “angeli”, va il mio immenso grazie. Tra loro mi sono sentito un essere umano pronto alla ripartenza, anziché un disperato in attesa che la sofferenza finisca.

Grace e Andrea

Ho sedici anni e vorrei raccontare di come i volontari aiutano me e gli altri bambini della “Casa di Cristian”.

L’anno scorso, prima che iniziasse la scuola, alcune persone venivano a giocare con i bambini. Io di solito non partecipavo, perché sentivo di essere troppo grande. Qualche volta venivano a giocare anche dei gruppi di scout ed ogni volta che li vedevo sentivo che mi avrebbe fatto piacere entrare a far parte del loro gruppo.

Ho una volontaria preferita, Grace, con la quale ho creato un legame molto stretto. Lei è diventata la mia migliore amica, la mia prima amica non appena ho scoperto che parlava inglese. Grace non mi aiutava solo a fare i compiti: parlavamo come due sorelle, mi incoraggiava sempre, mi diceva che tutto sarebbe andato bene.

Grace ha poi interrotto il volontariato alla “Casa di Cristian”.

Ho conosciuto un altro volontario. Si chiama Andrea. Quando è venuto per la prima volta, insieme con la moglie, non abbiamo parlato molto. Poi, un giorno, io non capivo i compiti di matematica e gli ho chiesto di aiutarmi. Neanche lui è riuscito a risolvere gli esercizi. Però se li è portati a casa per studiarli meglio, in modo tale che se mi fossero capitati di nuovo sarebbe stato più facile risolverli.

In questo modo mi sono avvicinata molto ad Andrea. Così, quando stava per arrivare il giorno del mio battesimo, gli ho chiesto di fare da padrino a me e ai miei fratelli. E lui ha accettato.

Dopo il battesimo ho iniziato a creare un legame più stretto con lui, che ha continuato a venire alla “Casa di Cristian” e ad aiutare me e gli altri bambini con i compiti.

C’è anche un altro volontario, un ragazzo molto giovane. Non ho costruito un legame particolarmente stretto con lui, perché, a parte aiutarmi con i compiti di francese, si occupa soprattutto di far giocare i bambini.

Non conosco il nome di tutti i volontari che vengono ad aiutarci.

Dall’incontro con loro ho ricevuto tanti benefici. Grazie ai consigli di Grace sono stata in grado di farmi degli amici. Ed Andrea ha fatto una cosa bellissima, che mai mi sarei aspettata, accettando di essere il mio padrino.

Secondo me tutti i centri d’accoglienza a Roma dovrebbero avere dei volontari così, perché sono molto disponibili con i bambini e li aiutano ad imparare qualcosa.

Il volontariato non può diventare
un paravento

Sono un anziano di 83 anni, ospite della Caritas presso la casa di accoglienza “Santa Giacinta” a Roma, mia città natale. La struttura è stata temporaneamente trasferita presso il santuario del Divino Amore per consentire lo svolgimento di importanti lavori di ristrutturazione e di ammodernamento.

La casa accoglie persone di varia nazionalità, giovani e anziani di ambo i sessi, alcune afflitte da lievi invalidità o da qualche acciacco tipico dell’età senile e di una vita fatta di sofferenze e di privazioni. La gestione della casa di accoglienza è affidata in maniera continuativa, giorno e notte, a giovani operatori, prevalentemente donne, che con grande impegno e professionalità ci aiutano a vivere un’esistenza degna e decorosa. Li affiancano vari volontari che si dedicano in particolare alla preparazione e alla distribuzione dei pasti, alla pulizia dei locali, ecc. In genere sono persone anziane, pensionati visibilmente abbienti, che dedicano parte del loro tempo a un servizio di carità, senza alcun compenso, contenti solo dei nostri ringraziamenti e del nostro sorriso. Che Dio li benedica!

È bello vedere queste persone dedicarsi agli altri. Soprattutto quando sono giovani operatori che, anche se hanno conseguito titoli di studio importanti, svolgono con responsabilità e tanta pazienza un compito duro, umile, senza prospettive di carriere professionali esaltanti, sacrificandosi al servizio di tanta povera gente di cui la società sembra spesso aver dimenticato l’esistenza.

