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Verso il Sinodo
Dalla lettera pastorale «Effatà apriti» scritta nel 1990 dal cardinale arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini

Silenzio, parola e incontro:
i tre pilastri del comunicare

 Silenzio, parola e incontro: i tre pilastri del comunicare  QUO-226
02 ottobre 2023

Il tempo che attraversiamo corre così veloce che il testo che pubblichiamo oggi, come sussidio alla comprensione del compito che aspetta l’assemblea sinodale che si riunisce dal 4 ottobre a Roma, può apparire antico. E invece non lo è. Semmai è il contrario.

Antica è la tentazione di riempire ogni silenzio con parole che così non comunicano, e diventano per questo vane. 

Antica è la tentazione di voler incasellare cose e persone secondo stereotipi.

Antico è il desiderio malato di onnipotenza che da sempre seduce l’uomo.

Antica è la fretta di andare subito alle conclusioni, senza prendersi il tempo di pensare.

Antica è la confusione dei linguaggi che costantemente mortifica questa ambizione, quando si fonda su una volontà di possesso, di dominio, e non sull’amore. 

Di questo parla la lettera pastorale che il cardinale Martini scrisse 33 anni fa, nel 1990. Di Babele come spazio dove i segnali si accavallano, si confondono ed elidono a vicenda. Come luogo degli appuntamenti mancati, dove le lingue non si intendono, e gli equivoci si moltiplicano. Dove la gente non si incontra. E al massimo ci si urta, ci si irrita a vicenda. E ciascuno si lamenta perché l’altro non l’ha capito.

La conversazione nello Spirito, nella comunione e nell’amore vicendevole, adottata come metodo del Sinodo, è l’antidoto più forte alla confusione rumorosa e narcisa di Babele. 

È un metodo trasparente, ma controcorrente; perché richiede spazi di silenzio e di ascolto in un mondo che — come diceva padre David Maria Turoldo — ha perso il dono e l’uso della contemplazione; un tempo senza preghiera; … dove il diluvio delle nostre parole soffoca l’appassionato suono della sua Parola (cf. David Maria Turoldo, Senza silenzio e senza ascolto).

Eppure è un metodo che restituisce senso, potenza e verità alle parole.

Ritesse l’unità della persona e delle comunità. Restituisce dignità al dialogo e alle identità che si confrontano per completarsi. Solo richiede di riscoprire il silenzio, e di dargli spazio, nell’ascolto e nel racconto.

Basta pensare alla potenza grandiosa del silenzio di sabato scorso in piazza San Pietro per capire la sua forza comunicativa, che ci sfida.

«Ogni comunicazione autentica — scriveva nel 1990 il cardinale Martini — nasce dal silenzio. Infatti ogni parlare umano è dire qualcosa a qualcuno: qualcosa che deve anzitutto nascere dentro. E nascere dentro suppone un autoidentificarsi, un auto-comprendersi, un cogliere la propria interiore ricchezza». 

Ma ci vuole tempo. Ci vuole silenzio. Ci vuole ascolto. Vale per ognuno di noi nella sua vita personale. Vale per ogni comunità.  Vale per il corpo mistico che è la Chiesa. Per quel mistero di fede che ci rende membra gli uni degli altri. E che per essere comunicato richiede di saper cogliere il tempo, il momento, l’essenza profonda delle cose. E amore per la verità.


«Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole» (Gen 11, 1). Così la Bibbia idealizza quei primordi felici in cui gli uomini si potevano intendere con facilità e spontaneità. Ma impegnati in un gigantesco sforzo che avrebbe dovuto consacrare la loro onnipotenza tecnologica, gli uomini non seppero reggere alla tensione: si confusero e poi si dispersero. Tale confusione è considerata dalla Bibbia un castigo divino, che lega per sempre al nome di una città il sacramento simbolo della confusione dei linguaggi e della fatica che gli uomini e le culture fanno a intendersi tra loro: «La si chiamò Babele, perché il Signore confuse la lingua di tutta la terra» (Gen 11, 9).

Babele rappresenta dunque l’impossibilità di tutti gli umani a parlare tra loro con un unico linguaggio. Essa evoca segnali che si accavallano, si confondono ed elidono a vicenda. Babele è il luogo degli appuntamenti mancati: le lingue non si intendono, gli equivoci si moltiplicano e la gente non si incontra. Al massimo ci si urta, ci si irrita a vicenda, ciascuno si lamenta perché l’altro non l’ha capito. Babele è il simbolo della non-comunicazione della fatica e delle ambiguità a cui è soggetto il comunicare sulla terra. Babele è anche il simbolo di una civiltà in cui la moltiplicazione e la confusione dei messaggi porta al fraintendimento.

Nasce di qui la domanda angosciosa: Come ritrovare nella Babele di oggi una comunicazione vera, autentica, in cui le parole, i gesti, i segni corrano su strade giuste, siano raccolti e capiti, ricevano risonanza e simpatia? È possibile incontrarsi in questa Babele, inserire anche in una civiltà confusa luoghi e modi di incontro autentico? È possibile comunicare oggi nella famiglia, nella società, nella chiesa, nel rapporto interpersonale? Come essere presenti nel mondo dei mass-media senza essere travolti da fiumi di parole e da un mare di immagini? Come educarsi al comunicare autentico anche in una civiltà di massa e di comunicazioni di massa?

A tante domande sulla malattia del comunicare umano contrapponiamo ora una scena di risanamento. Contempliamo Gesù nel momento in cui sta facendo uscire un uomo dalla sua incapacità a comunicare. Si tratta della guarigione del sordomuto raccontata in Mc 7, 31-37. Sant’Ambrogio chiama questo episodio e la sua ripetizione nel rito battesimale «il mistero dell’apertura»: «Cristo ha celebrato questo mistero nel vangelo, come leggiamo, quando guarì il sordomuto» (I misteri I, 3).

Dividiamo il racconto in tre tempi: la descrizione del sordomuto, i segni e gesti di apertura, il miracolo e le sue conseguenze.

1. La narrazione evangelica precisa anzitutto il disagio comunicativo di quest’uomo. È uno che non sente e che si esprime con suoni gutturali, quasi con mugolii, di cui non si coglie il senso. Non sa neanche bene cosa vuole, perché è necessario che gli altri lo portino da Gesù. Il caso è in sé disperato (7, 31-32).

2. Ma Gesù non compie subito il miracolo. Vuole anzitutto far capire a quest’uomo che gli vuol bene, che si interessa del suo caso, che può e vuole prendersi cura di lui. Per questo lo separa dalla folla, dal luogo del vociferare convulso e delle attese miracolistiche. Lo porta in disparte e con simboli e segni incisivi gli indica ciò che gli vuol fare: gli introduce le dita nelle orecchie come per riaprire i canali della comunicazione, gli unge la lingua con la saliva per comunicargli la sua scioltezza. Sono segni corporei che ci appaiono persino rozzi, scioccanti. Ma come comunicare altrimenti con chi si è chiuso nel proprio mondo e nella propria inerzia? Come esprimere l’amore a chi è bloccato e irrigidito in sé, se non con qualche gesto fisico? Notiamo anche che Gesù comincia, sia nei segni come poi nel comando successivo, con il risanare l’ascolto, le orecchie. Il risanamento della lingua sarà conseguente. A questi segni Gesù aggiunge lo sguardo verso l’alto e un sospiro che indica la sua sofferenza e la sua partecipazione a una così dolorosa condizione umana. Segue il comando vero e proprio, che abbiamo scelto come titolo di questa lettera: «Effatà» cioè «Apriti!» (7, 34). È il comando che la liturgia ripete prima del battesimo degli adulti: il celebrante, toccando con il pollice l’orecchio destro e sinistro dei singoli eletti e la loro bocca chiusa, dice: «Effatà, cioè: apriti, perché tu possa professare la tua fede a lode e gloria di Dio» (Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti, n. 202).

