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Sinodo: il briefing quotidiano in Sala stampa

 Sinodo: il briefing quotidiano  in Sala stampa  QUO-235
12 ottobre 2023

«Pace!». Sì, «pace in Terra Santa, in Ucraina, nel Libano, in Africa e in tutti i Paesi in guerra, ovunque!». Ecco la corale preghiera e l’impegno condiviso nei lavori sinodali di questa mattina, giovedì 12 ottobre. Lo ha reso noto Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione e presidente della Commissione per l’informazione dell’Assemblea, nel briefing con i giornalisti che ha avuto inizio intorno alle 13.50, nella Sala stampa della Santa Sede.

In particolare proprio per la pace — ha ricordato Ruffini — hanno pregato stamani in Aula il cardinale Sako e Margaret Karram (le loro riflessioni sono riportate in questa pagina).

E un itinerario di preghiera per la pace è anche quello che i partecipanti al Sinodo stanno per compiere — partendo insieme da piazza Santa Marta in Vaticano alle 14.45 — con il pellegrinaggio alle catacombe di San Sebastiano, di San Calisto e di Domitilla. Luoghi di storia e di forte spiritualità dove si conservano vive la «memoria apostolica» e quella dei martiri. Un’esperienza, ha aggiunto il prefetto, che è «parte integrante del percorso sinodale» e che si concluderà alle 18.30 con un momento di preghiera comune.

Stamani, ha ricordato Ruffini, erano in agenda i Circoli minori (sesta sessione) con la finalizzazione dei resoconti sul modulo b 1 dell’Instrumentum laboris, che sono stati appena consegnati alla Segreteria generale. E, in particolare, è stata affermata in Aula l’importanza del profilo mariano della Chiesa sinodale, significativamente proprio nel giorno della festa di Nostra Signora Aparecida e di Nostra Signora del Pilar.

Domattina, all’altare della cattedra della basilica di San Pietro, presiederà la celebrazione della messa il cardinale cappuccino Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa, nella Repubblica Democratica del Congo, membro del Consiglio ordinario del Sinodo e del Consiglio di cardinali. Poi, in Aula, è prevista l’ottava congregazione generale, che sancisce l’inizio della terza parte dei lavori, con la presentazione — a cura del relatore generale cardinale Jean-Claude Hollerich — della sezione b 2 dell’Instrumentum laboris, dedicata al tema: «Corresponsabili nella missione, Come condividere doni e compiti a servizio del Vangelo?». Faranno seguito le testimonianze.

Sheila Peres, segretaria della Commissione per l’informazione, ha presentato i temi proposti nel pomeriggio di ieri, mercoledì 11 ottobre, durante la settima congregazione generale (343 i presenti), sia negli interventi dei Circoli minori sia in quelli liberi. Il punto centrale, ha affermato la donna, è stato l’impegno per rilanciare «il dialogo per la pace» che deve vedere protagonisti tutti i leaders cristiani. Insieme a una «vera e propria chiamata a rafforzare il dialogo interreligioso e interculturale», in particolare con le comunità indigene. Di qui anche la riflessione sull’impatto del colonialismo.

La questione dell’accoglienza della Chiesa attraverso «il ministero della riconciliazione» è stata riproposta con l’impegno per una «formazione permanente». E anche con una particolare attenzione all’ascolto dei giovani che, soprattutto nel mondo occidentale, sentono sempre meno il desiderio di formarsi accostandosi al catechismo. Inoltre è stata condivisa la testimonianza di santa Teresa di Calcutta con il suo servizio ai poveri e ai malati di Aids. Quindi è stata data “voce” alle tematiche riguardanti le donne emarginate e coloro che vivono nelle periferie, perché nella Chiesa siano tutti accolti e nessuno sia escluso. Ecco, allora, l’importanza del «ministero dell’ascolto», di una vera «pastorale dell’ascolto», a tutti i livelli.

