Johannes
«Molti anni fa ho detto che per me scrivere è pregare, che è il mio modo di pregare. Mi sono sentito stupido quando l’ho detto, ma poi ho letto da qualche parte che Kafka aveva detto proprio la stessa cosa riguardo alla sua scrittura». Sono parole tratte da una recente intervista al neo premio Nobel per la letteratura Jon Fosse, norvegese, poeta, scrittore e drammaturgo conosciuto (poco, ahimè) in Italia per il racconto Mattino e sera, il dittico di romanzi Melancholia e i primi due volumi della sua Settologia che è in corso di pubblicazione da La nave di Teseo, con la traduzione di Margherita Podestà Heir.
Eppure pensando alle recenti scelte degli accademici di Stoccolma, questo autore dal volto austero e dagli occhi profondi, questo scrittore che dice che il ritmo della sua prosa è come un’onda, questo poeta che ricorda quanto sia necessario prendersi cura del mistero, questo Jon Fosse pare venuto da un altro pianeta nonostante abiti a due passi da casa Nobel.
Era dal 1995, l’anno in cui fu insignito Seamus Heaney, che il premio non toccava a un autore che si dichiara spirituale, che «dà voce all’indicibile» stando alle parole della motivazione, che si appropria un termine misconosciuto o a volte osteggiato da tanta produzione mainstream e cioè il concetto di intensità, «un genere di intensità un po’ come quella dell’epifania in una buona poesia». E qui siamo noi lettori a essere non stupidi, ma sicuramente stupiti dalla scelta degli accademici svedesi. E allora per superare lo stupore, alcune notazioni da lettori.
Questo «indicibile» evocato ad altissimo grado di intensità cammina sulle spalle di personaggi ordinari, pescatori in larga parte, che adottano un linguaggio naturale evocato da luoghi primordiali, il mare, un molo, una barca a motore con cui si va a caccia di granchi, una casa che si intravede abbarbicata a una collina, una luce diafana e reclinante.
E lui, Fosse, è un compagno di viaggio dei suoi personaggi, un accompagnatore solidale delle loro solitudini, della loro immersione in questi paesaggi smisurati e silenziosi. E poi gli regala qualcosa di assolutamente personale, qualcosa che gli è proprio in quella maniera in cui quando ascoltiamo una musica di Mozart anche senza saperlo diciamo «è di Mozart». E questa cosa qui, quando lo impareremo a conoscere meglio, ci farà dire la stessa cosa, la stessa cosa che si dice a una musica di Mozart. Questa pagina è una pagina di Jon Fosse.
Perché potremo dire quanto è modernista questo modo di scrivere senza punti, ma non è solo questo, oppure potremo anche dire quanto è raffinato l’uso di questa figura retorica, ma non è solo questo, o ancora potremmo dire quanto somiglia magari a un Bolaño questa ossessiva ripetizione di incisi tipo “pensa Johannes” ma non è solo questo, e ancora potremo anche dire quanto somiglia a Beckett questo modo di dialogare tra i personaggi in questo fulmineo scambio di battute, ma non è solo questo.
Perché Fosse è tutto questo e tutto insieme. E l’unità, l’amalgama di questi elementi è la fede. La fede che non si sa come, ma la scrittura viene dal mistero e al mistero torna. Ma è una fede che non declama, una fede che suggerisce, che ha dentro di sé il dubbio, un sì, come scriveva Heaney, che ha dentro di sé e supera tutta una serie di no ma che misteriosamente in quel sì rimangono. E qui rabbrividiranno i modernisti rimasti prigionieri dentro il Novecento, quelli che l’ineffabile fa paura, quelli che è retorico, quelli che è kitsch. Non tocca a noi rispondere, ma lo fa Fosse con questo passo tratto da Mattino e sera. A voi lettori giudicare se è davvero così: «Johannes rimane in piedi a guardare i pendii e le alture e le rocce e le case sulla terraferma, c’è la sua piccola barca a remi ormeggiata a una boa e vede le case lassù in cima e lungo la strada si sente colmare da una sensazione molto forte per via di tutto questo, per l’erica, per tutto quanto, conosce ogni cosa, è il suo posto nel mondo, è suo, tutto quanto, i pendii, le rimesse delle barche, i sassi sulla battigia, e ha la sensazione che non rivedrà mai più tutto questo allo stesso modo, ma rimarrà dentro di lui, come ciò che è davvero, come un suono, sì, quasi come un suono dentro di lui, pensa Johannes e si porta le mani agli occhi e li sfrega e vede che ogni cosa riluce, dal cielo laggiù, da ogni parete, da ogni sasso, da ogni barca, tutto scintilla verso di lui e adesso non ci capisce più niente, perché oggi niente è come è sempre stato, deve essere successo qualcosa, ma che cosa?».
di Saverio Simonelli