3. Ciò che avviene a seguito del comando di Gesù è descritto come apertura («gli si aprirono le orecchie»), come scioglimento («si sciolse il nodo della sua lingua») e come ritrovata correttezza espressiva («e parlava correttamente»). Tale capacità di esprimersi diviene contagiosa e comunicativa: «E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano». La barriera della comunicazione è caduta, la parola si espande come l’acqua che ha rotto le barriere di una diga. Lo stupore e la gioia si diffondono per le valli e le cittadine della Galilea: «E, pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”» (7, 35-37).

In quest’uomo, che non sa comunicare e viene rilanciato da Gesù nel vortice gioioso di una comunicazione autentica, noi possiamo leggere la parabola del nostro faticoso comunicare interpersonale, ecclesiale, sociale. Possiamo anche individuare le tre parti di questa lettera: 1. rendersi conto delle proprie difficoltà comunicative; 2. lasciarsi toccare e risanare da Gesù; 3. riaprire i canali della comunicazione a tutti i livelli.

Il comunicare autentico non è solo una necessità per la sopravvivenza di una comunità civile, familiare, religiosa. È anche un dono, un traguardo da raggiungere, una partecipazione al mistero di Dio che è comunicazione. Tutte queste riflessioni ci inducono a dedicare un biennio del nostro cammino pastorale al tema del comunicare. Non è un tema accessorio o di lusso! Si tratta di una condizione dell’essere uomo e donna e dell’essere chiesa. Il tema si pone in continuità con il triennio educare 1987-1990 («Dio educa il suo popolo», «Itinerari educativi», «Educare ancora») e con i primi cinque programmi pastorali 1980-1986 («La dimensione contemplativa della vita», «In principio la parola», «Attirerò tutti a me», «Partenza da Emmaus», «Farsi prossimo»). Non mi dilungo a spiegare questa continuità. Essa apparirà più chiara nella terza parte della presente lettera.

Rifletteremo sulla realtà del comunicare per un biennio. In questo primo anno, ci occuperemo delle condizioni generali del comunicare umano; nel 1991-1992 considereremo il mondo dei mass-media e il nostro posto in questo pianeta difficile.

La presente lettera è divisa in tre parti che si rifanno al noto trinomio vedere, giudicare, agire, con l’avvertenza che il giudicare o valutare è connesso con l’ascolto e la contemplazione del mistero di Gesù, fonte di ogni giudizio giusto. Le tre parti della lettera corrispondono alle tre parti della narrazione del sordomuto guarito (Mc 7, 31-37).

Perché il tema del comunicare, che è un tema di sempre, è particolarmente attuale in questo inizio degli anni Novanta? Sottolineo alcune occasioni provvidenziali che caratterizzano questo momento storico.

La prima riguarda il continente europeo. Siamo oggi interpellati da quella straordinaria possibilità di futuro che il Papa ha chiamato con il nome di «Europa dello spirito» (cf. Discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 12 gennaio 1990). È necessario, perché tale Europa sia possibile, un grande sforzo comunicativo tra i Paesi europei, tra l’est e l’ovest, tra il nord e il sud d’Europa. Tale impegno tocca da vicino la vita delle chiese: è un impegno di comunicazione ecumenica ed è insieme impegno di operare a favore di condizioni di vita in cui la pace, la giustizia e la salvaguardia dell’ambiente siano assicurate per tutti. Questo impegno è stato assunto dai rappresentanti delle chiese europee a Basilea nel maggio dell’anno scorso, il 1989. Senza un salto di qualità nella nostra capacità di comunicare, non coglieremo questa occasione provvidenziale e forse unica della nostra storia.

La seconda occasione è data dalla presenza sempre più consistente, anche nella nostra diocesi, di persone provenienti dal terzo mondo. La comunità cristiana è chiamata in causa non solo per le emergenze assistenziali, ma anche e soprattutto per preparare le basi di una Europa multirazziale capace di vivere in pace e giustizia, superando i rischi dei ghetti e dei conflitti razziali che simili fenomeni portano con sé.

La terza è la preoccupazione recentemente espressa dalla chiesa italiana sul rapporto nord-sud anche nel nostro Paese, con la lettera sulla questione meridionale dell’ottobre 1989. Commentando tale lettera nel discorso di sant’Ambrogio del 6 dicembre 1989, ricordavo che essa ci impegna anche a rapporti di mutua comprensione, fraternità, accoglienza. Gli eventi degli ultimi mesi non hanno reso più facile questo compito. La lettera che la Conferenza episcopale italiana promulgherà per gli anni Novanta sul tema della carità dovrà trovarci preparati a questo esercizio di comunicazione fraterna.

La quarta occasione è quella della preparazione ormai imminente al grande Giubileo dell’anno 2000. Il Papa ne ha parlato dalla sua prima enciclica. Vogliamo vivere questa vigilia del terzo millennio in uno sforzo non solo di apertura verso tutti ma pure di rinnovata capacità a comunicare il vangelo nel contesto della «nuova evangelizzazione». Tale comunicazione della fede non può prescindere da quel mondo dei mass-media che sempre più diventa lo scenario consueto della cultura europea e che minaccia di inghiottire con la sua potenza ogni messaggio non omogeneo a una cultura della concorrenza e del successo. Perché sia possibile una comunicazione autentica del messaggio in una Europa «mediatizzata», in un mondo che sta raggiungendo la dimensione del «villaggio», occorre che noi ci impegniamo a migliorare in tutti i campi le nostre capacità comunicative per metterle al servizio del vangelo.

«Gesù giunse presso il mare di Galilea e, salito sul monte, si fermò là. Attorno a lui si radunò molta folla recando con sé zoppi, storpi, ciechi, sordi e molti altri malati; li deposero ai suoi piedi ed egli li guarì. E la folla era piena di stupore nel vedere i muti che parlavano, gli storpi raddrizzati, gli zoppi che camminavano, i ciechi che vedevano. E glorificava il Dio di Israele» (Mt 15, 29-31). «E pieni di stupore dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!”» (Mc 7, 37).

Queste parole dei vangeli mi ricordano lo choc provato durante la visita a Varanasi (Benares), la capitale religiosa dell’India.

Lungo la discesa che porta al fiume Gange, prima di giungere all’ultima scalinata dove si discende per il bagno sacro, sono ammassati in mezzo alla strada centinaia di miserabili: storpi, lebbrosi, paralitici, ciechi... Si agitano incessantemente, gridano, tendono le mani ai passanti per avere un poco di elemosina. Si muovono a fatica, aggrappandosi a una ringhiera di legno che passa per il centro della strada e permette loro di tirarsi con le mani e scivolare sul terreno per ottenere un posto migliore per chiedere l’elemosina. È una visione che toglie il fiato! Nessuno di loro parla con chi gli sta accanto, nessuno sembra pensare al suo vicino e alle sue immense sofferenze. Ciascuno cerca di farsi notare più dell’altro con grida e gesti, così da attirare su di sé l’attenzione dei pellegrini.

