«Il Cardinale Achille Silvestrini, uomo del dialogo» è il tema del convegno che si terrà venerdì 27 ottobre, alle 9 — alla presenza del presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella — presso la Sala della Protomoteca del Campidoglio. L’incontro, organizzato da Villa Nazareth e promosso dall’Assessorato alle Politiche sociali e alla Salute di Roma Capitale, in occasione del centesimo anniversario della nascita di Silvestrini, sarà aperto dal saluto del sindaco Roberto Gualtieri. Moderati dal giornalista Ferruccio de Bortoli, interverranno come relatori il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, presidente di Villa Nazareth, e i professori Andrea Riccardi ed Emma Fattorini, autrice del volume di cui parla qui di seguito il cardinale prefetto del Dicastero per le Chiese orientali.
Il libro di Emma Fattorini Achille Silvestrini. La diplomazia della speranza, appena pubblicato per i tipi di Morcelliana, è una descrizione del servizio prestato dal cardinale di Brisighella nei lunghi decenni di collaborazione nella Curia romana. Precede una parte riguardante gli anni di formazione.
Ciò che caratterizza l’impostazione del lavoro consiste nel contestualizzare ogni singolo periodo o settore con ampie presentazioni del clima ecclesiale e politico del tempo considerato e, soprattutto, nel ricorrere a commenti, inediti per la gran parte, dello stesso porporato ad illustrazione delle vicende narrate.
È dunque una storia del Silvestrini diplomatico, ma con ampi excursus su vari aspetti della sua vita umana e sacerdotale, tra cui gli incontri che per molti anni lo vedevano riunire periodicamente un gruppo di intellettuali, ereditati da un amico sacerdote, e a cui il cardinale fu fedelissimo, associandomi, da un certo punto in poi, a quelle riflessioni che, a partire da meditazioni sulla Bibbia, si dispiegavano poi a comprendere le descrizioni che egli non lesinava di illustrare su alcuni aspetti della sua opera diplomatica, a mano a mano che essa si svolgeva.
Le citazioni sono in genere brevi. Ma quello che colpisce il lettore è la straordinaria sagacia e lo spirito di geniale penetrazione con cui egli commenta situazioni, figure ed avvenimenti, soffermandosi su una valutazione lucida e penetrante degli eventi. Ne emerge un approccio molto personale, poco clericale, ma fondato su una fedeltà assoluta alla Chiesa. Questo, tuttavia, secondo l’indole di Achille Silvestrini, non limitava mai l’obiettività e la libertà nella sua visione, mostrando anzi una conoscenza della storia e una interpretazione di essa, formulate in un tono facilmente gradevole anche a chi non appartenesse alla Chiesa.
Conoscendo la persona, già da questi frammenti si può capire la sua peculiare vicenda umana, che lo portò, anche per la natura cordiale e aperta del suo carattere, ad avvicinare nel lavoro e fuori del lavoro (ammesso che i limiti siano facilmente tracciabili) un numero ragguardevole di personalità del mondo della politica e della cultura, che serbarono di lui un ricordo indelebile e che ne sentirono forte mancanza, quando egli non fu più in grado, per il peso dell’età, di coltivarne le relazioni.
Se a questo si aggiunge la passione con cui seguì i suoi giovani di Villa Nazareth, ereditata dall’allora monsignor Domenico Tardini, ed a cui riservò costantemente parte della sua giornata, in un ascolto paziente e con una vera “presa a carico” di ciascuno nella sua individualità e specificità, immediatamente percepita con la sua folgorante intuizione e con una fedeltà paterna a volte persino protettiva, il quadro risulta completo e coerente.