Nel corso di questa mia nuova esperienza di vita a Santa Giacinta, ho potuto rendermi conto (de visu) di quanto sia complesso cercare di risolvere o, almeno, lenire le varie problematiche riguardanti la povertà.

La stampa, la televisione e, in generale, il mondo dell’informazione non sembrano molto interessati a queste tematiche. Gridano allo scandalo di fronte a quello che succede nelle scuole — violenze, droghe, bullismo… — o di fronte alla questione dei profughi, ma poi non aiutano ad approfondire le conseguenze e, soprattutto, non tengono viva l’attenzione sulla necessità di soluzioni strutturali, non di facciata.

Non basta la buona volontà e la generosità di alcuni, come i volontari, sempre pronti a portare aiuto e soccorso. Serve un ampliamento e un rafforzamento dei servizi sociali da parte dello Stato con operatori qualificati.

Il volontariato non può diventare il paravento dietro il quale nascondere la vergogna di una società incapace di prendersi cura dei suoi figli più deboli. Perciò è importante che nelle nostre scuole si ritorni ad insegnare l’educazione civica, che è il presupposto affinché i giovani imparino l’altruismo, il rispetto verso il nostro amato paese, insomma crescano come cittadini responsabili di se stessi e degli altri.

La formazione culturale e civile dei giovani renderà migliore l’esistenza di tutti noi. Credo fermamente che migliorare la cultura e le condizioni di vita di un popolo sia la chiave per arrivare al risultato di un mondo migliore e in pace.

Chi fa la carità
al povero
fa un prestito
al Signore

Servire i poveri significa farsi voce di chi non ne ha, seme che giorno dopo giorno diventa albero per i fratelli lasciati soli, senza dignità, senza affetto e senza il calore di una famiglia. Questo è il senso del servizio alla carità che ci ricorda la giornata dedicata ai poveri.

Assieme a Papa dobbiamo essere tutti partecipi. Questa giornata ci fa capire che c’è più gioia nel dare che nel ricevere, che bisogna aprire il nostro cuore per accogliere il fratello solo, che bisogna sedersi assieme attorno alla tavola, condividendo quello che c’è, per vedere il suo sorriso e per farlo sentire di nuovo vivo.

I poveri hanno molto da insegnare. La vera ricchezza è dedicare tempo a loro, è fermarsi a parlare con loro, ma spesso siamo incapaci di amare e di aprire il cuore. Loro sono la via per arrivare a Dio. Ogni fratello ci chiede di essere amato. Noi viviamo nel buio senza vedere che a pochi passi da noi c’è chi soffre per il freddo e la solitudine.

Illumina, o Signore, la strada che ci porta là dove c’è più bisogno.

Se non amiamo il fratello, come possiamo amare il Signore?

“Chi fa la carità al povero fa un prestito al Signore” (Pr 19,17)

Anche loro sono
delle persone

Cosa dire, cosa pensare, come rapportarci con queste figure diventate così importanti per noi e per tutta la comunità in cui viviamo che sono i volontari e gli operatori?

La prima cosa che mi viene in mente è che sono anche loro delle persone. Fanno quello che possono e molto spesso sono condizionati da direttive che qualche volta vanno a snaturare la loro personalità e la loro voglia di fare.

Ma dipende anche da coloro che hanno di fronte. Ognuno ha la sua personalità e non sempre sono tutti ben disposti. Si sa, molti pensano che il loro problema sia più importante di quello degli altri. C’è poi chi prende un diniego o un intoppo come un affronto personale.

Operatori e volontari stanno tra l’incudine e il martello. Il loro è un servizio difficile. Hanno di fronte persone sfiduciate e rancorose verso la vita, che pensano che tutti siano contro di loro e che a nessuno interessi qualcosa della loro vita. Per questo devono avere la capacità di capire chi hanno di fronte. Il modo di essere, di pensare e di comportarsi di chi vive in condizioni di difficoltà estrema spesso può cambiare in pochi minuti. Ma un sorriso e un grazie, forse, possono aprire i loro cuori.