Ripenso spesso a questo triste spettacolo quando considero la folla delle incomunicabilità umane che si toccano l’una con l’altra ma non si parlano, ciascuna tesa verso una impossibile realizzazione del suo desiderio.

Qualcuno tuttavia mi dirà: «Non esageriamo con queste immagini tetre! Noi sappiamo comunicare e non abbiamo da chiedere niente a nessuno». È vero che ci sono tanti bei momenti comunicativi anche nella nostra società. Si pensi ad esempio alla facile comunicazione che di solito esiste tra genitori e figli negli anni dell’infanzia e della fanciullezza. Ma sono proprio questi momenti belli che ci fanno capire che in tanti aspetti della vita le cose non vanno proprio come dovrebbero andare.

Proviamo a fare una piccola esplorazione al di là della facciata. Quanta voglia frustrata di comunicare e quanta stizza e anche rabbia di non saper comunicare c’è dentro di noi e intorno a noi! «Non sono in pace con me stesso. Sono in contraddizione con me stesso. Non mi riesce di esprimere i miei sentimenti come vorrei. Debbo mandar giù e reprimere, e questo alla lunga mi logora e mi deprime... Non mi capisco, sento dentro tanta confusione ...».

Queste espressioni non sono inventate. Sono un repertorio di ciò che sentiamo dentro di noi o ci viene comunicato in confidenza da altri o cogliamo dietro il viso rabbuiato e teso dei nostri amici. La fatica a vivere dentro di sé, a livello personale, una limpida comunicazione tra pensiero e cuore, tra desideri e azioni, tra sogni e realtà, tra sentimenti ed espressione esterna, tra malumori e sfoghi, è qualcosa che ci portiamo dentro e che talora ci è divenuta così connaturale da pensare che non vi sia rimedio alla piccola nevrosi che ogni essere umano deve sopportare. Ma quando leggiamo, per esempio, qualche vita dei santi o una loro autobiografia o quando incontriamo qualche persona da cui traspare una grande limpidità, dominio di sé e pace, allora intuiamo che esiste un modo diverso di vivere, che esso ci sarebbe più connaturale, ma...

La fatica del comunicare nel rapporto di coppia e nel rapporto genitori-figli (dopo che essi hanno raggiunto una certa età) è così proverbiale che stimiamo felici eccezioni quelle coppie o quei genitori che dicono di non aver problemi a questo riguardo. Anzi li riteniamo su questo punto poco credibili, desiderosi di mostrare una facciata diversa da quella che invece è la fatica quotidiana che tutti sperimentiamo. Eppure sarebbe possibile migliorare notevolmente il tessuto comunicativo all’interno della famiglia se soltanto volessimo crederci un po’ di più e investire un po’ di sforzo su un punto che è essenziale per la sanità e la gioia della vita.

Non parliamo poi dei casi in cui tale rapporto viene infranto e la comunicazione appare totalmente bloccata: sono i casi che finiscono nel divorzio o comunque nel crollo dei rapporti di coppia (nel mondo occidentale siamo da un terzo alla metà delle unioni matrimoniali fallite). Nel caso dei figli abbiamo le rotture drammatiche provocate dalla droga o da scelte asociali; anche quando non si arriva a tali eccessi la conflittualità o almeno il blocco comunicativo, il mutismo tra genitori e figli dopo i quindici-diciassette anni raggiunge livelli alti e preoccupanti.

Le esperienze di fatica nel comunicare tra loro da parte dei diversi soggetti sociali è talmente grande che ci siamo quasi rassegnati a una conflittualità permanente tra gruppi con interessi diversi sia a livello economico che a livello culturale e soprattutto politico.

Non è che una certa conflittualità, se contenuta entro i giusti livelli, sia sempre un male. Ma il tasso odierno di litigiosità, esasperato non di rado dagli organi della comunicazione di massa, ha raggiunto limiti che sembrano indicare una certa nevrosi sociale. Esso affatica gli operatori sociali, economici e politici, molto più del lecito, crea nell’aria un clima di instabilità e di conflitto che impedisce di godere anche delle cose belle che la vita e la società pur ci offrono.

Anche la chiesa appare spesso non sciolta nel suo comunicare quotidiano. Il livello di litigiosità della società civile si trasmette in parte anche alle istituzioni ecclesiastiche. Non di rado si comunica con difficoltà all’interno, ad esempio, della parrocchia: tra parroco e preti collaboratori, tra preti e consiglio pastorale, tra parrocchia e movimenti, tra i diversi gruppi di fedeli e le diverse categorie sociali e culturali (per esempio: vecchi residenti e nuovi immigrati). Un sintomo di questa fatica comunicativa è dato anche dal moltiplicarsi di piccoli gruppi omogenei atti a facilitare la comunicazione al loro interno. Tale rimedio si rivela giusto solo in parte, perché un’intesa di gruppo ricercata per sé stessa rischia poi di esprimersi all’esterno in chiusura verso altre realtà ecclesiali e quindi non risolve il problema se non al primo livello della comunicazione interpersonale.

Anche la comunicazione della fede, che pure è un compito primario della comunità cristiana, appare spesso titubante e incerta. I genitori fanno fatica a comunicare la loro fede ai figli, specialmente dopo una certa età, i credenti sono imbarazzati a parlare di fede ai non credenti. È questo uno dei problemi più drammatici della nostra cultura occidentale, che sembra essere entrata in un mutismo di fede che rasenta la paralisi.

Se poi esaminiamo quel fenomeno che pure dovrebbe costituire nella odierna società un collante sociale di prim’ordine, cioè la comunicazione di massa, vediamo che essa sembra avere da tempo abdicato a questa sua funzione per divenire cassa di risonanza, anzi di ampliamento, di tutti i conflitti, anche di quelli interpersonali. A partire dalla cronaca spicciola, in particolare la cronaca nera, fino alla comunicazione riguardante i grandi fenomeni politici, il linguaggio e il tono degli strumenti della comunicazione di massa (radio, quotidiani, settimanali, televisione) tende sempre più a suscitare sensazioni forti ed eccitanti per vendere meglio e più di altri le informazioni. La cosa diviene più preoccupante quando la «cassa di risonanza» appare legata a interessi forti e occulti.

Puntando sul sensazionale, calcando sui particolari che suscitano attrazione, disgusto, ribrezzo, pietà, si genera un’inflazione dei sentimenti e nello stesso tempo un accresciuto bisogno di emozioni sempre più elettrizzanti. Emerge anche un problema inquietante: Queste logiche della comunicazione di massa fino a che punto tendono a plasmare e a rendere più difficile la stessa comunicazione interpersonale?

Ritornando dunque alla domanda iniziale sulla folla delle solitudini possiamo concludere che, pur potendo noi contare, grazie a Dio e al nostro residuo di sanità mentale e umana, su non poche comunicazioni che ancora avvengono, in realtà c’è una miriade di canali comunicativi che, a partire dai nostri rapporti interpersonali, sono bloccati o ingorgati. C’è davvero una folla di solitudini che gridano il loro bisogno di essere risanate.

Per questo ci rivolgiamo in questa lettera e in questo programma pastorale a Gesù, Signore e maestro della comunicazione umana, che «ha fatto udire i sordi e parlare i muti», perché ci assista in questo cammino verso il ristabilimento di comunicazioni più autentiche tra noi e in tutta la nostra società.