Ne emerge una figura nella quale la componente ministeriale e quella diplomatica si implicano a vicenda e senza contraddizioni e mostrano la solidità di un uomo di pensiero profondamente radicato nel Vangelo, esperto conoscitore del mondo, promotore instancabile del dialogo e della pace. Nel rapporto con i propri interlocutori nel lavoro mostrava infatti, sia pur con diverse caratteristiche di stile, la medesima capacità di penetrazione, non solo per meglio comprendere e quindi per più efficacemente agire, ma anche per una naturale “curiosità” empatica, che gli era congeniale e che lo portò ad evitare senza sforzo rigidità, timori e sussiego che spesso si sogliono istintivamente legare alla figura del diplomatico. E che fosse curioso di conoscere i dettagli della realtà che lo circondava è provato da un vezzo che gli apparteneva: prendere automaticamente nelle sue mani un foglio o un libro che stesse in quelle del suo interlocutore.
La sua natura di romagnolo non va però interpretata come una travolgente e calorosa invasione di spazi esistenziali. Anzi, egli fu sempre misurato e molto selettivo nel condividere cose personali (lo fece soprattutto con persone di cui stimava l’intelligenza). Era la natura del suo “scrutare” l’altro, che all’inizio poteva mettere in soggezione, ma che subito si stemperava in desiderio di comunicazione profonda di contenuti non banali. Le sue relazioni potevano essere a volte molto esplicite e persino taglienti, quando egli percepiva che era in gioco l’onestà del rapporto e quindi il vero bene. Ricordo che, nell’incontro con un alto prelato, noto per una vita piuttosto discussa nei comportamenti morali e nelle possibili connivenze politiche opache, il cardinale gli si rivolse ricordandogli che entrambi erano persone anziane e che presto si sarebbero presentate al giudizio di Dio. L’impenitente prelato ritenne di difendersi adducendo un luogo comune: «Eminenza, la mia casa ha le pareti di vetro». E così il cardinale lo gelò: «Appunto».
Leggendo il volume della Fattorini ho percepito con maggiore chiarezza le ragioni profonde dell’agire del cardinale Silvestrini nei nove anni di lavoro quotidiano che ebbi la fortuna di condividere con lui in quella che allora si chiamava Congregazione per le Chiese orientali.
Se già egli spesso vi si riferiva esplicitamente, la sua preparazione e la sua partecipazione ai Trattati di Helsinki segnarono forse il suo più grande successo professionale, ma anche la più alta espressione del suo modo di essere diplomatico. I commenti entusiasti nel libro ne sono prova. L’essere riuscito, con i colleghi della Santa Sede, a far entrare nel testo e a far approvare dai rappresentanti dei poteri comunisti, ed in particolare dell’Unione Sovietica, il principio della libertà di pensiero e di religione, lo rese fiero non tanto perché si illudesse che ne sarebbero seguiti miracolosi cambiamenti nella politica vessatoria di questi Stati, ma perché sapeva che le idee, una volta espresse ed accettate, procedono da sole, in tempi e modalità misteriosi, e minano quanto ad esse si oppone ben al di là della percezione di chi, sottovalutandole, le ha accettate. In questo farsi strada del bene il cardinale vedeva l’intervento della Provvidenza, non in forma miracolistica, ma mediante l’introduzione di un principio buono anche oltre la corazza di chi pareva tetragono ad accoglierlo. Questo gli veniva, come afferma la Fattorini, anche dalla certezza che condivideva con il suo antico superiore, il cardinale Agostino Casaroli, che in fondo vi fosse uno spazio di bene nel cuore di ogni persona.
Certo gli costò, come appare dalle pagine del libro, lasciare il suo incarico di segretario del Consiglio per gli Affari pubblici della Chiesa, dove direttamente aveva contribuito ad affrontare le più diverse condizioni e problematiche della diplomazia della Santa Sede e dove aveva contribuito a quella Ostpolitik nei rapporti con i Paesi comunisti, tanto voluta da Paolo vi e intesa a ridare qualche respiro all’asfittica condizione dei cattolici sotto la persecuzione ateistica. Fu un impegno su cui si esercitarono giudizi controversi tra chi, magari proprio destinatario del servizio che si intendeva promuovere, pensava si trattasse di indebiti cedimenti al potere marxista, anche solo riconoscendolo come interlocutore, e chi comprendeva che era l’unico mezzo allora percorribile, al di là della denuncia pubblica e della protesta, per aprire piccoli spazi senza cedere sui principi, in modo che i cattolici locali potessero goderne.
