· Città del Vaticano ·

La poesia come ribellione nell’ultimo libro di José Tolentino de Mendonça

Una feconda estraneità

 Una feconda estraneità   QUO-245
24 ottobre 2023

Stranieri, sempre. Anche se parliamo la lingua del Paese dove siamo nati, anche se l’anagrafe e il certificato di residenza fanno coincidere passato e presente. C’è un’estraneità al mondo e a noi stessi che non possiamo ignorare; ce lo ricorda la sottile inquietudine del volto noto e sconosciuto insieme che ci fissa nello specchio, ogni mattina. E il fatto, sempre più oggettivo man mano che l’esistenza procede e si fa storia, che nella vita i conti non tornano mai; le variabili impossibili da prevedere sono parte integrante dell’arazzo, anzi, ne formano l’ordito, la base necessaria al ricamo.

Estranei alla terra (Milano, Crocetti Editore, 2023, pagine 180, euro 17, traduzione dal portoghese di Teresa Bartolomei, prefazione di Alessandro Zaccuri) presenta al lettore italiano due raccolte di versi di José Tolentino de Mendonça — cardinale prefetto del nuovo Dicastero per la Cultura e l’Educazione — Strada bianca (del 2005) e Teoria della frontiera (del 2017).

La poesia è una forma di apostasia, scrive Tolentino, una professione di incredulità nell’onnipotenza di ciò che è visibile; una forma di ribellione contro la scontatezza e la superficialità con cui guardiamo le cose. Un punto di resistenza, diremmo parafrasando il nome di una rubrica del nostro giornale, che si fa intravedere di sfuggita, ma ci accompagna sempre. Lo intercettiamo con la coda dell’occhio, ci parla dalle scritte che vediamo per strada, dagli spot pubblicitari che ci inseguono mentre guidiamo nel traffico. Ne intuiamo i contorni in controluce, nella circostanza fuggevole ma reale che attraversiamo, come emerge in Ostia, uno dei componimenti di La strada bianca, dove un contrattempo diventa un’occasione di incontro. «Uno dei soliti ritardi all’aeroporto di Fiumicino / ed eccoci a fare un giro imprevisto nei dintorni / al di là del parco archeologico / questa città sembra un accampamento desolato / balconi pieni di scatoloni e masserizie fuori uso / (quanto devono essere anguste le case popolari) / muri imbrattati di insulti contro i romani / e la debole forza messianica affidata / agli idoli del calcio // Senza rendercene conto eravamo finiti / in una strada secondari a / lungo un terreno recintato/un cartello piantato lì come per caso / dice che qui è morto / Pier Paolo Pasolini».

La poesia segue le premesse della guerriglia urbana, ribadisce Tolentino, «non rivela mai identità e indirizzi (...) Non permette a nessuno di conoscere la totalità degli elementi in campo». È quando pensiamo di aver conosciuto completamente qualcosa, esaurendo le sue possibilità, che dobbiamo davvero preoccuparci, perché si tratta di una confortevole illusione. «Non amare i viaggi che rendono banale la stranezza — scrive il poeta, rivolgendosi direttamente al lettore — non recarti in posti / già descritti / in fin dei conti la tradizione dice poco / e stentato indizio danno i libri della meraviglia / in cui si entra ad occhi chiusi // da sempre la terra è sconosciuta e perplessa / ed è tornando a lei che ascolterai / quello che la prima volt a/ non avevi udito».

Nel testo originale, As viagens, la prima volta, la primeira vez è l’ultimo verso della poesia, lascia al lettore uno spiraglio di possibilità, come un varco da attraversare. Non è una condanna, la profondità insondabile del reale, ma un dono: rende possibile, in ogni momento, la freschezza della prima volta, la possibilità di una gioia sempre nuova, come il gusto del primo sorso di birra (titolo del libro che rese famoso lo scrittore francese Philippe Delerm, a fine anni Novanta).

L’estraneità “strutturale” dell’essere umano permane, impermeabile anche al più tenero dei sentimenti. Un tema che torna spesso nelle pagine più ispirate di Dino Buzzati. «Uno strato infinitesimo d’aria ci divide sempre, mai e poi mai potremo superarlo — scriveva Buzzati nello zibaldone di pensieri a cui ha dato il titolo In quel preciso momento (Neri Pozza, 1950) — fuori di me rimarrai dunque, con tutti i tuoi curiosi misteri (...). Isole solitarie siamo, seminate nell’oceano, e immenso spazio le separa». Ma tutto nasconde una promessa, continua l’autore de Il deserto dei tartari, «tutto ciò che ci affascina nel mondo inanimato, i boschi, le pianure, i fiumi, le montagne, i mari, le valli, le steppe, di più, di più, le città, i palazzi, le pietre, di più, il cielo, i tramonti, le tempeste». L’importante è non dimenticarsene nella vita di tutti i giorni, nota Tolentino in Promemoria da attaccare alla porta del frigorifero: «Insegui a perdifiato la nuvola / e quando di lei resterà solo un colore / non cessi di meravigliarti la sua volontà / di ricominciare ogni volta di nuovo// le folle si trastullano / con i miracoli che accadono / nei libri contabili / tu cerca al contrario / stelle distinte / che trascinino sobbalzando / il peso del tuo aratro».

Il titolo della (bellissima e musicale nell’originale lusitano) Compassione, potrebbe essere un altro post-it da inserire nella bacheca dei memoranda, che riecheggia in modo più esplicito l’evangelico «Se non ritornerete come bambini» di Matteo 18, 1-5.

«Al calar della notte quando sarai sul punto di esaurire / le tue scorte / un angelo scenderà al tuo fianco / i gradini di Micene / e ti parlerà dell’amore estremo / per mezzo del quale tutto / si trasforma // non chiedere mai più il valore di mercato / e il prezzo da attribuire / lascia che l’amore ti renda / uno straniero nel mondo // i bambini che ascolti sferragliare / in una baraonda festosa di ruote — em algazarra no cimo das rodas nel testo originale — sanno che da qualsiasi punto / puoi avvistare il mare / il mare come esisteva / prima della prima zattera».

Il mare immenso, senza confini e senza sponde, immagine di una conoscenza affettiva, immersiva, perché i concetti creano gli idoli, solo lo stupore conosce, come amava dire Gregorio di Nissa. Una regola che vale sempre, anche in poesia.

«Ho amici che pregano Simone Weil / Quanto a me sono anni che tengo a mente Flannery / O’Connor / Pregare deve essere come quelle cose / che diciamo a qualcuno che dorme / abbiamo e non abbiamo un po’ di speranza / soltanto la bellezza può scendere a salvarci / quando le bandiere sollevate / permetteranno / a immagini, rumori, sedimenti spuri / di unirsi al magnifico / corteo che avanza tra le macerie».

Un magnifico corteo, che neanche la forza distruttiva del male riesce a frenare; un’immagine che torna anche nella luminosa Ziw: «La vastità avanza attraverso ciò di cui parliamo / evoca ciò che il tempo suggerisce (...) un milione di lanterne di carta scintillanti / sopra il fiume / e l’anima ripete la domanda eterna».

di Silvia Guidi