I volontari
della giustizia riparativa

In carcere, il volontariato è un vero e proprio motore che anima, crea, concretizza la speranza, anche facendo supplenza a chi, per dovere di istituto, dovrebbe e, invece, non dispone di strumenti per fare.

Nell’azione del volontariato in carcere, vi è un ambito — oltre a quello più conosciuto e diffuso dell’azione per il soddisfacimento di relazioni con i parenti e/o di bisogni materiali — che si offre come momento per interrogarsi interiormente e giudicare la propria capacità di confrontarsi con gli altri. Sto parlando dei “volontari della giustizia riparativa”: persone che, dopo un periodo di formazione, animano gruppi di incontro tra detenuti interessati a un tema che solo ora è entrato nel Codice, ma che, in verità, è da tempo all’attenzione di magistrati, avvocati e detenuti.

È proprio grazie ai volontari che il tema della giustizia riparativa ha trovato spazio ed è stato inserito all’interno del testo di una legge. Avranno molto da lavorare per costruire conoscenza, sensibilità ed operatività, passando da una presenza pionieristica ad una più strutturata, pensando a coscienze in grado di riappacificarsi con il danneggiato.

È così che anche io ho cominciato a partecipare al programma di due laboratori condotti dai volontari. All’inizio avevo qualche timore. Poi, dopo una bella accoglienza e una chiara spiegazione degli obiettivi, tutto è diventato più semplice. I volontari si sono dimostrati dei veri motori motivazionali. A una parola ne seguiva un’altra, fino a formare pensieri che, collezionati, componevano una pagina di vita.

Questi incontri quindicinali mi hanno anche offerto la possibilità di comprendere le difficoltà dei volontari che devono confrontarsi, a volte anche in modo aspro, con detenuti che non riescono a concepire il fatto che si possa arrivare a chiedere “scusa” alla vittima senza avere come contropartita un diretto, immediato e quantificabile beneficio.

Ho vissuto queste due esperienze in modo assai positivo ed ho scoperto che dentro di noi c’è sempre quella grande forza che è il dono della vita, che utilizza modalità semplici perché la “luce” in noi non si spenga. E tutto questo anche grazie alla presenza di volontari che si dimostrano veri “angeli custodi”.

Il rischio di diventare
“impiegati”
o “sceriffi” della carità

Si dovrebbe riuscire a dare voce e ascolto alle persone che “vivono” sotto i ponti, sotto i cavalcavia o sulle panchine. In questo modo capirebbero che non sono sole, che c’è qualcuno che si accorge di loro e vuole ascoltarle. Sentire che vicino a te c’è qualcuno significa sperare (sognare).

Per tendere questa mano all’altro non serve appartenere a un’associazione o a un gruppo che fa la carità. Non è l’etichetta che ti metti sul petto a renderti più buono o più caritatevole. Anzi. Qualche volta si corre il rischio di comportarsi come degli “impiegati” o, peggio, come degli “sceriffi” della carità, concentrati più a far rispettare le “regole”, piuttosto che ad aprire il cuore per capire che cosa sta provando quella persona che hai davanti e che, in quel momento, non si sta comportando bene perché non segue le “regole”.

Mi è capitato una volta di vedere, in una struttura nata per dare accoglienza ai più deboli, una persona di più di 60 anni mandata a dormire senza cena perché questo dice la “regola”. La pasta, poi, è stata buttata via.

Io non sono nessuno, ma sono una persona che ha ancora il coraggio di scandalizzarsi e, a volte, scandalizzarsi significa arrabbiarsi.

Nelle strutture di assistenza si fa tanto per i poveri. Non bisogna mai dimenticare che anche le regole vanno rispettate, ma prima ci sono le persone che vanno ascoltate, accolte con umanità e comprensione. E quando non è facile, bisogna sempre chiedersi il perché, cercare di rendersi conto di tutta la disperazione che quelle persone si portano dentro.

Tutti possono dare qualcosa alla società. Anche gli ultimi.

Io ho smesso da parecchio tempo di sentirmi un salvatore e mi sono reso conto che, quando ascolto queste persone, sono loro che salvano me.

