· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones

La sfida della sostenibilità
in Africa

 La sfida della sostenibilità in Africa  QUO-242
20 ottobre 2023

L’abbiamo scritto tante volte sulle pagine di questo giornale. In linea di principio tutti vorrebbero aiutare l’Africa, ma spesso le parole si dissolvono in bolle di sapone. In effetti, l’approccio che viene solitamente utilizzato per affermare il riscatto del continente sembra essere incentrato sulla risposta alle emergenze. Il vero sviluppo, che alla prova dei fatti dovrebbe rappresentare la vera sfida guardando al futuro, continua ad essere fortemente penalizzato da una serie di dinamiche macroeconomiche che ostacolano la cosiddetta sostenibilità.

Si fa presto a parlare idealmente dei cosiddetti Sustainable Development Goals, SDGs contenuti nell’Agenda 2030 e che riguardano un insieme di questioni importanti per lo sviluppo: la lotta alla povertà, l’eliminazione della fame e il contrasto al cambiamento climatico, per citarne solo alcuni. Ma si dimentica che essi sono stati concepiti tenendo conto di un impianto teorico legato ai concetti tradizionali dell’economia neoclassica, e dunque, paradossalmente non abbastanza innovativo. In altre parole se da una parte gli SDGs rappresentano in linea di principio un importante supporto per realizzare il dovuto cambiamento, dall’altra, tenendo conto della “de-regulation” che regna sovrana sui mercati attraverso i perniciosi meccanismi speculativi, tutto può essere ridotto ad una misura economica, e dunque condizionato dall’attribuzione di un valore di mercato.

Se da una parte sarebbe ingiusto buttare il bambino con l’acqua sporca, il cammino è ancora lungo. Lo si evince chiaramente leggendo il report intitolato African development dynamics, pubblicato quest’anno, e realizzato dalla Commissione dell’Unione africana, in collaborazione con il Centro per lo sviluppo dello Oecd, con il sostegno finanziario dell’Ue. Ma andiamo per ordine. Nel report, giunto alla sua quinta edizione, è scritto a chiare lettere che l’Africa ha bisogno di 1,6 trilioni di dollari in più entro il 2030 — 194 miliardi di dollari all’anno — per raggiungere i suoi obiettivi di sviluppo sostenibile. Per attirare maggiori e migliori investimenti e colmare questo divario, i governi africani e i loro partner dovrebbero perfezionare le informazioni rivolte agli investitori, incrementare la capacità delle istituzioni finanziarie africane per lo sviluppo e promuovere i progetti regionali. Per inciso, e la nostra non intende essere una divagazione, nel 2022, secondo il Sipri (Stockholm international peace research institute) sono stati spesi 2.240 miliardi di dollari in investimenti bellici a livello mondiale.

Sulla carta l’Africa dispone di grandi risorse da mettere in campo. Ad esempio, il continente vanta risorse umane e naturali uniche per attrarre investitori: l’età media della popolazione africana è di 19 anni e la percentuale di giovani che completano un’istruzione secondaria superiore o terziaria potrebbe raggiungere il 34 per cento entro il 2040, in aumento rispetto al 23 per cento del 2020. Si prevede inoltre che la crescita del Pil reale dell’Africa raggiungerà il 3,7 per cento nel 2023, un ritorno ai livelli pre-covid-19. E cosa dire delle commodity? Si tratta di un capitale naturale, che rappresenta il 19 per cento della ricchezza totale dell’Africa, che offre grandi opportunità per investire nello sviluppo sostenibile. È evidente che siamo di fronte a dati percentuali importanti che però, leggendo il report, vanno presi con il beneficio d’inventario. Anzitutto non tengono conto della crisi israelo-palestinese esplosa in questi giorni e che associata agli effetti della guerra russo-ucraina acuiranno ulteriormente l’inflazione e la costante crescita dei tassi d’interesse con conseguenze disastrose sul costo della vita. Se a questo aggiungiamo la variabile dei cambiamenti climatici, è chiaro che il conseguimento degli SDGs diventa problematico.

