· Città del Vaticano ·

Un misericordiato misericordioso Non tutto il dolore si può curare, ma tutti i dolori possono essere condivisi

Eccomi! Non ti lascio cadere nel buio

 Eccomi!   Non  ti lascio  cadere nel  buio  ODS-014
30 settembre 2023

La misericordia mi ha salvato. Quarant’anni fa il pensiero di una rivoluzione possibile aveva sacrificato gli anni migliori della mia gioventù. Poi, ho incontrato un prete che mi ha trasmesso un’idea: nella lingua di Gesù, l’ebraico, “convertirsi” (shuv) significa ritornare indietro, come quando ci si è persi e allora bisogna ritrovare la via per poter ricominciare.

Lo smarrimento, la rabbia di essere un sopravvissuto rispetto alla morte di due compagni, il senso di colpa di essere vivo... una montagna di sassi mi impediva di riprendere il cammino. Il prete con assoluta semplicità mi disse che Gesù mi aveva già perdonato e che l’amore per gli ultimi e la giustizia dovevo continuare a custodirli nel mio cuore.

Oggi sono uscito da quel cono d’ombra. Sono un educatore e lavoro nel servizio Aiuto alla Persona della Caritas grazie a quel prete. Ma sono solo sprazzi di luce, perché l’altro da me, lo scarto, il non riconosciuto vive con lo sguardo il terribile del buio e quando allunga un braccio non afferra una mano, ma la sua mano si dimena nell’oscurità dell’abbandono. E si chiude a pugno, quella mano, per scagliarla contro qualcuno o qualcosa, ma incontra il nulla e per sopravvivere gli rimane solo quella rabbia.

Quale soggettività restituire alle persone che vivono l’esilio della povertà? Restituire la soggettività significa restituire uno spazio vuoto. Uno spazio fisico, sociale e istituzionale, dove finalmente sia possibile la cura di relazioni non alienate; uno spazio reale dove costruire un’esperienza di sé e degli altri.

Per farlo, noi operatori sociali dobbiamo perdere il senso di saper far tutto: abbiamo imparato questo lavoro di cura senza saperlo fare. Insegnare, proporre qualcosa a qualcuno senza sapere come si fa è uno dei lati più interessanti di chi fa il nostro lavoro. Chi si occupa dell’altro cerca di nutrire i percorsi di quella persona: in effetti, fa una cosa che non sa fare. Non perché non abbiamo studiato abbastanza o non abbiamo titoli, ma perché di fronte a noi abbiamo l’altro che non conosciamo. E questa è una delle caratteristiche della complessità: l’inconoscibilità. Gestire un sistema complesso che non è governabile. Diventare competente di qualcosa che sfugge continuamente dalle mani, dallo sguardo. Vivere l’inatteso in un contesto che ha innumerevoli attese. Restituire la soggettività in un quadro normativo e normalizzante vuol dire operare l’autodistruzione dell’istituzione.

Secondo Basaglia, la distruzione del manicomio non può che avvenire attraverso gli operatori che lavorano nel campo della salute mentale. Noi che lavoriamo nel campo della cura dobbiamo saper innescare questo processo autodistruttivo.

Spesso entriamo nella casa dell’altro con una postura fortemente invasiva, una postura che vuole conoscere, vuole afferrare, è convinta di poter informare, affrontare le cose, capirle, fissare gli obiettivi. La restituzione della soggettività vuol dire negoziare i significati di quell’incontro, di quel dialogo, accettare la nostra disperazione e capire che forse non ci intenderemo mai. Chi sono io per te? Chi sei tu per me? E cosa siamo qui a fare?

Basaglia sarebbe sconvolto dalla solerzia con cui le istituzioni dedicate pongono in essere pratiche di “prevenzione” e di “cura” nei confronti di donne e uomini nella condizione di isolamento sociale. Gli anormali, i reietti, gli scarti, sono reperiti, selezionati e trattati con una precocità che 50 anni fa era semplicemente inimmaginabile. Forse funziona meglio un servizio sociale e sanitario di prossimità territoriale che va nella direzione di una importante e progressiva riduzione delle manifestazioni “maggiori” della follia?