*  *  *

Le costanti della comunicazione divina ci permettono di considerare alcune caratteristiche della comunicazione interumana che possiamo derivare dalla contemplazione del modo con cui Dio si rivela.

1. Ogni comunicazione autentica nasce dal silenzio. Infatti ogni parlare umano è dire qualcosa a qualcuno: qualcosa che deve anzitutto nascere dentro. Nascere dentro suppone un auto-identificarsi, un auto-comprendersi, un cogliere la propria interiore ricchezza. Molte forme di loquela non sono vera comunicazione perché nascondono un vuoto interiore: sono chiacchiera, sfogo superficiale, esibizionismo. Ogni vera comunicazione esige spazi di silenzio e di raccoglimento. Non è necessaria la moltitudine delle parole per comunicare davvero. Poche parole sincere nate da un distacco contemplativo valgono più di molte parole accumulate senza riflessione.

2. La comunicazione ha bisogno di tempo. Non si può comunicare tutto d’un colpo, in fretta e senza grazia. Se Dio ha diffuso una comunicazione tanto importante ed essenziale come quella dell’alleanza nell’arco di un lungo tempo storico, vuol dire che anche la comunicazione ha bisogno di tempi e momenti, è un fatto cumulativo, richiede attenzione all’insieme. A questo riguardo noi manchiamo spesso per disattenzione, fretta, superficialità. Occorre saper cogliere i momenti giusti senza bruciare le tappe.

3. Non bisogna spaventarsi dei momenti di ombra. Luci e ombre sono vicende normali del fatto comunicativo. Chi nel rapporto interpersonale vuole solo e sempre luce, chiarezza, certezza assoluta, dà segno di voler dominare piuttosto che comunicare, cade nella gelosia e si aliena l’altro, anche se in apparenza lo conquista. Dobbiamo accettare la «croce» della comunicazione se vogliamo giungere a quella trasparenza che è possibile in questa vita.

4. La trasparenza comunicativa raggiungibile quaggiù non è mai assoluta. Il volerla forzare oltre il giusto, oltre la soglia di quello che è il segreto, forse neppure accessibile del tutto a chi lo possiede, fa scadere nella banalità. Mi domando se alcune volte anche nei gruppi religiosi non si pratichi una comunicazione di sé che non rispetta il segreto di ciascuno. La chiesa ha istituito la confessione privata proprio per questo. Non tutto ciò che è personale e privato può essere comunicato ad altri in pubblico; la conoscenza di tutto quanto è nel fratello o nella sorella non sempre aiuta l’amicizia e l’amore. Pudore, riserbo, rispetto sono garanti dell’amicizia vera.

5. La comunicazione coinvolge sempre in qualche modo la persona che comunica. Pur se molti rapporti comunicativi non raggiungono la profondità di una comunicazione in cui chi parla dice qualcosa di sé, implicitamente però ogni comunicare coinvolge la persona che parla, almeno al livello più semplice della verità delle informazioni che sono trasmesse e dell’autenticità dei sentimenti che sono espressi. Dunque, in qualche modo, chi parla dice sempre qualcosa di sé, esprimendo la sua onestà di fondo (o disonestà) e la sua apertura (o chiusura) agli altri e al mondo.

6. I tre modi che sopra abbiamo ricordato (informazione, appello, auto-comunicazione) sono continuamente in atto nei nostri discorsi, in modi più o meno espliciti. L’abitudine ad ascoltare bene gli altri (prima ancora di pensare cosa dobbiamo dire noi) ci renderà sensibili a molte di queste sfumature mirabili del comunicare tra persone e ci aiuterà anche a cogliere dove stanno i blocchi comunicativi e come si possono superare.

7. Dobbiamo ricordare ciò a cui sopra abbiamo dedicato un apposito paragrafo, cioè la reciprocità. Non c’è autentico comunicare se non c’è l’intenzione di suscitare una risposta. D’altra parte questa intenzione, per essere seria, deve partire dall’attenzione a ciò che l’altro sente, vive o desidera. Molte volte la risposta è svagata o sfocata perché la comunicazione iniziale, di avvio, è stata formulata al di fuori dell’orizzonte e degli interessi di chi ascolta. Questa è una delle ragioni del dialogo difficile, per esempio, tra figli e genitori di una certa età, quando chi parla non fa la fatica di mettersi nel contesto e negli interessi di colui al quale vuole parlare. È anche una delle cause dell’insuccesso di certe iniziative di catechesi per gli adulti.

Si può collegare qui il tema vasto e importante del dialogo, a partire da quello più semplice fino al dialogo di fede. Richiamo l’importanza di documenti della chiesa che ne trattano espressamente: l’enciclica di Paolo vi , Ecclesiam suam (1964), nella sua terza parte è tutta dedicata al dialogo che, secondo quattro cerchi concentrici, coinvolge tutta l’umanità; l’esortazione post-sinodale di Giovanni Paolo ii Riconciliazione e penitenza (1984), con la descrizione del dialogo che «per la chiesa è, in certo senso, un mezzo e soprattutto un modo di svolgere la sua azione nel mondo contemporaneo» (n. 25).

Destinatari della comunicazione divina sono tutti gli uomini, ogni uomo e donna che viene in questo mondo, e tutto l’uomo nella pienezza della sua umanità, della sua storia e della sua cultura. Tale passione comunicativa universale di Dio in Gesù Cristo nello Spirito Santo è l’evangelizzazione, cioè l’annunzio della buona notizia di Dio che si comunica, il mistero stesso di Dio amore reso vicino e presente a ogni uomo e donna in qualunque parte della terra. La chiesa, e ogni persona che si sente amata da Dio, è dunque spinta a evangelizzare a partire dal fuoco divino.

«Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» dice Gesù (Mt 10, 8). In queste parole sta il segreto dell’evangelizzazione che è comunicazione del vangelo secondo lo stile del vangelo: la gratuità, la gioia del dono divino ricevuto per puro amore. Solo chi ha provato tale gioia la può comunicare: ma a tutti è dato di provarla. Non esistono preclusioni per questa «esperienza religiosa» che non richiede nessuna particolare predisposizione (come forse avviene per alcuni dei fenomeni che comunemente vanno sotto il titolo di «esperienze religiose»). Basta essere uomini e donne e accettare di essere amati così come il Padre ce ne ha dato testimonianza storica incontrovertibile nella croce di Gesù.

Chi ha accettato di lasciarsi amare in tale maniera, trova che non c’è altra notizia da comunicare e far conoscere più valida e bella di questa. Naturalmente tenendo conto delle leggi comunicative sopra ricordate, tra cui quella della progressione e del rispetto della libertà altrui e dei suoi tempi.

L’evangelizzazione è qualcosa di misterioso e di un po’ inafferrabile, come la comunicazione autentica che non si lascia del tutto programmare e possedere. È un mistero che ha le stesse caratteristiche luminose e velate del mistero di Dio.

Come rovescio della medaglia di quanto finora si è detto, può essere utile considerare brevemente a quali rischi è esposto il comunicare umano e cristiano. Ci servirà per fare un buon esame di coscienza su tanti fallimenti comunicativi sia nel rapporto interpersonale o di gruppo, sia nello stesso sforzo di essere evangelizzatori. Esprimo sinteticamente tre rischi del comunicare: la dissociazione, la non reciprocità, l’impazienza.

