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Camp David: successo
o fallimento?

 Camp David:  successo o fallimento?  QUO-243
21 ottobre 2023

Gli accordi di Camp David del 1978 rappresentano ancora oggi uno degli eventi diplomatici più degni di nota della storia contemporanea.

Ciò non si deve necessariamente al loro successo (sicuramente parziale ed incompleto) ma alla circostanza che costituirono un punto di svolta, uno sblocco, nella composizione di un conflitto medio-orientale tra i più complessi ed «intrattabili», quello tra Egitto ed Israele dopo la guerra dei sei giorni del 1967.

Gli ingredienti per un negoziato paradigmatico c’erano tutti: uno stato di guerra; un’occupazione territoriale (il Sinai da parte di Israele); una politica di riconquista della sovranità (quella egiziana); un’istanza di sicurezza nazionale (quella di Israele); una questione di formazione statuale e di istituzioni sovrane (la causa della Palestina); un confronto regionale (tra Paesi arabi ed Israele); il ruolo di una grande potenza (gli Stati Uniti). Un amalgama che esemplifica perfettamente il concetto di «linkage», cioè di connessione tra tematiche, problemi e questioni che si presentano in modo apparentemente slegato, ma che in realtà sono strettamente interdipendenti.

I tre protagonisti, il presidente egiziano, Anwar Sadat, il primo ministro israeliano, Menachem Begin, e il presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, erano stati molto attivi sulla scena internazionale nei mesi precedenti. In particolare, Sadat, nel coraggioso viaggio a Gerusalemme del 20 novembre 1977 (per lo scopo della pace «sarei andato anche in capo al mondo» disse il presidente egiziano) aveva enucleato con chiarezza i capisaldi di una soluzione complessiva: fine dell’occupazione dei territori arabi conquistati da Israele nel 1967; diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, che includesse la possibilità di fondare un proprio stato; diritto di tutti gli stati dell’area a vivere in pace e in sicurezza entro i propri confini.

Il presidente americano, fin dal primo anno di mandato, aveva accarezzato l’idea di avviare qualche iniziativa per la pace in Medio Oriente. Nel 1978 Carter era nel secondo anno del primo mandato. Una tempistica perfetta, perché l’anno dell’eventuale rielezione (che Carter non ottenne, soprattutto per via del disastroso tentativo di liberazione degli ostaggi americani in Iran) era ancora sufficientemente lontano per consentigli di contenere i costi politici di un eventuale fallimento. William B. Quandt, nel suo volume dedicato a Camp David, fa di questa sequenza una regola d’oro per ogni presidente americano, almeno in relazione al Medio Oriente. George W. Bush non ne tenne conto e la sua conferenza di Annapolis del novembre del 2007, l’ultimo anno del suo secondo mandato, non portò a nulla per l’insufficiente motivazione politica. Quanto ad Obama, è pur vero che nominò un inviato speciale per il Medio Oriente già il secondo giorno del suo mandato, ma non apprese l’altra importante lezione di Camp David: per ottenere risultati, è il presidente in persona che deve esporsi.

Carter aveva scritto, il 21 ottobre 1977, una lettera autografa proprio a Sadat (sigillata con la ceralacca, da consegnare a mano al presidente egiziano a cura dell’ambasciata egiziana a Washington), lasciando intendere che ci sarebbe stata una posizione comune tra Stati Uniti ed Egitto per convincere Israele a negoziare anche sulla questione palestinese. Tuttavia, i due non avevano fatto i conti con la circostanza che Begin aveva un indubbio vantaggio negoziale, essendo l’unico dei tre leader a poter abbandonare Camp David anche con un fallimento, senza subirne un danno politico.

Tecnicamente, Camp David si configura come una sessione negoziale tra Egitto e Israele gestita ed avviata dagli Stati Uniti il 5 settembre 1978 e conclusa, nella prima fase, il 17 settembre 1978 (benché Carter avesse sperato di chiudere la partita in soli tre giorni). Concepita come un’iniziativa di facilitazione, Camp David divenne ben presto una mediazione in piena regola, assumendo i caratteri di «formulazione», per il ruolo propositivo e persino redazionale dagli Stati Uniti: Carter aveva scritto di suo pugno, l’11 settembre 1978, una prima bozza di sei pagine per un assetto del Sinai. Carter volle da subito un’atmosfera informale: non c’era protocollo per i piazzamenti a tavola, non c’era un dress code (il presidente americano circolava in blue jeans), ma soprattutto non c’era la stampa, proprio per evitare che dichiarazioni improvvide dei partecipanti finissero per congelare le posizioni e impedire un negoziato sostanziale. L’intento di Carter riuscì solo in parte: nei dieci giorni finali del negoziato Sadat e Begin non si parlarono mai direttamente, benché le loro villette fossero affiancate. In alcuni momenti — ricorda lo stesso Carter — Sadat e Begin si affrontarono a muso duro (riguardo al confine internazionalmente riconosciuto e all’occupazione del territorio egiziano, come pure sullo sgombero dei coloni israeliani). In una fase drammatica, Sadat e Begin fecero per abbandonare la sala riunioni: Carter li ricorse sulla porta, sbarrando loro il passaggio, scongiurandoli di non rompere le trattative e di fidarsi di lui. In un altro momento, Sadat chiese addirittura un elicottero, pronto a ripartire.

Nella ricostruzione storica si parla di «accordi» al plurale, ma in realtà al termine del processo si materializzò un solo vero trattato, quello che sancì la pace tra Egitto ed Israele. A Camp David furono adottati due documenti: il Quadro per la pace in Medio Oriente e il Quadro per la conclusione di un trattato di pace tra Egitto ed Israele. Mentre quest’ultimo andò in porto (il trattato fu firmato a Washington il 26 marzo 1979), dopo una complessa seconda tornata negoziale tra Medio Oriente e Washington (con un drammatico viaggio “della disperazione” di Carter nella regione dal 7 al 13 marzo 1979), il primo restò (e resta in buona parte anche oggi) un documento programmatico.

Invece di «tutti gli stati della regione», in realtà solo Egitto e Israele misero in sicurezza i propri confini (con il ritiro delle truppe israeliane dal Sinai) e posero fine allo stato di belligeranza. Il resto del piano, benché gli accordi di normalizzazione abbiano consentito di fare passi avanti, resta ancora oggi incompiuto. La creazione dell’Autorità palestinese avverrà solo con gli accordi di Oslo, di cui quest’anno ricorre il trentennale, con evidenti arretramenti rispetto alle prospettive del 1993 (Rabin fu poi assassinato nel 1995 per il suo coraggio politico).

Nonostante le dichiarate intenzioni di Sadat in senso contrario, Camp David costruisce i parametri di una «pace separata», quella tra Egitto e Israele, ma fallisce nell’affrontare in modo organico, attraverso la soluzione della questione palestinese, la pace olistica, complessiva, tra il mondo arabo ed Israele. Sadat fu poi ingiustamente accusato di tradimento, pagando con la vita il suo tenace impegno per una pace regionale.

Quanto a Carter, fino all’ultimo giorno di negoziato continuò a sperare nel presunto impegno da parte di Begin di congelare almeno per un anno gli insediamenti nei territori palestinesi occupati. Si sarebbero poi avviati negoziati tra Israele e rappresentanti palestinesi, con il sostegno di Giordania ed Egitto. La vaghezza, in diplomazia, prima o poi presenta il conto, e in questo caso fu molto salato per la causa della statualità palestinese.

di Pasquale Ferrara
Ambasciatore. docente di Diplomazia e Negoziato alla università LUISS – Roma