D’altronde, stando a quanto riferiscono gli estensori di questo studio, proprio le crisi globali stanno influenzando gli investimenti in Africa in modo più negativo che nel resto del mondo. Ad esempio, la quota africana di investimenti diretti esteri “greenfield”, vale a dire di società che creano filiali all’estero, costruendo nuovi impianti produttivi, (questi progetti possono comprendere anche la realizzazione di nuovi centri di distribuzione, uffici e abitazioni…), è scesa al 6 per cento nel 2020-21 (la quota più bassa in 17 anni), mentre i Paesi ad alto reddito hanno registrato la loro più alta percentuale di sempre (61 per cento). Anche il costo del capitale in Africa è salito al di sopra dei livelli di altre parti del mondo, escludendo alcuni governi africani dai mercati obbligazionari e ostacolando gli investimenti in settori di trasformazione come l’energia rinnovabile. Tuttavia il deficit finanziario sostenibile potrebbe essere colmato: equivale infatti a meno dello 0,2 per cento del valore degli asset globali finanziari, pari al 10,5 per cento degli asset finanziari africani. Questo gap potrebbe essere colmato se solamente il 2,3 per cento degli asset globali finanziari fossero allocati all’Africa entro il 2030. Da rilevare che il report propone diverse priorità ai governi africani e ai loro partner per migliorare la fiducia degli investitori, accelerando gli investimenti sostenibili nel continente. Tra loro figurano alcune raccomandazioni. Alcune di queste dipendono molto dalla buona volontà della comunità internazionale. Essa dovrebbe, per esempio, incanalare più risorse per aumentare la capitalizzazione delle 102 Istituzioni finanziarie per lo sviluppo (Dfi) africane e aumentare la loro capacità di agire come intermediari tra la finanza internazionale e i progetti locali, in particolare per l’adattamento climatico. Facile a dirsi, viene spontaneo dire, anche se poi bisognerà vedere se i grandi attori internazionali saranno capaci di sostenere queste iniziative.

Più praticabili sono i suggerimenti rivolti ai governi africani e alle organizzazioni regionali che dovrebbero accelerare l’attuazione di iniziative transfrontaliere come i corridoi di sviluppo e le infrastrutture digitali per ridurre la frammentazione del mercato; fornire un sostegno mirato alle piccole e medie imprese; e monitorare attivamente l’attuazione del protocollo di investimento dell’Area di libero scambio continentale africana (Afcfta). Detto questo, il report propone anche alle istituzioni statistiche nazionali africane di fornire più dati e di migliorare la qualità nella valutazione del rischio nazionale, e le agenzie di promozione degli investimenti e i regolatori dovrebbero fornire informazioni più dettagliate e più aggiornate in formati armonizzati e user-friendly. Su questa richiesta di dati aggiornati poi valutabili, francamente, occorre fare alcune precisazioni, non foss’altro perché sono molte le variabili. Ad esempio, il downgrade, vale a dire il declassamento operato in questi anni, soprattutto durante la pandemia, da parte delle agenzie di rating statunitensi (Moody’s, Standards & Poor’s e Fitch), è avvenuto in molti casi arbitrariamente senza che si tenesse sufficientemente conto di quello che era l’effettiva solvibilità dei governi, delle obbligazioni di Stato, dei titoli pubblici e privati e anche delle società finanziarie e industriali africani. Per le popolazioni locali tutto questo si è tradotto in povertà, instabilità sociale e sottosviluppo. Occorre sottolineare che in concomitanza dell’inizio della pandemia e a partire dalla crisi armata che insanguina l’Europa orientale, i declassamenti operati dalle tre agenzie di rating statunitensi hanno avuto un impatto devastante sulle economie africane, sia per quanto concerne l’aumento del costo dei prestiti, come anche in riferimento all’indebolimento dell’offerta di capitale da parte degli investitori stranieri. Stiamo parlando di giudizi che si sono basati fondamentalmente sulle previsioni riguardanti la debolezza dei sistemi fiscali e sanitari dei rispettivi Paesi.

Tutto questo, ad esempio, non ha minimamente tenuto conto della ricchezza mineraria come indicatore di performance, con particolare riferimento non solo alle fonti energetiche ma anche all’immenso capitale nascosto nelle viscere del continente: dall’oro, ai diamanti, dal cobalto al rame, dal rutilio, allo zinco, dal cobalto alle terre rare in generale.

È dunque chiaro che la sostenibilità è complessa, interagendo intrinsecamente con fattori socio-politico-economici; ma si dovrà comunque tenere conto dei potenziali effetti a cascata generati dalla globalizzazione dei mercati finanziari.

Il nodo da sciogliere, alla base di questa considerazione, è rappresentato dall’esigenza, avvertita da vaste componenti della società civile, di una riforma che tenga conto del primato della persona sulle logiche speculative che acuiscono le diseguaglianze e quella che, pertinentemente, Papa Francesco definisce «la cultura dello scarto».

di Giulio Albanese