Intendo per dissociazione l’incapacità a vivere l’unità dell’atto del comunicare di cui è modello la realtà trinitaria, che è insieme silenzio, parola e incontro. Se il comunicare è soltanto parola, scade nel verbalismo o nel concettualismo. Se è solo silenzio, cade nel mutismo, nella paura a investire in atti comunicativi, nella timidezza e nel ritrarsi orgoglioso e scontroso, oppure dà luogo ad ambiguità comunicativa per troppo risparmio di parole. Se è o pretende di essere solo incontro, scade nell’esteriorità e nella strumentalizzazione dell’altro.

La non reciprocità è pretesa di comunicare a senso unico: «Io so che cosa voglio dire, pretendo di sapere già che cosa l’altro vuole, decido io che cosa mi deve rispondere». Chi pensa così (e non sono pochi a vivere questo modo di comunicare) considera nella comunicazione solo il movimento di andata, perché quello che dovrebbe essere il ritorno libero e imprevedibile è già stato anticipato come se tutto dipendesse solo dal punto di partenza. Spesso tale atteggiamento è motivato da una certa paura ad affrontare l’altro, per cui si pre-condiziona la sua risposta temendo che sia diversa da quanto noi ci aspettiamo. Quanti intoppi comunicativi, quanti malintesi nascono da un simile comportamento, soprattutto quando esso viene usato da chi ha qualche autorità! Si vizia così in radice una risposta libera e intelligente.

Ma forse il difetto più frequente è quello della impazienza e della fretta, del non dare modo all’altro di elaborare le sue risposte, del volere subito il risultato. La Scrittura ci richiama alla pazienza dell’agricoltore che non forza i tempi del raccolto, ma investe con fiducia pur se talora «semina nel pianto» (cf. Sal 126, 5; Gc 5, 7ss).

Ciascuno contempli a lungo il modo di comunicare di Gesù nei vangeli, il modo di comunicare di Dio nelle Scritture, e si esamini sui suoi difetti comunicativi; ne troverà tanti, molti più di quanti io non possa indicare. La comunicazione umana va perciò continuamente risanata. Dio è non solo esempio di comunicazione, ma pure colui che perdona, riabilita, risana la comunicazione umana imperfetta e segnata dal peccato.

Ogni fallimento comunicativo riconosciuto e messo nelle mani della misericordia divina è pegno e garanzia di un passo avanti nel comunicare autentico. Anche nell’amicizia vale il principio che talora uno scontro o un litigio risanato rinsalda l’amicizia più della paura o del riserbo che può celare ambiguità e sospetti. Il Signore Gesù «che ha fatto udire i sordi e parlare i muti» (cf. Mc 7, 37) ci ottenga di vincere noi stessi e di aiutare molti altri alla comunicazione autentica.

Vorrei concludere questa seconda parte della lettera, destinata all’ascolto e alla contemplazione, suggerendo un’icona che riassume tante delle riflessioni precedenti. È l’icona di Maria, così come appare in una pagina del vangelo di Luca (cf. 1, 26-55). Si potrebbe dire, a modo di annotazione collaterale, che Maria è anche colei che risponde in maniera particolare al bisogno della comunicazione religiosa e umana. La tradizione mariologica e la pietà mariana hanno arricchito l’immagine biblica di Maria con una tale densità di relazioni comunicative che chi non vi è abituato può essere portato a dubitare dell’autenticità umana e rivelata di questa ricchezza vissuta nel cattolicesimo.

Occorre contemplarla dal di dentro, mettendo naturalmente da parte alcune deviazioni, per cogliere tutta la genuinità e l’evangelicità di quanto la pietà cattolica autentica vive nella sua relazione con il mistero di Maria.

Mi limiterò ad alcune riflessioni che partono dalla Scrittura e invitano a contemplare la vergine dell’annunciazione, la madre della visitazione e la sposa del Magnificat.

Maria viene raggiunta dall’annuncio dell’angelo mentre si trova in un profondo silenzio contemplativo. Da lei escono poche ed essenziali parole che manifestano un proposito saldo di verginità, un profondo rispetto del mistero di Dio, uno stare come ancella alla sua presenza. Maria nell’ascolto contemplativo si lascia raggiungere dal mistero del Padre attraverso la parola del Figlio per celebrare l’incontro nella grazia e nella forza dello Spirito Santo. In Maria, vergine dell’annunciazione, si manifesta la struttura trinitaria dell’auto-comunicazione divina: dal silenzio, attraverso la parola, verso l’incontro. L’accoglienza verginale dell’auto-comunicazione di Dio indica la dimensione contemplativa che sta alla radice del comunicare.

Invito a contemplare parola per parola questa pagina evangelica domandandosi quale figura del comunicare umano si manifesta nell’incontro di due donne e di due generazioni. È un comunicare che si manifesta anzitutto nel mistero della voce, comunicativa di gioia, vibrante e modulata così da far trasalire chi l’ascolta («Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio seno» Lc 1, 44). Attenzione reciproca e concretezza sono alla base della comunicazione dialogica tra Maria e Elisabetta. È un incontro nel gesto e nella parola che esprime la sovrabbondanza del cuore, la gratitudine e la gratuità. Maria si sente capita a fondo, sente che il suo segreto, che non aveva osato dire a nessuno e che non sapeva come esprimere senza timore di essere tacciata di follia, è stato capito, accolto, stimato, apprezzato. La tenerezza di questo incontro è figura di un comunicare umano e riuscito.

Il Magnificat è anzitutto una dossologia, un canto di lode: la lode è fondamento della prassi comunicativa. Non si comunica nella tristezza, con il muso lungo, ripiegati su di sé. Il Magnificat nel suo svolgersi percorre le diverse forme della difficoltà o dell’incapacità a comunicare e viceversa della comunicazione avvenuta: tra le generazioni (1, 50-51: «i superbi nei pensieri del loro cuore» che non sanno comunicare sono dispersi, mentre le generazioni di coloro che temono Dio comunicano l’una con l’altra); nel cuore dell’uomo (1, 52); nell’ambito politico e sociale (1, 51-53); nel popolo della promessa (1, 54-55).

Dobbiamo imparare a cantare il Magnificat con la vita: l’accoglienza dell’auto-comunicazione divina da parte di Maria è fondamento della capacità del nostro comunicare nella storia e anticipazione del comunicare nella pienezza della vita eterna. A questa pienezza comunicativa volgeremo la nostra attenzione specifica nel programma pastorale 1992-1994 con il tema del vigilare.

«O Maria, Madre e modello della comunicazione, ottienici che, contemplando i misteri in cui Dio Padre si dona a te e al mondo per mezzo del tuo Figlio nell’incontro dello Spirito Santo, noi possiamo sottoporre la nostra voglia di comunicare a quella purificazione e a quella luce che derivano da tanto mistero, e ci lasciamo anche noi attrarre in questo scambio di amore».

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In questa terza parte, alla luce dell’auto-comunicarsi del Dio vivente, è necessario verificare la nostra vita di singoli e di comunità. Nel prossimo anno 1991-1992 questa verifica verterà sul mondo dei mass-media e su come ci collochiamo in esso. In questo anno 1990-1991 ci limiteremo a suggerire piste di riflessione per il nostro comunicare in generale.

