· Città del Vaticano ·

La necessità di contare
Il dovere di raccontare

Israelis mourn Ili Bar Sade, a soldier who was killed in an attack by Hamas militants, at his ...
10 ottobre 2023

Quasi 2.000 sono i morti per la guerra scoppiata, di nuovo, in questi giorni in Israele e in Palestina. Quasi 3.000 sono i morti per il devastante terremoto che ha colpito, di nuovo, l’Afghanistan. Più di 500.000 è il conto, tra morti e feriti, da quando è scoppiato il conflitto tra Russia e Ucraina. Più di 770.000 sono ad oggi i morti a causa della pandemia del Covid 19.

Si potrebbe andare avanti. Non è poi così complicato, si fa presto a contare i morti.

Il compito di un giornalista è anche questo, fornire i dati, dare i numeri, elencare e confrontare statistiche, contare i morti. Ma c’è di più, tutto questo, solo questo, non può bastare. Si può, è più difficile ma si deve per forza (se vogliamo rimanere umani) passare dal contare al raccontare. Perché i morti, ogni uomo morto, è una storia. Meritevole di essere raccontata. Lo dice e lo ripete Papa Francesco da più di 10 anni. Lo ha ribadito con un grido dolente, accorato, anche pochi giorni fa il 23 settembre, davanti al Memoriale delle vittime del mare a Marsiglia: «Non abituiamoci a considerare i naufragi come fatti di cronaca e i morti in mare come cifre: no, sono nomi e cognomi, sono volti e storie, sono vite spezzate e sogni infranti». Quello che vale per le persone che hanno fatto del Mediterraneo un enorme cimitero, vale per tutte le altre situazioni, sia quelle causate dalla natura, che non perdona mai come ci ricorda il Papa, sia quelle causate dall’uomo che potrebbe perdonare ma spesso non lo fa, facendo prevalere «lo spirito di Caino». E uccide. E così cambia il mondo, impoverendolo: quando un uomo muore la faccia del mondo cambia, perde qualcosa, e anche la storia del mondo, il suo destino, cambia, prende un’altra direzione.

La cronaca che gli operatori della comunicazione devono fare non può eludere il momento dei numeri, delle statistiche. Quei numeri però non restituiscono quella vertigine, il fatto che il destino del mondo e di tutti gli uomini è cambiato perché è morta una persona. Una. Ma invece tutti quei numeri producono un effetto straniante, contraddittorio: da una parte emozionano e fanno paura, atterriscono, creano un brivido d’angoscia e dall’altra cadono subito in un processo automatico di rimozione, scivolano dolcemente nell’oblio.

Siamo fatti di sensi e di materia e i concetti, la logica, non ci toccano veramente. Forse è questo che vuole dire Papa Francesco quando, parlando del come consideriamo gli altri esseri umani, ci invita a passare dalla cultura dell’aggettivo alla teologia del sostantivo. Quando cominciamo a qualificare gli uomini li stiamo perdendo di vista, allontanando. E peggio ancora di qualificare è quantificare.

Questo fatto ci aiuta a comprendere uno dei grandi sforzi che Bergoglio sta compiendo: vincere la tentazione di cadere nell’astrazione e invece aggrapparci alla concretezza, al volto e al nome, alla storia che ogni uomo è, ogni esistenza umana, luminosa o ignobile che sia. Da qui passa quello che noi chiamiamo dignità.

Lo aveva intuito, più di 80 anni fa, la geniale e acuta intelligenza di una giovane donna, Simone Weil, scomparsa il 23 agosto 1943, che in poche parole ha espresso nitidamente il punto: «In ogni uomo vi è qualcosa di sacro. Ma non è la sua persona. E neppure la persona umana. È semplicemente lui, quell’uomo». 

di Andrea Monda