· Città del Vaticano ·

Se una pausa è ciò di cui abbiamo bisogno

 Se una pausa  è ciò di cui abbiamo bisogno  QUO-230
06 ottobre 2023

Siamo sempre di corsa e tuttavia perennemente in ritardo. Vogliamo tutto e subito, ma non sembriamo mai soddisfatti. Uno dei mali del nostro tempo è, senza dubbio, l’accelerazione spasmodica del nostro agire quotidiano (almeno nei Paesi industrializzati). Già vent’anni fa, lo psichiatra Vittorino Andreoli osservava che «la fretta è l’imperativo della società contemporanea». E le cose non sono certo migliorate da allora. Nel 2015, il filosofo francese Jeane-Paul Galibert coniava il termine «cronofagia» per indicare uno dei tratti distintivi del turbocapitalismo che letteralmente si mangia il nostro tempo.

Paradossalmente, abbiamo strumenti tecnologici sempre più potenti che accorciano esponenzialmente i tempi per risolvere i nostri problemi (pensiamo alle applicazioni dell’Intelligenza artificiale) eppure la sensazione è di ritrovarsi sempre a rincorrere, di essere inevitabilmente un passo indietro rispetto al programma che ci eravamo prefissati.

Non a caso, una delle frasi che più frequentemente ci troviamo a ripetere nelle nostre giornate è: «Non ho tempo». Ma questo tempo lo dobbiamo trovare. Per ri-trovare innanzitutto noi stessi. Altrimenti, non vivremo solo «vite di corsa» — per riprendere il titolo di un libro di Zygmunt Bauman — ma vite inesorabilmente insoddisfatte. Se l’adesso resta l’unico parametro di giudizio della nostra vita, infatti, non saremo capaci di gustare il sapore delle esperienze vissute né di cogliere il senso del cammino che abbiamo dinnanzi a noi.

Uno dei pensatori che maggiormente ha indagato sulle conseguenze di questa liquefazione del tempo — e della sua pericolosa perdita di significato — è proprio Bauman, che tante volte è stato associato in questi anni alle riflessioni di Francesco sulla contemporaneità. È suggestivo rileggere oggi — dopo le parole del Papa all’apertura del Sinodo, dove ha invocato l’esigenza per la Chiesa di rallentare un momento, di fare «una pausa» e mettersi «in ascolto» — quanto Bauman scriveva all’inizio del suo libro L’arte della vita. Il sociologo polacco muoveva la sua riflessione da un interrogativo sulla felicità. Una domanda, spiegava, per «indurre a fare una pausa e pensare. Una pausa? Sì, una pausa nella ricerca della felicità, che (la maggior parte dei lettori sarà d’accordo) è la cosa che abbiamo in testa la maggior parte del tempo».

Fare una pausa — e ce lo dice ora anche l’esperienza del Sinodo — è proprio ciò di cui abbiamo bisogno come antidoto alla tirannia dell’effimero, alla «cultura della fretta» — per citare lo studioso Stephen Bertman — che ci impedisce di osservare il mondo e perfino di guardare noi stessi. Una fretta che si avvita su sé stessa, ben diversa da quella «fretta» di Maria che, come ci ha indicato tante volte il Papa, è la «premura del servizio» che «ci spinge sempre verso l’alto e verso l’altro». Fare una pausa per fare spazio, dunque. Spazio alle relazioni, agli affetti. In una parola: spazio alle persone. Tutti ricordiamo la domanda di Francesco rivolta ai giovani papà: «Perdete tempo con i vostri figli? Giocate con i vostri figli? Non dite loro: Non disturbare». Una domanda che va oltre il rapporto padri-figli e abbraccia ogni relazione umana e, per chi crede, anche quella fondamentale con Dio. Perdere il tempo per stare con gli altri è, infatti, il più grande guadagno che il tempo stesso ci può offrire. 

di Alessandro Gisotti