· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
La presenza cinese nel continente si allarga attraverso investimenti economici e culturali

L’Africa parla il mandarino

 L’Africa parla il mandarino   QUO-248
27 ottobre 2023

In questi anni si è molto parlato della presenza cinese in Africa. Si tratta di un tema complesso che ha suscitato interesse a livello internazionale. Le ragioni sono fondamentalmente legate alla capillarità degli investimenti nel vasto continente africano. Si tratta di un indirizzo che ha poi avuto grande risonanza attraverso i summit sino-africani promossi dal governo di Pechino. Storicamente parlando, l’attenzione cinese nei confronti dell’Africa maturò durante la leadership di Mao Zedong alla fine degli anni Cinquanta, e raggiunse il suo apice con la realizzazione della Tazara (acronimo di Tanzania-Zambia railway), una linea ferroviaria completata nel 1976 e costruita da quasi 20.000 lavoratori cinesi. Ma il primo grande successo di Pechino, che richiamò l’attenzione della stampa internazionale, fu registrato in Sudan a seguito degli investimenti cinesi nel settore petrolifero. Nel 1999, dopo anni di esplorazioni e di limitata produzione per l’interno, fu attivato il più importante bacino di estrazione petrolifera per l’esportazione, quello di El Muglad, 800 chilometri a sudovest della capitale, Khartoum. La produzione di greggio, trasferita al terminale di Suakin sul mar Rosso da un oleodotto di 1.600 chilometri, allora faceva capo al consorzio Greater Nile Petroleum Operating Company (Gnpoc) che aveva come socio di maggioranza la compagnia di Stato cinese China National Petroleum Corporation con il 40 per cento del capitale. Da allora la Cina ha investito nel continente risorse umane ed economiche sempre maggiori, estendendo la propria presenza anche all’ambito militare onde assicurarsi un maggiore peso geopolitico, in linea con le proprie ambizioni a potenza globale.

A differenza dei Paesi occidentali, la Cina ha affermato in Africa una strategia orientata alla creazione di politiche market-friendly e di liberalizzazione in cui era assente la “clausola di democraticità e trasparenza” richiesta dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale, che prevedeva la sospensione dei prestiti erogati, qualora non fossero garantiti i diritti civili fondamentali e il tracciamento delle spese praticate dai governi locali. Naturalmente non sono mancate le difficoltà quando Pechino si è trovata a essere il principale creditore bilaterale in Africa, risultando così particolarmente esposto al rischio dei mancati rimborsi. Ciò ha comportato in tempi recenti, da parte delle autorità governative cinesi, uno storico cambio di paradigma aderendo a iniziative multilaterali, tra cui la Debt Service Suspension Initiative e il g20 Common Framework. Come ha osservato Maddalena Procopio, associate research fellow dell’Ispi, «sebbene le relazioni economiche tra l’Africa e la Cina siano dominate dalle interazioni Stato-Stato, le società private cinesi hanno svolto un ruolo sempre più significativo nella trasformazione economica del continente. I flussi annuali di investimenti diretti esteri (Ide) dalla Cina sono aumentati gradualmente tra il 2000 e il 2020 fino a raggiungere i 5 miliardi di dollari nel 2021. Tra il 2017 e il 2020 la Cina è stata il più grande investitore in Africa per posti di lavoro e capitale e il terzo per numero di progetti».

È bene poi rammentare che il partenariato sino-africano, fin dagli esordi, ha dato un impulso notevole allo sviluppo infrastrutturale in Africa, dando nuova linfa alla Belt and Road Initiative (Bri), la nuova Via della seta, ufficialmente inaugurata nel 2013, il cui valore stimato — per volume di scambi avvenuti dopo la sua istituzione — ha toccato i 4 miliardi di dollari Usa. Inoltre, il governo di Pechino sta lavorando congiuntamente con l’Unione Africana (Ua) per rendere operativa l’African Continental Free Trade Agreement (AfCFTA). Si tratta di un’iniziativa panafricana, inaugurata ufficialmente il 1° gennaio 2021, volta a creare un’area di libero scambio interna al continente, con lo scopo di supportare l’industrializzazione dell’Africa. A questo proposito, è bene ricordare, come in passato già scritto sul nostro giornale, l’opinione di Basil El-Baz, fondatore, chairman e chief executive della Carbon Holdings, il quale pubblicò il 30 aprile del 2020 sul «Financial Times» delle previsioni che potrebbero avere effetti benefici sull’AfCFTA di cui sopra. Secondo El-Baz, entro 50 anni l’etichetta “made in Africa” prenderà il posto della più nota dicitura “made in China”. Questo in sostanza significherebbe che i prodotti cinesi a basso costo, quelli cioè che in questi anni hanno congestionato il mercato dei Paesi occidentali, saranno sostituiti da quelli africani. A questo punto l’Africa potrebbe dunque arrivare e basare la propria economia non solo sulle esportazioni di commodity, ma anche di beni a basso costo, seguendo proprio l’esempio della Cina.

