· Città del Vaticano ·

80 anni fa il rastrellamento del ghetto di Roma

Quel “sabato nero” resta
una ferita aperta

 Quel “sabato nero” resta una ferita aperta  QUO-238
16 ottobre 2023

Nell’estate del 1943 un diplomatico tedesco si trasferisce a Roma in veste di ambasciatore in Vaticano. Si tratta di Ernst von Weizsäcker, già segretario di stato agli esteri tedesco, e ora “esiliato” in una sede diplomatica “periferica”. Chiara diminutio di funzioni. Un tale disagio psicologico accompagnerà sempre la missione del nuovo ambasciatore in Vaticano, che eredita la ventennale esperienza di Diego von Bergen e che vuole dimostrare a Berlino di poter far meglio per i rapporti tra Germania e Vaticano.

In vista dell’udienza di accreditamento con Pio xii , von Weiszäcker prepara un discorso il cui testo anticipa alla Santa Sede. Ma esso non convince la Curia: sembra infatti che i tedeschi quasi non abbiano colpa del «tempo agitato» che il mondo sta vivendo; sono anzi i vincitori della prima guerra mondiale i veri colpevoli, avendo scatenato una crisi per cui la Germania combatteva ora una «lotta gigantesca contro la forza del bolscevismo e di quelli che lo aiutano», in una missione di civiltà per realizzare «un nuovo ordine».

Il segretario di Stato vaticano cardinal Maglione non reagì nel migliore dei modi. Fece pregare von Weizsäcker «di non far discorsi, date…le difficoltà dei tempi e la delicatezza dei rapporti tra la Santa Sede e la Germania». Fu infatti Pio xii l’unico a parlare, il 5 luglio 1943, nell’udienza di accreditamento del nuovo ambasciatore germanico. Lo fece in lingua tedesca e in breve forma protocollare.

La missione del nuovo ambasciatore tedesco iniziava quindi in circostanze non favorevoli. Venti giorni dopo il suo accreditamento Mussolini veniva messo in minoranza al gran Consiglio del fascismo. Badoglio, succedutogli, aveva assicurato continuità nella guerra ma senza convincere i tedeschi. La sera del 30 agosto 1943, l’avvocato Milo di Villagrazia, che frequentava l’ambasciatore per conversarvi in italiano, vide un von Weizsäcker molto abbattuto: «In vita mia non mi sono sentito mai tanto depresso come oggi. Avvengono cose inimmaginabili. Si scende nell’inganno, nel fango». L’avvocato chiese se si trattasse del pericolo comunista. L’ambasciatore replicò che si trattava «di qualche altra cosa, previa al comunismo», e non aggiunse altro.

Contemporaneamente a questi eventi, alcuni ufficiali tedeschi contattarono la Curia romana per informarla che «in occasione di una eventuale rapina del Santo Padre da parte di tedeschi, essi non intendevano partecipare a tale misfatto; essi, pertanto, chiedevano in questo caso la protezione del Vaticano». Fu perciò collegato l’enigmatico discorso di von Weizsäcker a queste notizie. Si venne anche a sapere di «nuovi tentativi di colpo di Stato, con l’appoggio dei battaglioni ss . Infine, che i tedeschi hanno concentrato in Italia grandi riserve di gas».

Questa era la situazione italiana dopo il 25 luglio 1943. L’armistizio dell’8 settembre, com’è noto, rese l’Italia preda dei tedeschi e il Vaticano in una condizione ancor meno invidiabile: enclave, isola in una Roma fascista conquistata dai nazisti. Era in questa situazione che, il 16 ottobre, si verificò la peggiore delle tragedie: la razzia degli ebrei romani in un “sabato nero” che, a ottant’anni di distanza, resta ferita aperta non solo per la comunità ebraica, ma per l’intera cittadinanza romana e per gli italiani.

I romani ricordano bene anche «l’enorme rapina» (così la definì Sergio I. Minerbi) dei cinquanta chili d’oro chiesti dai nazisti agli ebrei per evitare la deportazione. Il Vaticano si era offerto di aggiungere dai suoi forzieri quei chili eventualmente mancanti, ma la comunità ebraica era infine riuscita a raccogliere e a consegnare tutto l’oro richiesto. Nonostante ciò, il 16 ottobre 1943 i nazisti violarono la parola data.