L’impatto forte delle povertà si attutisce con una medicalizzazione diffusa dell’esistente. Dall’abuso di prescrizioni di farmaci psichiatrici, all’inserimento delle sofferenze in strutture intermedie o psichiatriche o nelle famigerate rsa , contenitori di prossimità numerologica, dove il soggetto perde il nome e viene sostituito da una cartella con un codice identificativo. Terapie, protocolli, procedure... la cura del corpo biologico nell’evidenza dei cosiddetti sintomi. Non si fanno più anamnesi, non ci si dedica all’ascolto, interviene l’osservazione specialistica che valuta i sintomi e la narrazione della vita del vivente è consegnata all’oblio, la scienza medica si occupa della malattia degli organi. Abbiamo di fronte, quando l’orizzonte si chiude e rimane solo la povertà del vivente, un essere che ha perso la soggettività.

E, per restituire questo spazio vuoto, dovremmo prima di tutto fare esperienza di quanto quella soggettività non sia sottratta solo ai devianti, agli scarti, ai folli. Questo spazio è potenzialmente sottratto ad ognuno di noi. È quella forma di vita comoda con cui accettiamo di convivere.

Una persona che ha perso tutti i propri affetti o ha vissuto un trauma, perché non dovrebbe lasciarsi morire di ubriachezza o vagabondaggio o accumulare nella propria abitazione, in maniera vertiginosa, oggetti, scatole, vestiti usati? Perché dovrebbe subire, per questi motivi, lo stigma di persona malata? Non tutto il dolore si può curare. Non tutta la sofferenza psichica è ascrivibile ad una patologia. Occorre rinunciare a stabilire criteri, regole o definire margini di intervento. Evitare di considerare nella follia e altamente pericolosi tutti i drogati, i devianti, gli scarti. Stare male è una condizione normale dell’essere umano.

Ancor più nell’epoca contemporanea, dove l’economia uccide, l’essenza del termine “democrazia” cambia e la guerra prosegue in altre forme: disuguaglianze sanitarie, alimentari, di genere, energetiche e di formazione. La guerra di un sistema contro i poveri.

Mi chiedo: cosa ci manca? Qual è la cura?

L’accanimento terapeutico della salvezza, così ben congeniato dai sistemi istituzionali e dalle strutture culturali e professionali, manca di senso, di una comunità di donne e uomini liberi che si prendono cura della loro e altrui fragilità.

La fratellanza. Ripensare la fratellanza in un modo non retorico costituisce un antidoto. La fratellanza al tempo della guerra tra ricchi e poveri. La scena matrice della fratellanza ha a che fare con l’origine della vita: nessuno di noi può mantenere viva la propria vita senza l’ossigeno dell’altro. Questa vita, senza la presenza dell’altro, sarebbe destinata alla morte. Ci vuole un altro che soccorra la vita dell’inerme. Ci vuole un altro che sia in grado di rispondere al grido.

Non è un caso che etimologicamente l’etica della responsabilità deriva dalla parola risposta. Essere responsabili significa saper rispondere. Saper rispondere al grido dell’inerme, al grido del povero. E questo grido è una preghiera.

La forma più radicale della parola, dell’appello, è la preghiera. Di fronte alla preghiera che assume la forma del grido, nel tempo della vita, l’altro ha il compito, la responsabilità di rispondere.

Questa è la prima forma della fratellanza: prendersi cura dell’inerme.

Accade ogni volta che siamo di fronte al grido di inermi. Il grido degli immigrati nel Mar Mediterraneo, il grido dei senza dimora sui marciapiedi delle metropoli, il grido di coloro che sono consegnati soli allo spazio delle loro abitazioni — le mura come elemento invalicabile della loro incomunicabilità, finestre chiuse, sbarrate, i corpi in un totale abbandono — nell’attesa della morte.

Abbiamo una parola antica che troviamo nel testamento ebraico: “eccomi”. Questa parola tiene insieme la libertà e la responsabilità. Non ti lascio cadere nella fossa, non ti lascio cadere nel buio. “Eccomi” è la risposta del soccorritore, è la parola dell’atto fondativo della fratellanza. Volontari, operatori, personale ecclesiastico: quando si parla di diventare strumenti della carità, espressione dell’amore di Gesù che s’incarna nelle parole del Vangelo, siamo così sicuri che le nostre coscienze siano all’altezza di un anelito di coerenza? Allora, come pensiamo di edificare una grande comunità di fratelli e soccorrere chi ha bisogno?

di Mario Guerra