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Svuotare le stanze di oggetti e riempirle di compagnia

 Svuotare  le stanze  di  oggetti  e riempirle  di  compagnia  ODS-014
30 settembre 2023

Da qualche anno mi capita di prestare supervisione agli operatori della Caritas di Roma che si occupano di «barbonismo domestico». Più che supervisione, si dovrebbe però definire intervisione: una volta al mese ci vediamo e parliamo di uno di questi esseri umani — «forme di esistenza mancata», le chiamava Ludwig Binswanger — che a un certo punto della loro vita hanno deciso di seppellirsi in casa e — un po’ come certi defunti che venivano accompagnati in sepoltura dagli oggetti significativi della propria vita — s’internano con migliaia di “cose”, tutte inutili e ingombranti, eppure significative e irrinunciabili.

L’esistenza di questi esseri umani ogni mese ci interroga. Parliamo di loro. Ci facciamo delle idee. Cerchiamo di capirli. Di comprendere il perché di questo loro essere al mondo: perché essi sentono questo estremo bisogno di solitudine?

Esistono diversi tipi di persone che sperimentano forme estreme di solitudine. Lo psicotico, l’uomo estromesso dal consesso sociale e relegato in manicomio, il depresso, l’asceta, il mistico oppure lo yogin, il meditatore, che non per via di cuore, ma di mente cerca Dio. In un paese come il Giappone, che della malattia del secolo — la depressione — non osa parlare neanche nel suo dizionario, è emerso recentemente un altro fenomeno: quello degli hikikomori, prigionieri di un moderno manicomio, il panottico digitale. Altro non sono che i moderni asceti, anacoreti della contemporaneità, ossimori relazionali: non incontrano anima viva a parte il genitore che consegna il cibo fuori la porta della cella domestica, tuttavia sui network sociali chattano con migliaia di persone. È un nuovo tipo di soggetto in solitudine. E non sarà l’ultimo.

Perché gli esseri umani si sentono gettati nel mondo, nel Da-sein, nell’esserci, senza istruzione o manuale per saper vivere, in balia dell’angoscia di esistere. Sono, siamo, tutti soli. Questa la lezione di Heidegger, di Camus, di Sartre.

Vi è stato un tempo, nel mondo occidentale, in cui si è creduto che la solitudine sapeva guarire la follia. Le relazioni ammalavano. La famiglia, la società, le troppe e imperfette relazioni erano causa di follia. Il folle — racconta Michel Foucault in Storia della follia — doveva essere staccato dalla famiglia, dalla società, dal mondo (là dove la sua follia s’era generata) e, come una piantina malata estirpata dal bosco, ri-piantata nell’orto botanico della follia, il manicomio, luogo quintessenza della separazione dove, in solitudine, avrebbe ritrovato la sua serenità e se stesso.

Ecco, le persone che incontriamo con la Caritas sono portatrici delle figure tratteggiate: alcune psicotiche, alcune depresse, a volte povere di intelligenza, altre semplicemente deboli. Un elemento che le accomuna è il ritiro in casa, il sentirsi della propria roba.

Questo è un modo per difendersi e barricarsi dal mondo, per murare e trincerare un Io senza corazza, senza difesa, senza pelle e senza schermo.

Gli operatori Caritas si sono dati il ruolo non solo di togliere la roba dalle case e pulire, ma di portare relazioni — cioè di portare se stessi — a persone che di relazioni si sono ammalate e dalle relazioni si sono sottratte, perché non hanno mai capito cosa farci con le relazioni. Per loro i rapporti umani sono sempre stati tossici, malati, sofferti. In questo modo l’operatore Caritas diventa un terapeuta, un portatore sano di relazioni.

Sì, è un lavoro faticoso. Ma è anche un’opportunità rara per arricchirsi, per dare un po’ di relazione a chi non ne ha, per svuotare le stanze di chili di oggetti e riempirle di minuti di compagnia.

di Piero Cipriano