Margaret Karram, presidente dal 2021 del movimento dei Focolari, che partecipa ai lavori come “invitato speciale”, ha anzitutto confidato che la preghiera per la pace, a inizio mattinata, «è stato un momento forte». Perché «da quando è scoppiata la guerra» in Terra Santa «ho il cuore straziato. Mi sono chiesta che cosa sto facendo di concreto per la pace ed è stato importante unirmi all’appello del Papa nella preghiera per il mondo», ha affermato. È significativo, ha continuato, «essere al Sinodo, vedere rappresentanti di tutti i continenti radunati per chiedere a Dio la pace. È stato un momento profondo perché credo nella potenza della preghiera, capace di dar speranza». Oltretutto oggi, ha ricordato Karram, «il Vangelo parlava proprio di questo: “bussate e vi sarà aperto”, “chiedete e vi sarà dato”. Questa esperienza di Sinodo mi sta insegnando cosa significa camminare insieme», ha aggiunto la presidente del movimento dei Focolari. Per costruire «ponti di pace» occorre la «metodologia dell’ascolto come stile di vita della Chiesa, anche in ambito sociale e politico».

L’arcivescovo Andrew Nkea Fuanya, presidente della Conferenza episcopale del Camerun, membro del Consiglio ordinario del Sinodo, ha definito l’assise «una grande consolazione per l’Africa. Noi abbiamo tanti problemi che fanno sentire abbandonati» ha affermato. «Venire qui e unirsi alla Chiesa universale, sederci e pregare per i problemi che devastano l’Africa, e soprattutto per i Paesi che sono colpiti dalla guerra — ha detto — per noi è una grandissima fonte di consolazione».

«Inoltre il Sinodo offre la possibilità all’Africa di far sentire la propria voce» ha proseguito l’arcivescovo di Bamenda. L’Africa «ha le sue caratteristiche, peculiarità, e quando noi ci riuniamo in un viaggio sinodale come questo, abbiamo un’opportunità per far sentire la nostra “voce” dove dovrebbe essere sentita». In realtà, ha aggiunto, «non siamo preoccupati dei social media o di quello che dicono gli altri; noi siamo insieme ai nostri fratelli e sorelle, quindi sentiamo davvero quest’unità che tiene insieme la Chiesa. E possiamo esprimerci liberamente e con gioia». Perciò, ha detto ancora, «sono grato che l’Africa possa lasciare il segno nel Sinodo».

Monsignor Fuanya ha insistito sul fatto che «la guerra non può essere mai una soluzione» ai problemi. Proprio alla luce di «quello che avviene negli altri continenti — le guerre in corso in Ucraina, Palestina ed Israele e altrove — dobbiamo essere tutti “pro pace” e come figli di Dio uniti in preghiera per la pace. E la pace è possibile», ha ribadito.

«La sinodalità fa già parte della cultura africana perché noi facciamo sempre le cose insieme come una famiglia, consultiamo tutti nell’ambito familiare» ha poi fatto presente. E «nelle Chiese locali crediamo molto nelle comunità ecclesiali di base (Ceb), dalle quali scaturiscono le missioni e poi le parrocchie, che poi formano le diocesi. Dalle Ceb ognuno è in grado di esprimersi, mentre nei livelli superiori qualcuno potrebbe essere escluso. Ma se si parte dalle Ceb, costituite da famiglie dove tutti si conoscono — prima di passare al secondo livello (missioni) e al terzo (parrocchie) — vediamo che la struttura è fatta in modo che la nostra cultura ci aiuta ad essere davvero sinodali».

Ha preso quindi la parola suor Caroline Jarjis, medico, delle Figlie del Sacro di Gesù, che svolge in Iraq la sua missione: partecipa ai lavori come testimone del processo sinodale per le Chiese Orientali e il Medio Oriente e tra coloro che provengono dalle Assemblee continentali senza essere insigniti del “munus” episcopale. Stamani la religiosa, durante la preghiera dell’assemblea, ha letto il Vangelo in arabo. Con una confidenza: appena tornata al suo posto al tavolo, le è stato detto che tutti avevano capito il passo evangelico anche se lei loro aveva proclamato in arabo.

«Io sono di Baghdad, proprio di Baghdad» ha detto per presentarsi. E prendendo le mosse da quanto detto dall’arcivescovo Fuanya, suor Jarjis ha affermato: «Dio era presente con noi prima che noi venissimo qui. Ognuno di noi ha la sua storia che Dio ha preparato prima. Ci sentiamo tutti fratelli, e tutti insieme abbiamo pregato per la pace». Poi si è soffermata sull’importanza «dell’esperienza cristiana che stiamo facendo, condividendo la sofferenza e la ricchezza che ascoltiamo da tutti».

