· Città del Vaticano ·

Appello di Caritas internationalis

Tutelare i migranti climatici

 Tutelare i migranti climatici   QUO-248
27 ottobre 2023

Il nesso tra cambiamenti climatici e migrazioni forzate è sempre più preoccupante. A farsi portavoce dell’urgenza di azioni coordinate tra gli Stati per prevenirne i danni è Caritas internationalis che ieri ha diffuso il rapporto intitolato Displaced by a Changing Climate: Caritas Voices on Protecting and Supporting People on the Move.

La mobilità, dentro e fuori i confini nazionali, indotta dagli eventi estremi collegati alle variazioni del clima nel pianeta, viene approfondita alla luce dell'opera delle Caritas locali di diverse regioni. Si fa il punto sulle difficoltà affrontate dai profughi in 20 Paesi. «Il documento — si legge in una nota — cerca di contribuire al dibattito globale su come affrontare le lacune esistenti in materia di pianificazione, finanza, protezione legale e politica per prevenire tali violazioni dei diritti umani e le perdite e i danni associati». Alistair Dutton, segretario generale di Caritas internationalis, sottolinea che esiste una «responsabilità morale» di garantire che l’attività iper-industriale senza scrupoli svolta dalle imprese occidentali non danneggi le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo.

«Nell’ultimo decennio — spiega ai media vaticani María Amparo Alonso, direttrice advocacy e comunicazione dell’organismo caritativo — oltre 20 milioni di persone sono state sfollate ogni anno all’interno dei confini del loro Paese a causa di eventi meteorologici estremi, ma questo è solo una parte del quadro perché osserviamo che si tratta di un fenomeno che rimanda a una degradazione progressiva dell’ambiente da cui sono fuggiti». Alonso precisa che «attualmente sono 3,3 miliardi le persone che vivono in nazioni ad alta vulnerabilità umana, ma il numero potrebbe in realtà essere ancora più elevato».

L’esponente di Caritas internationalis racconta anche la sua personale esperienza di vita e lavoro di due anni (dal 2000 al 2002) nella zona di confine tra Kenya e Somalia dove vivevano due comunità, una di agricoltori e l’altra di nomadi. «Dopo una forte e prolungata siccità, i nomadi hanno cominciato a invadere i territori degli altri. Questo ha generato un conflitto, una vera guerra locale, di cui non si è parlato tanto. Vent’anni dopo la situazione è cambiata in peggio. Coloro che invadevano i territori adesso non hanno più bestiame», spiega evidenziando una sorta di spirale viziosa per cui queste persone sono ancora più fragili poiché manca per loro una protezione adeguata.

«Noi ci chiediamo quali siano le misure che ogni Paese mette in campo per rispondere a questa realtà», sostiene la direttrice che insiste sulla necessità di adoperarsi per prevenire l’eventuale violazione dei diritti umani riferibili a questi tipi di contesti. «Alle volte gli strumenti ci sono, ma è necessario muoversi all’azione» e questo è gap critico. «C’è anche la necessità di costruire dei database ad hoc, è importantissimo in questo momento storico. Quello che i membri Caritas ci dicono è che queste persone devono affrontare situazioni di precarietà, disintegrazione del nucleo familiare, discriminazione, abuso, sfruttamento, conflitto. Per esempio, in Somalia e Gibuti, sono testimoni di un considerevole aumento del numero di bambini non accompagnati che arrivano ai loro servizi. Pianificare per ridurre il costo degli interventi che affrontiamo è essenziale».

«Dalla Cop28 (la Conferenza Onu sul clima che inizierà a Dubai a fine novembre prossimo n.d.r.) — conclude Alonso — ci aspettiamo si rafforzi il pensiero collettivo della costituzione del Fondo per le perdite e i danni perché è necessario aumentare in maniera significativa i finanziamenti per garantire una protezione olistica dei soggetti».

di Antonella Palermo