L’ordine di deportazione venne da molto in alto, da Hitler in persona. Il progetto era di deportare almeno 8000 ebrei romani e fu attuato in pieno Shabbat, alle prime luci di sabato 16 ottobre 1943. L’osservanza del riposo ebraico doveva giocare da “effetto sorpresa”. Ma per la rapidità con cui la notizia si diffuse, non fu così.

Sappiamo dai documenti che cosa accadde in Vaticano, quel 16 ottobre. Pio xii ricevette nelle primissime ore del mattino, fuor di protocollo, la principessa Enza Pignatelli d’Aragona, giunta a riferirgli la notizia della razzia. Immediatamente il Papa ordinò al suo segretario di Stato Maglione di convocare l’ambasciatore tedesco per chiedergli di far cessare le deportazioni. «Io mi attendo sempre che mi si domandi: perché mai voi rimanete in codesto vostro ufficio?», disse l’ambasciatore quando vide il cardinale. Maglione replicò: «Le dico semplicemente: Eccellenza, che ha un cuore tenero e buono, veda di salvare tanti innocenti. È doloroso per il Santo Padre che proprio a Roma, sotto gli occhi del Padre comune siano fatte soffrire tante persone unicamente perché appartengono a una stirpe determinata».

Quale «stirpe determinata»? Non era la stessa «stirpe» menzionata dal Papa nel suo radiomessaggio natalizio del 1942? Si trattava dunque degli ebrei. Von Weizsäcker pose una domanda decisiva: «Che farebbe la Santa Sede se le cose avessero a continuare?». Le direttive, infatti, venivano «da altissimo luogo». Maglione fu assai preciso: «La Santa Sede non vorrebbe essere messa nella necessità di dire la sua parola di disapprovazione».

Si prospettava dunque la deplorazione vaticana contro la razzia degli ebrei romani. Ma fino a qual punto ci si sarebbe spinti a deplorare? Fu sempre il cardinal Maglione a spiegarlo: «La Santa Sede non deve essere messa nella necessità di protestare: qualora la Santa Sede fosse obbligata a farlo, si affiderebbe, per le conseguenze, alla divina provvidenza». Molto spesso, e anche nelle ultime trattazioni sul tema, questa parte del verbale di Maglione viene omessa; il verbo «protestare» sparisce. Come sparisce la consapevole assunzione di rischio da parte della Curia romana delle conseguenze di una protesta papale. Si dimentica inoltre di ricordare cosa fece l’ambasciatore tedesco. Von Weizsäcker chiese e ottenne da Maglione di «tacere» con Berlino di quella loro conversazione. Maglione, tuttavia, gli ricordò la possibilità di una protesta vaticana se la razzia non fosse cessata. Von Weizsäcker, quindi, non riferì nulla a Berlino. Ecco perché gli archivi tedeschi tacciono su quell’udienza in Vaticano. L’ambasciatore scrisse invece due telegrammi rassicuranti che davano un quadro falsato dei fatti, facendo capire a Berlino che il Vaticano non avrebbe protestato per i fatti di Roma.

L’ambasciatore tedesco aveva comunque le mani legate: non poteva far sapere a Hitler che il Vaticano avrebbe protestato se la razzia non fosse cessata (ciò avrebbe significato un fallimento personale agli occhi dei superiori); e non aveva il peso politico per imporre alle ss di far cessare le deportazioni. A ogni modo il Vaticano aveva attivato altri canali. Attraverso il principe Carlo Pacelli, nipote del Papa, monsignor Alois Hudal, rettore del collegio di Santa Maria dell’Anima, fu pregato d’intervenire. Hudal chiese quindi per iscritto al generale Rainer Stahel, comandante militare della piazza di Roma, di fermare la razzia: «La prego di dare ordine di sospendere immediatamente tali arresti a Roma e nei dintorni. Altrimenti temo che il Papa sarà costretto a prendere apertamente posizione contro queste azioni, il che servirà indubbiamente ai nemici della Germania da arma contro noialtri tedeschi».