La domanda di fondo è quella del primo e del secondo paragrafo di questa lettera: È possibile incontrarsi a Babele? Come vivere la grazia di Pentecoste? In un mondo afflitto da tante fatiche comunicative e schiacciato da una massa confusa di informazioni e di messaggi, come ristabilire canali di comunicazione autentica, creare oasi di incontro vero, contribuite a migliorare il clima comunicativo generale segnato dalla conflittualità e dalla diffidenza?

Per questo proporremo anzitutto alcune domande che aiutino a «interiorizzare» quanto detto fin qui, in vista di una presa di coscienza adeguata della situazione attuale e dei rimedi che Dio ci offre nella sua alleanza pasquale. Poi esporremo alcuni itinerari comunicativi che ci aiuteranno a rileggere le prime cinque lettere pastorali dal punto di vista del comunicare. Infine, proporremo alcune tecniche che potranno essere utilmente messe in opera quest’anno per migliorare i canali comunicativi in noi e nelle nostre comunità, e suggeriremo alcuni momenti di verifica della nostra comunicazione nella fede, soprattutto a riguardo di alcune categorie da privilegiare negli appuntamenti pastorali di quest’anno.

Ci si educa al comunicare sviluppando la dimensione contemplativa della vita. Ogni comunicare nasce dal silenzio, non però vuoto o triste, ma pieno della contemplazione delle meraviglie che Dio ha operato in favore del suo popolo. Occorre reinterrogarsi sui tempi dati al silenzio nella vita quotidiana, durante la liturgia, nei periodi di ritiro che ci proponiamo noi stessi o che proponiamo alle nostre comunità. Si potrebbe rileggere utilmente la lettera Su alcuni aspetti della meditazione cristiana della Congregazione della dottrina della fede (1989). È anche importante interrogarsi, a partire dal silenzio di Maria che accoglie con stupore e timore la parola dell’angelo, sulla nostra capacità di guardare con stupore alle cose, agli eventi, alla vita, al mistero di Dio. Qual è il nostro grado di purezza di cuore? È scritto, infatti, «beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5, 8). Ricordo quanto avevo già detto nella prima lettera pastorale sul ruolo delle comunità monastiche e claustrali in diocesi come luoghi di ricarica spirituale, oasi di silenzio, centri di irradiazione della preghiera contemplativa. Ne approfittiamo?

L’ascolto credente della parola di Dio libera e unifica. Esso unisce anche tra loro quelli che ascoltano la stessa parola, producendo esperienze di autentica comunicazione. Le scuole della parola, che quest’anno saranno continuate per i giovani sul tema della prossima Giornata mondiale della gioventù — «Avete ricevuto uno spirito da figli» (Rm 8, 15) — possono pure divenire scuole di un comunicare più autentico. È necessario pertanto che siano riprese una volta al mese anche nei gruppi giovanili delle parrocchie e nelle associazioni e movimenti, imparando a comunicare vicendevolmente sul tema meditato.

Si può incominciare con il rileggere il testo biblico proposto, lasciando che dopo una pausa di silenzio alcuni sottolineino le parole che li hanno maggiormente colpiti, chiedendosi poi perché quelle parole hanno avuto particolare risonanza; inizia così un fruttuoso scambio nella fede. Imparare a comunicare nella fede a partire dalla parola è uno dei frutti che ci attendiamo da questo primo anno sul comunicare.

L’ascolto della parola nella celebrazione eucaristica domenicale può e deve generare delle forme semplici, ma intense e significative, di comunicazione nella fede: nei gruppi, nelle famiglie, nelle comunità, nei cammini di coppia. Si tratta dell’appuntamento settimanale più importante per i cristiani; preparato e atteso, arricchito da un’omelia che aiuta a penetrare le ricchezze della parola, esso si rivela sempre in grado di rigenerare la comunicazione tra noi alla luce dei pensieri e della logica di Dio, rivelataci nelle pagine che vengono proclamate nella liturgia.

Non posso non ricordare, a questo punto, l’importanza della comunicazione con coloro che venerano come noi e scrutano attentamente la Sacra Scrittura. Mediante l’ascolto e la conoscenza attenta della Parola, noi ci apriamo al dialogo ecumenico con i fratelli riformati d’Occidente. Anche nel rapporto con le «sette», oggi tanto difficile e per il momento quasi impossibile a causa del loro atteggiamento spesso rigido e incapace di dialogo, più che la polemica diretta vale la conoscenza profonda e amorosa della Scrittura, che permetta di dire con garbo ai visitatori importuni: «No grazie, la Bibbia l’abbiamo già, la leggiamo e la conosciamo, per grazia di Dio, anche più di voi!».

La liturgia fa opera di mediazione tra l’interiorità contemplativa colmata dal dono della parola e l’espressione esterna e pubblica dell’adorazione e della lode. Essa non sta soltanto dalla parte del rito esteriore e della celebrazione visibile, ricca di parole elevate, di simboli e segni. Presuppone e coltiva pure l’interiorità del credente; educa e forma alla comunicazione autentica con Dio suggerendo le parole e gli atteggiamenti giusti e genera una comunità chiamata al dialogo nella fede e nella vita. Perciò la liturgia, praticata integralmente (e non solo nei suoi aspetti cerimoniali), educa alla comunicazione. La comunità esprime e realizza sé stessa nella misura in cui è capace anzitutto di ascolto comune della parola e di risposte giuste anche a livello pubblico.

Cuore, centro e culmine della liturgia è l’Eucaristia, dalla quale derivano e a cui si riportano tutti gli altri sacramenti.

Suggerisco di rileggere le pagine di Itinerari educativi che prospettano la liturgia e il cammino sacramentale come il cammino educativo della chiesa per eccellenza, nel quadro dell’anno liturgico. Si possono pure rileggere le pagine di Attirerò tutti a me (recentemente richiamate nel documento L’Eucaristia al centro della comunità religiosa), in cui viene descritta l’azione formativa che l’Eucaristia esercita sulla comunità e le caratteristiche di una comunità che da essa si lascia plasmare. Scopriremo che una tale comunità è aperta, pronta a donarsi, umile e attenta agli altri, cioè disposta a comunicare con verità a tutti i livelli.

È importante, e primario compito del lavoro pastorale, che soprattutto la celebrazione domenicale dell’Eucaristia, per il modo con cui è preparata ed eseguita, esprima con chiarezza il suo dinamismo interno, vera e propria forza che abilita e sollecita a una comunicazione profonda in grado di spingersi fino al dono di sé e alla convinta testimonianza del vangelo.

Tra questi vari livelli a cui l’Eucaristia abilita a comunicare, va ancora una volta richiamato quello ecumenico. Dobbiamo in particolare renderci sensibili a quanto pensano, dicono e fanno i nostri fratelli delle comunità cristiane non cattoliche anche in campo liturgico. È specialmente importante conoscere di più e apprezzare i tesori della liturgia orientale, il «secondo polmone della chiesa» come lo definisce Giovanni Paolo ii .

Voglio pure richiamare il sacramento della penitenza o riconciliazione. In esso sottoponiamo alla potenza del Cristo crocifisso e risorto i nostri fallimenti e blocchi comunicativi perché siano medicati e risanati. Siamo convinti della forza di questo sacramento? Lo offriamo ai fedeli, se siamo preti, e lo esigiamo dai preti, se siamo laici? L’auto-comunicazione divina fonda, in chi l’accoglie, l’esigenza di comunicare gratuitamente ad altri quanto gli è stato gratuitamente comunicato. Le forme di esercizio di questa comunicazione sono l’evangelizzazione, la catechesi, il dialogo fraterno, l’omilia, ecc.