Dopo il triennio alla Segnatura apostolica, la sua destinazione da parte di Papa Giovanni Paolo ii a reggere la Congregazione per le Chiese orientali lo trovò entusiasta. Ricordo bene che poco prima un monsignore di Curia molto ascoltato dal Pontefice, mi disse: «Io credo che Silvestrini, con la conoscenza straordinaria che ha dei Paesi dell’Europa orientale, potrebbe fare un ottimo servizio e con competenza in questo Dicastero». Dal libro apprendo che fu lui stesso a chiedere al Papa quella destinazione. Evidentemente le intenzioni coincidevano.
Sempre tentando di decifrare quali sarebbero state le aree privilegiate del suo intervento quale prefetto, non ci si meraviglia se questo uomo di cultura, intelligente e acuto, attento decifratore della storia, interessato al dettaglio come alla contestualizzazione di esso, amante delle sfide e della fiducia nell’incontro oltre i confini, scelse due settori in particolare: la formazione del clero e la tutt’altro che facile promozione di una partecipazione degli orientali cattolici all’impegno ecumenico.
Il primo settore lo mobilitò massicciamente: bisognava far fronte a quel massiccio afflusso di giovani che, dopo la destrutturazione religiosa dell’ideologia marxista, venivano inviati a Roma per formarsi al servizio presbiterale, a causa dell’assoluta mancanza di strutture e di programmi in patria, una volta usciti dalle catacombe. Fu questo impegno l’esatto corrispettivo del suo servizio ai giovani di Villa Nazareth. Gli esiti furono davvero ragguardevoli.
Quanto all’ecumenismo, il cardinale Silvestrini ben sapeva quali fossero i fattori di feroce opposizione fra “uniati” (come venivano chiamati con una connotazione di disprezzo) e ortodossi. Sapeva anche che la libertà ritrovata avrebbe chiesto giustizia e restituzioni di quanto sottratto nell’epoca dell’ateismo. Fu questo un campo nel quale profuse molte energie. Egli fu fermamente convinto che la rinnovata coscienza della propria specificità, come voluto dal concilio Vaticano ii, avrebbe reso i cattolici orientali più coscienti della propria identità e insegnato al resto della Chiesa cattolica che esistevano modi diversi al suo stesso interno di percepire, esprimere e vivere la comune sequela di Cristo nella comunione con il Papa. Non fu facile, anche perché il tempo aveva fatto sedimentare la coscienza implicita che la diversità dagli ortodossi era per i cattolici orientali il segno della loro missione e di una identità “per contrapposizione”. Silvestrini volle incontri, assemblee, convegni, documenti di ogni genere per convincere quale fosse la collocazione delle Chiese orientali cattoliche dentro un contesto che non si basasse solo su nostalgia o recriminazione.
Emma Fattorini si sofferma sull’importanza della “riabilitazione” di monsignor — poi cardinale — Lubomyr Husar nella Chiesa greco-cattolica ucraina, di cui sarebbe diventato presto, come Silvestrini aveva previsto, arcivescovo maggiore. Solo chi conosceva perfettamente il contesto culturale ed ecclesiale, incluse le divisioni interne, capirà cosa questo comportò per il futuro di quella Chiesa. Un Papa polacco, la rinascita delle strutture della Chiesa latina in Ucraina, i relativi conflitti fra identità cattoliche e persino greco-cattoliche, fecero di questo capitolo una questione complicatissima, che a volte si tinse della suspence di un romanzo giallo, non scevro da intrighi, colpi di mano, tentativi in extremis di far saltare quanto era stato attentamente e pazientemente costruito. Conoscere tutto ciò faciliterebbe la comprensione di una parte dei problemi dell’Ucraina di oggi.
