· Città del Vaticano ·

Nell’analisi di Ugo Tramballi uno sguardo d’insieme sul conflitto

Una partita che si gioca fuori dai soli confini di Gaza

A picture taken on October 10, 2023, shows the closed gates of the Rafah border crossing with Egypt. ...
14 ottobre 2023

«Non è facile prevedere come andrà a finire. L’unica cosa che mi sento di poter dire, pensando ad analoghe storie di cui sono stato testimone negli anni in Medio Oriente, è che la partita si gioca ben fuori dai soli confini di Gaza. Occorre guardare all’intero scacchiere, e ad altre capitali, al Cairo e ad Amman per esempio». Ad affermarlo è Ugo Tramballi, tra i maggiori esperti ed autorevoli analisti politici del conflitto tra Israele e Palestina, e delle complesse dinamiche politiche del Medio Oriente. Oltre che in Israele e Palestina, è stato giornalista corrispondente in Libano, Iran, Iraq e Afganistan. A lui abbiamo chiesto di aiutarci a capire cosa è successo e cosa sta succedendo in queste ore.

«È oggettivamente difficile dare già oggi un’analisi compiuta di quanto sta accadendo. Gli sviluppi delle prossime ore saranno determinanti. Sviluppi che non riguardano solo lo scontro militare ma mettono in gioco i comportamenti di più capitali del Medio Oriente. Ma mi consenta di fare un passo indietro nel tempo. Negli ultimi anni in Israele le cose sono andate bene, e soprattutto (e questo è il vero punto) molto meglio che nel resto dell’Occidente».

Perché dice ‘il resto d’Occidente’?

Perché in fondo il vero problema è questo: Israele è un enclave dell’Occidente in un contesto orientale, arabo. Ma torniamo a quanto le dicevo: Israele ha potuto vantare un’eccellente situazione economica negli ultimi anni, uno shekel solido, uno sviluppo straordinario delle start up dell’high tech, e poi gli accordi di Abramo, che hanno ulteriormente accresciuto un’idea di stabilità. Israele, insomma, è andato avanti senza che nessuno gli chiedesse conto di quei sette milioni di palestinesi che gli vivono accanto. L’Occidente aveva già i suoi problemi per doversi occupare di quelli degli altri. Fondamentalmente si è negata l’esistenza di un problema. E di un problema molto grave. Poi è arrivato il governo attuale, fortemente condizionato dai nazionalisti religiosi, che alla fin fine immaginano una progressiva assimilazione della popolazione araba dentro uno stato ebraico. Cioè lo sviluppo pratico di quanto previsto dalla ‘basic law’ del 2018, cioè la legge costituzionale (in un paese che però non ha una costituzione ndr.) che stabilisce il carattere ebraico dello stato israeliano, nel quale altre etnie e religioni vengono fondamentalmente solo tollerate.

Certo, una storia che comincia da lontano, ma venendo a quest’ultimo scorcio temporale?

Negli ultimi 18/20 mesi la violenza è cresciuta enormemente. Ci sono stati molti morti, anche civili, a Jenin, a Nablus, a Hebron, e anche nella solitamente tranquilla Jerico. Ma anche questa escalation non ha creato interrogativi ed allarmi nella comunità internazionale. Paradigmatica, da questo punto di vista, è la storia dell’uccisione di Shireen Abu Akleh (la giornalista palestinese cattolica, di nazionalità statunitense uccisa da una pallottola israeliana durante degli scontri a Jenin nel maggio dello scorso anno, ndr.) per la quale, malgrado la cittadinanza americana, ancora non è stato individuato e punito il colpevole.

Intanto cosa accadeva dentro il campo palestinese?

Accadeva che cresceva un clima di odio, di frustrazione e di rabbia. Cioè cresceva quell’humus ideale all’affermazione della rappresentatività di Hamas. Una rappresentatività, si badi bene, in un qualche modo legittimata anche dagli israeliani. Voglio dire che Hamas nascondeva le sue reali intenzioni assumendo negli ultimi tempi un ruolo sempre più politico, ingannando così gli avversari. I quali hanno centrato le loro attenzioni, sia politiche che militari, sulla Cisgiordania, piuttosto che a Gaza. Israele ha puntato essenzialmente alla difesa degli insediamenti dei coloni nella West bank, sulla spinta di due ministri del governo, loro stessi coloni. Questo è stato l’errore di Israele che ha portato alla debacle di sabato scorso. Mi sembra di capire che l’opinione pubblica israeliana questo lo abbia molto chiaro nei sondaggi che circolano.

L’ iniziativa di Hamas non sembra però aver suscitato iniziative violente in Cisgiordania, così come loro auspicavano nella rivendicazione dell’attacco.

Per loro è comunque un successo. Anche se poi si dovesse rivelare —come è probabile— una pesante sconfitta politica per Hamas e per l’intera causa palestinese. Vede, bisogna cercare di entrare nella mentalità dei miliziani: la loro visione ‘messianica’, ‘redentrice’ dell’azione di guerra non tiene conto dei risultati strategici.

Ora la prospettiva di un accordo tra Israele e Arabia Saudita sembra irrimediabilmente allontanata.

Non era comunque un accordo facile da raggiungere. Un bellissimo obiettivo, per l’impatto economico che avrebbe tanto su Israele che sulla Palestina, per le concessioni che i sauditi reclamano in favore dell’autonomia palestinese, e — aggiungo — sul fatto che i sauditi sembrano essere oggi gli unici che possano esercitare un ruolo persuasivo ad una maggiore ragionevolezza dei palestinesi. Ma è un accordo difficile da realizzare anche per gli impatti ulteriori che implica sullo scacchiere internazionale. Penso ad esempio all’aspetto contestuale della richiesta saudita di avviare un programma di nucleare civile, con propria produzione di uranio. E poi c’è il grande problema della successione ai vertici dello Stato Palestinese, che immagino ormai irrinunciabile al termine di questa crisi.

di Roberto Cetera