«Vengo da un Paese di guerra, da un Paese di minoranza cristiana che ha sofferto tanto in tutta la sua storia» ha affermato. «Abbiamo la speranza — ha aggiunto — che la nostra Chiesa, nonostante sia minoranza, sia ricca perché “terra di martiri”. Questi martiri e il loro sangue danno la forza per andare avanti. Tornerò in Iraq con una forza più grande, perché con me c’è la Chiesa».

Successivamente, rispondendo alla domanda di un giornalista, Karram ha parlato delle iniziative di preghiera e di mobilitazione che si sono susseguite in questi giorni in riferimento alla drammatica situazione mediorientale, sottolineando che già da domenica in moltissime chiese si è levata la preghiera per la pace e che, anche in Italia, grazie alla modalità on line, è stato possibile unire insieme persone di zone lontane — tra cui l’Ucraina e la Terra Santa che sperimentano direttamente l’esperienza della guerra — per la recita del Rosario. I Focolari, in particolare, hanno promosso il progetto “Living Peace”, che coinvolge bambini e giovani, organizzazioni e istituti scolastici, per educare alla pace attraverso alcuni passi concreti: la preghiera comune (alle 12 tutti gli aderenti si fermano per un momento di silenzio e di riflessione orante); gesti concreti di solidarietà con persone di altre religioni; una lettera scritta ai governanti per rivolgere loro un appello di pace. «Si tratta forse di piccole gocce — ha detto — ma sono gesti concreti e importanti in questo momento di grande sofferenza».

Karram ha raccontato, inoltre, che molti suoi amici ebrei si stanno preoccupando anche di quanti vivono a Gaza: questo dimostra che ci sono persone e organismi che in Israele lavorano per costruire ponti. «Si parla quasi soltanto di odio, terrorismo, violenza — ha osservato — ma questa che si dà non è l’immagine vera dei due popoli». In particolare la presidente del movimento dei Focolari ha riferito le parole confidate da un’amica ebrea: «Ogni giorno — le ha assicurato — prego alla stessa ora in cui lo fanno i musulmani. E anche se ci sono tante cose ci dividono, in questo momento di profondo strazio nel cuore sono unita con loro nella preghiera».

Sollecitati poi da una domanda sulla formazione permanente, gli oratori hanno condiviso la loro esperienza personale. Pires ha sottolineato l’importanza di includere nel catechismo non solo l’aspetto sacramentale ma anche l’impegno nelle opere sociali, per incoraggiare i giovani — che generalmente dopo la Cresima si allontanano — a essere coinvolti più attivamente nella vita della Chiesa. Da parte sua l’arcivescovo africano ha parlato dell’attività dei movimenti nel campo formativo e della necessità che anche nelle parrocchie dove essi non sono presenti si dia spazio a questo percorso per guidare i giovani alle scelte di vita. Riferendosi in particolare all’esperienza della sua diocesi, dove si celebra l’Anno dell’Eucaristia, il presule del Camerun ha fatto notare che tanti ragazzi e ragazze animano i momenti di adorazione trascorrendo molto tempo dinanzi al Santissimo Sacramento. La Karram ha poi confermato la necessità di una formazione continua a ogni livello e ha ribadito che i giovani sono oggi la forza della Chiesa e vanno perciò formati mettendo al centro del percorso catechetico l’incontro con Gesù attraverso il Vangelo.

Infine due domande sul conflitto in Terra Santa e sui cristiani in Iraq. Alla prima ha risposto Karram dicendo di essere consapevole che la sua «voce da sola non potrà portare tanto frutto»; al contrario, occorre l’aiuto internazionale di tutto il mondo affinché si «possano veramente riprendere i negoziati tra le due parti. Spero che a livello di tutti i Paesi — arabi e non — e della comunità internazionale si capisca che questo conflitto va affrontato urgentemente», ha detto.

Suor Jarjis, da parte sua, ha invece affermato che in Iraq le sofferenze sono periodiche: dal 2003 a oggi sono trascorsi vent’anni di sofferenza. Certo, ha riconosciuto, ci sono stati momenti di speranza, come nel 2021 con la visita del Papa. Ma di nuovo oggi i cristiani in Iraq attraversano un altro periodo delicato, nonostante essi vivano in una regione bagnata dal sangue dei martiri. Da qui la rivendicazione di poter continuare con dignità ad essere «cittadini di questa terra, non come minoranza o cittadini di seconda classe».