Sta di fatto che secondo l’Economist Intelligence Unit, nel prossimo decennio la Cina approfondirà i suoi legami con l’Africa concentrandosi sugli scambi commerciali e difficilmente si lascerà spiazzare dai Paesi occidentali. Nel 2022, il valore delle importazioni e delle esportazioni tra la Cina e l’Africa è stato di circa 260 miliardi di dollari, registrando un incremento del 14,8 per cento rispetto all’anno precedente. Attualmente, la Cina costituisce la seconda destinazione delle esportazioni agricole provenienti dall’Africa. Gli articoli come i semi di sesamo e le arachidi africane rappresentano circa l’80 per cento del totale delle importazioni cinesi. Si prevede che entro il 2035, il volume annuale di scambi commerciali tra Cina e Africa raggiungerà i 300 miliardi di dollari.

Di grande rilievo è il coinvolgimento delle società di telecomunicazioni cinesi, come Huawei e Zte, che hanno sviluppato partnership strategiche con i principali operatori di telecomunicazioni africani: da Mtn a Sonatel, da Algérie Télécom a Maroc Télécom. Oltre alle apparecchiature per le reti di telecomunicazione, le società cinesi offrono anche servizi di manutenzione a lungo termine per garantire il funzionamento delle reti locali secondo standard affidabili. Questa crescente presenza nel continente, nonostante i suoi innegabili effetti positivi sul miglioramento della connettività e sulla riduzione del divario digitale, ha suscitato critiche da parte di alcune componenti della società civile africana, in quanto ritenuta eccessivamente invasiva. La Cina ha inoltre pianificato di fornire a più di 10.000 villaggi africani servizi di tv digitale satellitare, soprattutto quelli presenti nelle zone rurali. Denominato “Wan Cun Tong” in cinese, il progetto è stato completato con successo in 20 Paesi in Africa a partire dall’agosto 2021, a beneficio di oltre 6,5 milioni di persone in 8.612 villaggi.

Sotto il profilo culturale, l’Impero del drago ha promosso gli Istituti Confucio che si stanno rivelando come formula vincente del soft power cinese e il miglior veicolo per accostare le popolazioni africane alla cultura cinese. Il primo è stato lanciato a Nairobi, in Kenya, sul modello del Goethe Institute, del British Council o dell’Istituto Italiano di Cultura. Gli Istituti Confucio sono centri culturali pubblici senza fini di lucro, con la missione di insegnare il mandarino e diffondere la cultura cinese. Oggi ci sono 46 centri di questo tipo in Africa e l’ultimo a essere stato istituito quest’anno è quello di Gibuti. Da rilevare che un totale di 16 Paesi in Africa hanno inserito la lingua cinese nei loro sistemi scolastici nazionali, e circa 30 università hanno istituito specializzazioni legate alla cultura cinese. Ma attenzione, lo scambio culturale non è a senso unico. Ad esempio in Cina, a Zhejiang, è stato istituito il museo africano presso l’Istituto di studi africani della locale università. Al suo interno è possibile ammirare la più grande collezione di manufatti artistici africani mai realizzata in un ateneo dalla fondazione della Repubblica popolare cinese nel 1949.

Negli ultimi anni, questo trend è stato confermato da un numero crescente di serie televisive e film cinesi che hanno conquistato il pubblico africano, fungendo da finestra attraverso la quale è possibile comprendere meglio la Cina. Una cosa è certa: andando avanti di questo passo, l’Africa, in quanto parte integrante del Global South, guarderà sempre più ad oriente, parlando il mandarino.

di Giulio Albanese