Nel programma pastorale «Partenza da Emmaus» abbiamo trattato, in particolare, della catechesi per gli adulti e degli adulti. Sarà bene che ogni comunità rilegga quanto ha fatto a partire da quella lettera e, in particolare, dal convegno di Busto Arsizio «Catechisti testimoni» (1984). A tutti raccomando la ripresa della lettera Partenza da Emmaus proposta ne «Il segno di quest’anno 1990» sotto il titolo Ripartire da Emmaus.

Ai presbiteri chiedo di approfondire con l’ausilio delle settimane residenziali, previste per il gennaio 1991, la loro singolare responsabilità di comunicare la fede nelle condizioni odierne della gente, non trascurando di considerare il problema dei tratti fondamentali che dovrebbero essere ritrovati nel presbitero perché egli sia reale punto di riferimento per le persone, luogo capace di ascolto e di consiglio per i singoli e l’intera comunità. Chiedo inoltre di approfondire le esigenze, anche di metodo, della comunicazione degli adulti in vista di una reale attenzione a dove l’altro si trova (come situazione spirituale) e ai passi che catecumenalmente insieme con lui andrebbero compiuti.

Un’esperienza di dialogo unita alla proclamazione è stata percorsa, in questi anni, nella cosiddetta «Cattedra dei non credenti». Pur se i metodi per tali incontri possono variare, è importante promuovere luoghi in cui chi non crede, o ha difficoltà di fede, ma è in seria ricerca possa esprimersi, confrontarsi, essere ascoltato e capito.

Ogni cristiano e ogni realtà ecclesiale dovranno comunque interrogarsi sull’urgenza evangelizzatrice che nasce dalla comunicazione del dono di Dio. In particolare la pastorale giovanile nella nostra diocesi è stata invitata a porsi come pastorale missionaria. Esprimo alcune ulteriori riflessioni che ci aiuteranno a questo proposito, specialmente in relazione a chi non crede o ha difficoltà di fede, dedicandole ai nostri missionari e missionarie che operano in ogni parte del mondo, e in particolare ai preti diocesani fidei donum che operano in Zambia, Camerun, Brasile, Messico e Perú.

Mi ha sempre stupito e confortato il comportamento di Gesù con gli undici dopo la resurrezione: «Li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risuscitato. Gesù disse loro: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura”» (Mc 16, 14-15). Proprio a questi uomini, increduli e ostinati, è affidata la comunicazione del vangelo!

Possiamo comunicare il vangelo perché anzitutto è stato a noi comunicato da coloro che prima di noi hanno creduto. Davvero possiamo ripetere con sant’Agostino: «Io credo in colui nel quale hanno creduto Pietro, Paolo, Giovanni...». Perché non continuare aggiungendo ai nomi dei primi testimoni quelli di tutte le persone per le quali noi siamo venuti alla fede, di quei comunicatori del vangelo che costituiscono la nostra storia di credenti e la storia delle nostre comunità? Possiamo aggiungere il nome dei nostri genitori, dei nostri nonni, dei nostri sacerdoti, di qualche religioso o religiosa, dei catechisti, di tutti i credenti, uomini e donne, grazie ai quali noi apparteniamo a una lunga storia di fede. Guardando nel nostro passato, troveremo i loro volti e le loro voci; allora salirà alle nostre labbra la gratitudine perché scopriremo che la comunicazione della fede è stato in primo luogo un dono per noi.

Nasce di qui la nostra responsabilità di comunicatori. Con Paolo ripetiamo: «Ho creduto e perciò ho parlato» (2 Cor 4, 13); proprio perché è stata detta a noi, la fede deve essere detta, a nostra volta, da noi.

I primi discepoli del Signore, quando il tribunale ebraico vorrebbe chiuder loro la bocca, replicano: «Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (Atti 4, 20). Gesù stesso li aveva ammoniti: «Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10, 32). Paolo chiede a Timoteo di imitare l’esempio di Gesù che ha dato la sua bella testimonianza di fede davanti a Ponzio Pilato (cf. 1 Tm 6, 12ss.). Giovanni, nella sua Prima lettera, ricorda la necessità di riconoscere pubblicamente Gesù nella sua divinità e umanità (cf. 1 Gv 4, 15; 4, 2). Oggi, come allora, a ciascuno di noi è dato l’impegno di rispondere a quanti ci chiedono ragione della speranza che è in noi, spiegazioni che devono essere date con gentilezza e rispetto (cf. 1 Pt 3, 15).

Le ultime parole di Pietro sopra riportate sottolineano un altro aspetto della comunicazione del vangelo a coloro che non credono. La Lumen Gentium (n. 16) ricorda che anche i non cristiani, i non credenti, sono ordinati in vario modo al popolo di Dio: «Coloro che senza colpa ignorano il vangelo di Cristo e la sua chiesa e che tuttavia cercano sinceramente Dio e con l’aiuto della sua grazia si sforzano di compiere la volontà di lui, conosciuta attraverso la coscienza, possono conseguire la salute eterna».

Anche la Dei Verbum ci ricorda che Dio ha «assidua cura del genere umano, per dare la vita eterna a tutti coloro che cercano la salvezza con la perseveranza nella pratica del bene» (n. 3). Queste affermazioni fondano la necessità di comunicare il vangelo con coloro che non credono; è lo stile del dialogo. Già lo aveva indicato con ampiezza Paolo vi nell’Ecclesiam suam: «La chiesa deve venire a dialogo con il mondo in cui si trova a vivere. La chiesa si fa parola. La chiesa si fa messaggio. La chiesa si fa colloquio» (n. 38).

Al termine del Vaticano ii , Paolo vi affermò: «Una simpatia immensa ha pervaso il Concilio. La scoperta dei bisogni umani ha assorbito l’attenzione del Concilio. Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal Concilio verso il mondo. I suoi valori sono stati non solo rispettati, ma onorati; i suoi sforzi sostenuti, le sue aspirazioni purificate e benedette. La chiesa è scesa a dialogo con il mondo».

Nella Gaudium et Spes troviamo indicate le ragioni e le forme del dialogo del credente con tutti gli uomini di buona volontà. Il Concilio invita i credenti a leggere nella realtà, nella storia, negli eventi, tutto ciò che può costituire una sorta di consenso, di dialogo appunto, su valori e ideali da interpretare alla luce del vangelo (cf. n. 4-10).

Occorre leggere anche nel mondo di oggi i veri segni della presenza e del disegno di Dio (cf. n. 11). Persino un fenomeno così inquietante e negativo come l’ateismo deve essere letto in modo da discernere le ragioni di tale rifiuto, forse l’appello, l’inconsapevole attesa di una fede più evangelica (cf. n. 21). Il Concilio compie ancora un passo verso il dialogo quando afferma che la chiesa può utilmente mettersi in ascolto di chi non crede, perché anche da lui può venire una provocazione di fede, una scintilla di verità (cf. n. 40.44).