Sempre nell’ambito dell’ecumenismo, di cui il cardinale era convinto fautore, come di tutte le cause che richiedessero dialogo e fossero foriere di pace, la sua azione non fu facile. Quando uscì il cosiddetto Documento di Balamand frutto della Commissione teologica cattolico-ortodossa, gli fu subito chiaro che, nonostante il riconoscimento del diritto all’esistenza e ad una vita normale, la sconfessione dell’uniatismo come metodo di comunione avrebbe creato nelle Chiese cattoliche orientali, molte delle quali appena uscite dalla persecuzione, una reazione risentita e la percezione di una tradimento da parte della propria madre, essendo stato sottoscritto dalla parte cattolica. Silvestrini si adoperò con squisita diplomazia perché esse accettassero le ragioni di una difficile (e controversa) valutazione storica, senza che altri gridassero alla vittoria e al riconoscimento della liceità dei soprusi inferti agli orientali cattolici.
Fu così che il grande ecumenismo bloccò, facendo ricorso direttamente al Papa, un ulteriore documento elaborato dalla medesima commissione, in cui la valutazione ecclesiologica delle presunte carenze degli orientali cattolici avrebbe inferto un colpo mortale alla fiducia di questi nella Santa Sede. E per suo intervento quel documento fu sepolto per sempre.
Un ultimo aspetto che vorrei qui ricordare (e di cui nel libro si fa appena cenno) è la piena ed appassionata condivisione da parte del cardinale di quanto Papa Giovanni Paolo ii fece per evitare l’intervento armato in Iraq contro Saddam Hussein, o meglio, contro il popolo iracheno. Si trattava di un’altra sfida al dialogo e alla pace che tanto erano costitutivi della fede, oltre che della convinzione diplomatica di Silvestrini.
Egli stesso si recò in Iraq per portare la vicinanza del Papa alle popolazioni colpite dai bombardamenti e dall’infuriare del successivo embargo, che non andò certo a indebolire i politici, ma che portò alla miseria la povera gente. Avendolo accompagnato in quel viaggio fui testimone di un altra vicenda “al cardiopalma” e dei suoi esiti. Nella visita era previsto, con il consueto riserbo, un incontro col presidente Saddam Hussein. Si presero accordi perché ad esso partecipassero, oltre al prefetto e il suo seguito, il patriarca caldeo ed il nunzio apostolico. Fissata l’ora ci ritrovammo tutti all’ingresso dell’hotel che ci ospitava. Tutti, tranne il cardinale, che non riuscimmo a trovare. Dopo varie ricerche, si venne a sapere che egli era stato prelevato con due ore di anticipo, portato in varie residenze perché non riconoscesse il luogo dove si trovava il presidente e finalmente condotto all’incontro con lui. Aspettammo varie ore, finché il cardinale ritornò, piuttosto soddisfatto della libertà con cui aveva espresso i suoi pareri diplomatici a Saddam Hussein come pure del suo mancato rigetto. L’indomani era prevista la nostra partenza da Baghdad. Proprio quella notte fu cambiata in Iraq la valuta e furono quindi chiuse le frontiere. Con sorpresa il cardinale al mattino scoprì che i giornali locali portavano un attacco diretto contro di lui e le tesi a lui attribuite nel dialogo del giorno precedente. La nostra macchina fu l’unica ad attraversare il deserto ed a passare il confine con la Giordania in un clima spettrale e con il peso di quella denuncia pubblica. Cosa fosse accaduto quella notte e perché l’invito del cardinale a stabilire un minimo contatto con Israele avesse suscitato una simile reazione non ci fu mai dato di sapere.
*Cardinale prefetto del Dicastero
per le Chiese orientali
di Claudio Gugerotti*