Umanità e rispetto

Fino a cinque anni fa penso di non aver mai usato la parola “volontariato”. A volte, capitava di ascoltarla al telegiornale… Poi, ad un certo punto è diventata una parola quotidiana. Per una serie di circostanze che penso non possano interessare, sono cascato con tutte le scarpe in una situazione di grave difficoltà. E dopo una lunga serie di interminabili avventure e disavventure, per mia fortuna, sono stato risucchiato nella realtà del volontariato, fatto di tante persone che si prendono cura di chi ha bisogno.

Dove vivo ora ho conosciuto persone semplicemente speciali. Te ne rendi conto dal modo in cui ti ascoltano, da come ti guardano… e da molto altro, soprattutto dalla loro umanità e dal loro rispetto. Questi sono due ingredienti che non dovrebbero mai mancare in questi centri di accoglienza e di aiuto. Se si tratta di operatori, lo capisci subito se lo fanno aspettando il 27 del mese o se lo fanno perché sentono dentro di loro un qualcosa, una missione da compiere. In questo mondo c’è chi se ne frega, chi è superficiale, chi si sente da una parte e tutti gli altri dall’altra, chi ti fa pesare il motivo per cui tu ti trovi lì ad aver bisogno di aiuto.

Mi capita spesso di tornare alla Stazione Termini, dove vivono molti miei amici che però, al contrario di me, sono ancora in strada, chi per un motivo, chi per un altro. Quando li rivedo, il cuore mi batte più forte… Con loro mi sento a mio agio… Sono dei fratelli. Insieme abbiamo passato quasi sei anni di vita, vedendone e passandone veramente di tutti i colori. Non riesco a spiegarmelo o a trovare un perché, ma quando torno a “casa”, nel mio letto, non passa notte che non pensi a loro, a tutti loro. Se un giorno Dio vorrà farmi voltare pagina, io so che in fondo al mio cuore sarò e rimarrò sempre uno di loro, uno dei ragazzi di strada.

So cosa vuol dire dormire in terra e sopra tre cartoni, coprirsi con le buste dell’immondizia quando non si ha una coperta, mangiare alle 10 del mattino, una volta al giorno. So che vuol dire aspettare che passi un volontario o qualche turista che ti lascia quello che non ha mangiato. So cosa vuol dire fare a cazzotti perché tante volte questo è l’unico modo per far capire che è ora di smetterla di importunarti. So cosa vuol dire passare le ore sotto il sole a bruciare, mentre la gente passa e ti guarda come se avesse visto un ufo o fa finta di telefonare per non guardarti negli occhi!

In quegli anni alla stazione, ho conosciuto un gruppo di volontari che passava di notte, tutti i venerdì, portando panini, coperte e un po’ di sorrisi. Tra loro c’era un uomo che cercava sempre di me. Una volta per darmi una borsa, un’altra per un maglione, per le scarpe invernali… Diventammo molto simbiotici… Non lo dimenticherò mai.

È da tre anni che ho una malattia invalidante, se devo dirla tutta purtroppo dovrei avere ancora sei, sette anni di vita (maledetto vino e compagnia!!!). Ebbene, durante uno dei diversi ricoveri in ospedale, una mattina, come tante altre, sento una voce: «Giuliano, misuriamo la febbre?». Apro gli occhi e vedo proprio lui, quell’uomo… Lavorava in ospedale. Ho pianto, forse, per un quarto d’ora.

Quello che vorrei far capire alla gente è che facendo del bene, non conta in che misura, ci si sente meglio. È una sensazione magica, perfetta. Anche se il vostro gesto può sembrare banale, poco utile, per colui che lo riceve, credetemi, può regalare un momento di felicità immensa. Un sorriso, una pacca sulla spalla, una risata, una piccola confidenza possono far sentire importante colui che li riceve, perché attraverso quelle che io chiamo “vibrazioni” non ci si sente soli neanche per un istante. (Ecco, ora mi viene da piangere, scusate).

Ci sono esperienze indescrivibili a parole quando si vivono situazioni estreme com’è successo a me.

Questi sono i miei angeli: Martina, Stefania, Samanta, Patrizia, Ivano, Sergio, Pasquale, Fabiola, Anna, Lorenza, Enzo.

Giuliana

Elio

Gift

Alessandro

Lia

Antonio

s.c.

Domenico

Giuliano