Dalle carte sappiamo che si era giunti a Stahel attraverso Gerhart Gumpert, numero due dell’ambasciata tedesca in Vaticano. Gumpert contattò il suo omologo a Roma, Albrecht von Kessel. Questi (membro del circolo antinazista Freundes-und Mitwisserkreis) suggerì di «presentare una lettera di protesta a Stahel quella mattina», per far presente «il disgusto del Vaticano verso le misure contro gli ebrei». Firmata da monsignor Hudal, la lettera fu consegnata a Stahel, quel 16 ottobre 1943, dal generale dei Salvadoriani padre Pancrazio Pfeiffer.

Ricapitolando: tramite Gumpert, Hudal, Pfeiffer e Carlo Pacelli, l’ambasciatore tedesco in Vaticano von Weizsäcker aveva fatto giungere riservatamente al comando tedesco in Italia la richiesta di cessare le deportazioni per sventare l’eventualità di un’aperta protesta di Pio xii . A livello ufficiale, invece, von Weizsäcker tacque su una possibile protesta, prospettata dal cardinal Maglione. Con questo doppio registro l’ambasciatore sperava di ottenere entrambi gli scopi: fermare la deportazione degli ebrei e mostrare che la sua missione diplomatica in Vaticano, nonostante la razzia del 16 ottobre, non aveva subito scosse. L’ambasciatore scrisse infatti a Berlino che «la Curia è particolarmente preoccupata a causa di quanto era accaduto, per così dire sotto la finestra del Papa»; senza menzionare il drammatico colloquio avuto con Maglione quel 16 ottobre. Come avrebbe ricordato von Kessel, «von Weizsäcker doveva lottare su due fronti: raccomandare alla Santa Sede, al Papa, quindi, di non intraprendere azioni inconsiderate, vale a dire azioni di cui, forse, non percepiva tutte le ultime catastrofiche conseguenze»; ma anche «cercare di persuadere i nazisti, attraverso rapporti diplomatici fatti ad arte, che il Vaticano dimostrava buona volontà».

Quello che accadde subito dopo gli interventi vaticani è narrato dallo storico ed editorialista di «Le Monde», Jacques Nobécourt: «Due ore dopo, il rastrellamento fu sospeso e quattromila ebrei minacciati trovarono asilo in conventi e collegi ecclesiastici, e altri presso italiani […]. Stranamente, dopo la guerra Weizsäcker si attenne sempre alla versione del non intervento di Pio xii , persino nei confronti dei suoi diretti collaboratori. Tacque sempre la sua convocazione da parte del segretario di Stato, probabilmente per non aggiungere l’accusa del proprio silenzio alle altre che gli venivano mosse».

Alcuni studiosi ritengono che la sospensione della razzia sia stata presa per decisione autonoma di Berlino, fallito l’«effetto sorpresa». Resta però documentato l’intervento vaticano, peraltro anche nei dispacci del ministro britannico Osborne. E resta documentata l’assistenza e l’ospitalità data a ebrei e a vari rifugiati in Vaticano, a Castel Gandolfo, in Laterano e nei vari istituti religiosi romani (come pure recenti scoperte archivistiche hanno dimostrato). Perfino il diario inedito di Karl Sidor, allora ambasciatore slovacco in Vaticano, fa ampia menzione di questi soccorsi.

Oltre mille ebrei romani, catturati dai nazisti quel “sabato nero” di ottant’anni fa, presero tragicamente la via dei Lager. Per le carte americane, circa settemila israeliti scomparvero nel nulla; tanto che Kappler dovette giustificare a Berlino il fatto di essersi lasciato sfuggire la maggioranza degli ebrei romani. Secondo le carte della Italy Collection dello Yad Vashem a Gerusalemme, nel periodo della “Roma nazista” gli ebrei rifugiati in zone extraterritoriali vaticane erano 118; quelli rifugiati in «zone privilegiate» (ossia sotto protezione pontificia) erano 259; gli ebrei rifugiati in istituti femminili erano 2746, mentre quelli rifugiati in istituti maschili erano 1592. Ammonta dunque a 4715 la somma degli ebrei ospitati in immobili pontifici nei nove mesi di occupazione nazista a Roma. Questa cifra sarà prevedibilmente aggiornata dalle nuove ricerche in corso.

Restano comunque le ferite della memoria, che non si rimarginano; e che dilaganti fenomeni di antisemitismo contribuiscono tuttora a tenere aperte. Ecco perché è vitale considerare quel lontano 16 ottobre come una data per sempre iscritta nel calendario di ogni nostro oggi.

di Matteo Luigi Napolitano