La ragione di tale dialogo è che tra l’orizzonte del credente e quello di chi non crede non esiste assoluta incomunicabilità, proprio perché già qui e ora prende corpo nei solchi della storia il regno di Dio. Questo regno che si esprime pure nell’accogliere, assumere, purificare, rettificare, salvare quanto la fatica degli uomini ha costruito (cf. n. 38-44). Il Concilio crede nella comunicazione profonda esistente tra tutti coloro che cercano con cuore sincero. Il cristiano sa che questo è il tempo di una nascosta gestazione e perciò egli è capace di comunicazione con tutti coloro che cercano con verità.

La comunicazione del vangelo non si attua soltanto nel dialogo esplicito. C’è un immenso campo di azione che compete particolarmente ai credenti laici e che riguarda l’affermazione, il sostegno e la promozione dei valori profondi che sono previ a qualunque confessionalità e comuni a tutti gli uomini. Tutto ciò che ha attinenza alla coscienza, alla responsabilità, alla giustizia, alla pace, alla salvaguardia dell’ambiente, fa parte di un linguaggio a tutti accessibile, che ha le sue radici nell’opera creatrice e redentrice del Signore. Il modo di comportarsi e di interagire nella vita quotidiana, nei rapporti interpersonali, negli affari e nella politica, in quei mille contatti quotidiani che si vivono in famiglia, nei luoghi di lavoro e nel tempo libero, dovunque siano in questione anche modeste e semplici scelte morali (come quella di dare una risposta gentile o un’informazione corretta) può irradiare tali valori a misura dell’intensità con cui sono vissuti, o negarli, o aggredirli.

Quanto più la comunità cristiana e il singolo fedele saranno in grado di esibire scelte e stili di vita coerenti con il vangelo, pur senza sottolinearlo esplicitamente, si eserciterà una forza aggregante e persuasiva sull’insieme dei comportamenti umani per la ricostruzione di una comunione sui grandi temi etici che hanno le loro radici nella rivelazione di Dio.

In questa forma di comunicazione implicita che si attua nell’impegno morale quotidiano, il credente ha nel cuore qualcosa che gli urge, lo muove, mobilita tutte le sue energie: è la «gioia del vangelo», la sua novità incomparabile. Chi crede, anche nel rapporto con chi è molto lontano, non può rinunciare a voler comunicare la formidabile differenza ed eccedenza, il «di più» e l’«oltre» che sono costitutivi del vangelo. Tale differenza, che è peculiare della fede, si traduce in una eccedenza di ideali di vita rispetto alla giustizia puramente legale, eccedenza che è indizio e anticipazione di rapporti umani eticamente più densi e aperti a un orizzonte trascendente, che è riflesso della Gerusalemme celeste e della perfetta comunione di cuori che in essa sarà raggiunta.

Proprio perché nasce dal mistero di Dio, la comunicazione del vangelo custodisce la differenza: è in grado quindi di offrire ai progetti umani l’orizzonte di senso, la contestazione critica, l’energia progettuale. In tal modo l’esperienza cristiana evita le riduzioni intimistiche e si fa pubblica: rigenera la libertà umana, suggerisce progetti concreti di gesti e interventi con cui la libertà, volendo efficacemente il bene di tutti, si mette al servizio della comunità degli uomini.

La comunicazione divina, partendo dal mistero del Padre si comunica nella parola del Figlio e tale comunicazione si realizza nell’incontro, lo Spirito. Anche la comunicazione interpersonale si realizza nella verità dei gesti di solidarietà e di condivisione. Il progetto del «Farsi prossimo» ci ha spinto nel 1985-1986, sollecitati pure dal convegno di Assago, verso itinerari comunicativi della carità interpersonale, assistenziale, sociale, socio-politica, e ha stimolato il nascere delle Caritas parrocchiali, che però non esistono ancora in tutte le parrocchie. La chiesa italiana si prepara a porre gli anni Novanta sotto il segno della carità.

Vorrei fare due sottolineature. La prima riguarda la carità nelle relazioni quotidiane, nelle cosiddette relazioni brevi. È qui che si esercita ogni giorno e mille volte al giorno la prossimità concreta, che ogni altra forma di carità trova la sua verifica impietosa. Non pochi eccellono nella solidarietà delle «relazioni lunghe» (di tipo più ufficiale, organizzativo, programmatico) e vengono meno nelle relazioni brevi della quotidianità per nervosismi, forme di cattivo umore, ripulse e sospetti infondati, mutismi punitivi, amarezze coltivate, punzecchiature tanto frequenti quanto mutili. Per questo occorre superare un grande ostacolo, che è quello dell’abitudine e dello scoraggiamento. Abbiamo tentato tante volte di instaurare relazioni vere e amicali verso le persone che ci stanno a gomito, ma non siamo riusciti. Allora ci siamo accontentati di un rapporto di convivenza non belligerante, di tolleranza reciproca, di pazienza, di sospiri lamentosi, dicendo: «Tanto non cambio né io né lui o lei».

Partiamo dunque dalla persuasione che ormai non c’è più molto da fare e che è già tanto stare in qualche modo insieme. Ebbene, proprio da qui è possibile sviluppare un’arte dei rapporti che inizia dalla constatazione che «non cambiamo né io né lui o lei» e che pure qualcosa, anzi molto, può cambiare.

Cominciamo rileggendo, in questa luce, le pagine della seconda parte di questa lettera e mettiamoci in atteggiamento di silenzio e di ascolto davanti a Dio che si comunica anche a chi non lo accoglie; contempliamo Gesù che ricuce continuamente i rapporti sfilacciati tra lui e gli apostoli o degli apostoli tra loro. Preghiamo la Madonna della comunicazione e lasciamoci guidare dalla lampada che si accende nel nostro cuore al soffio dello Spirito dell’incontro. Vedremo che già qualcosa sta cambiando. Basta cominciare.

Una seconda sottolineatura del «Farsi prossimo 1990» riguarda un tema che spesso ho richiamato in questi ultimi tempi: l’accoglienza e l’apertura verso gli immigrati extracomunitari. Nel 1985 tale urgenza si delineava appena; oggi è diventata un fenomeno rilevante specialmente nella nostra città. La Caritas e la segreteria per gli esteri si sono fortemente impegnate per fronteggiare questa emergenza che tuttavia deve mobilitare la capacità comunicativa delle nostre parrocchie e gruppi. Comunicare con chi è straniero costituirà una forma di attuazione di questo programma pastorale.

Non entro in altri particolari perché ne ho parlato a lungo e in molte occasioni negli ultimi mesi. Soltanto ricordo che si tratta di una frontiera esigente e urgente della carità e della comunicazione. Se oggi riusciremo a comunicare con questi nostri fratelli, per il domani avremo preparato orizzonti comunicativi per l’intera nuova Europa che, secondo la parola di Giovanni Paolo ii , potrebbe diventare una «Europa dello spirito».

Concludo dicendo che forse non tutte le nostre parrocchie (perché non poche sono lodevolmente in prima linea) hanno capito questa seconda urgenza proprio perché hanno trascurato la prima delle due sottolineature ora fatte. Hanno cioè identificato la carità semplicemente con la carità assistenziale o socio-politica e hanno deciso a priori che cosa possono fare o non fare in proposito. Non hanno preso sul serio anzitutto il cammino della carità interpersonale che è l’esercizio quotidiano dell’accettazione degli altri e di sé con amore e simpatia. Così vanno a cercare più lontano quelle forme del «farsi prossimo» che stanno sulla porta di casa, con il rischio di non vedere neanche più bene ciò che sta oltre i confini della parrocchia.

di Carlo Maria Martini