
Hanno lasciato le loro abitazioni a Sderot, Ashkelon e in altri piccoli villaggi nella zona meridionale di Israele, a pochi chilometri dalla Striscia di Gaza. Altri si sono spostati dal nord, al confine con un’altra area calda, quella con il Libano, dove da giorni sono in corso scambi di colpi a fuoco con i miliziani filo-iraniani di Hezbollah. Come la città di Kiryat Shmona, situata nella valle di Hula, alle pendici del monte Hermon, dove le poche persone ancora rimaste (circa 2.000 su una popolazione di 25.000) — riporta il sito online di Yedioth Ahronot, raccogliendo testimonianze sul posto — sperano di fuggire «prima che i missili cadano come pioggia».
Alcuni sono scappati spontaneamente, la maggior parte seguendo il piano di evacuazione “Rachel” predisposto dalle autorità governative. Si tratta degli sfollati interni israeliani, che si trovano a subire le conseguenze di una guerra scoppiata in seguito all’attacco perpetrato da Hamas il 7 ottobre scorso, infiltrandosi in territorio israeliano durante lo shabbat. Le cifre complessive non sono univoche: si va dalle 200.000 alle 330.000 persone (la stima più elevata è del think tank Israel Democracy Institute), tra cui tante famiglie con bambini. Del resto non è facile quantificarle, anche perché molte si sono allontanate volontariamente, prima che il piano di evacuazione venisse implementato.
A parte quelli accolti da parenti o amici, gli sfollati hanno trovato rifugio principalmente nelle camere di alberghi e strutture ricettive sparse in tutto il Paese (in totale 234), che dovrebbero essere pagate dal governo. Anche se, al momento, il ministero dell’Interno ancora non ha trasferito i 200 milioni di shekel necessari per il vitto e l’alloggio; altri servizi, come l’istruzione, il welfare o gli psicologi e gli assistenti sociali per il sostegno individuale, sarebbero di competenza dei consigli locali e dei comuni. Di fronte a questa situazione diversi albergatori stanno contribuendo di tasca propria (e questo, in un contesto di normalità, sarebbe periodo di alta stagione, con elevati introiti per il settore del turismo e, dunque, per l’economia del Paese). Secondo il ministero del Turismo, sono praticamente esauriti i posti disponibili negli hotel, così circa 25.000 persone risultano ancora non evacuate, in attesa che si trovi per loro una sistemazione. A Eilat, una città che normalmente conta 50.000 abitanti, sono giunti già 60.000 rifugiati: il comune è assistito da organizzazioni no-profit, ma si sta programmando anche la costruzione di alcuni specifici campi profughi. Il capo dell’Autorità nazionale di emergenza (Naa) presso il ministero della Difesa, Yoram Laredo, ha dichiarato: «Come prossimo passo, se continua così, dovremo rivolgerci alle scuole e alle istituzioni pubbliche, speriamo di non arrivare a questo».
Così, il problema umanitario rischia di diventare una catastrofe sociale ed economica. La gente non può più tornare al lavoro né rientrare nelle proprie abitazioni, sempre che le stesse siano ancora intatte e agibili. Bambini e ragazzi sono destinati a non poter riprendere per molto tempo le attività scolastiche. Il governo ha stabilito che i residenti dei luoghi sottoposti a evacuazione ordinata dal ministero della Difesa abbiano diritto a un sussidio giornaliero (200 shekel per gli adulti, 100 per i ragazzi fino a 18 anni). Su tutto questo pesa l’incognita del tempo. Nessuno sa quanto durerà la situazione: l’emergenza è tale se limitata, ma il rischio è che la crisi possa protrarsi per anni.
di Roberto Paglialonga