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Canti dalle periferie Il diritto di parlare e di essere ascoltati

 Canti dalle periferie Il diritto di parlare e di essere ascoltati  ODS-014
30 settembre 2023

Solitudine e abbandono sono le parole più ricorrenti nei testi che gli autori dei “canti dalle periferie” hanno dedicato al tema del “barbonismo domestico”. Raccontando di persone conosciute durante la loro vita o riportando esperienze personali, tutti concordano nel dire che la peggiore povertà di questi nostri tempi, per quanto possa dirsi interconnessa, è la mancanza di relazioni. Di relazioni vere.

Sono stato un “barbone domestico”
e non lo sapevo

Non lo sapevo, ma anche io sono stato un barbone domestico. L’ho scoperto quando gli amici dell’«Osservatore di Strada» mi hanno parlato di queste persone che, spesso avanti negli anni, vivono sole senza parenti o amici dei quali occuparsi o che si occupino di loro. Cominciano col lasciarsi andare e a uscire solo per rifornirsi di cibo e di quanto necessitano in funzione delle loro capacità economiche. Poi, è una continua discesa che può portarle spesso a non curarsi più di se stesse, a puzzare e a vestirsi di stracci e le fa precipitare nella solitudine, nella noia, nell’ozio. Televisore e cellulare sono i loro unici amici. Sigarette e alcol, ma anche di peggio, i loro unici compagni.

È capitato a me, a seguito di un herpes zoster sul viso che mi è stato diagnosticato in ritardo. Per più di due anni sono rimasto bloccato in casa, con dolori nevralgici lancinanti, curati con farmaci potenti, ma dalle altrettanto potenti controindicazioni. Così penso di essere diventato un barbone in casa mia.

Per tanto tempo non avevo potuto lavorare, ma quando avrei potuto ricominciare non ne avevo più voglia. Abbattuto psicologicamente, ma anche fisicamente, mi lavavo sempre meno e sempre meno pulivo la casa.

Dopo vari mesi senza pagare l’affitto, sono stato sfrattato. Avevo quasi 70 anni. Prima di uscire ho tentato il gesto estremo, fortunatamente impedito dalle forze dell’ordine.

Poteva essere la fine. Invece è stato un nuovo inizio. Non facile, certo, ma un inizio, perché ho potuto conoscere un mondo di cui non sapevo l’esistenza, persone il cui lavoro è prendersi cura di chi ha problemi (e di gente che ha problemi ben più seri dei miei ce n’è a bizzeffe), persone che lavorano con il cuore.

Ora guardo al futuro con meno ansia.

È da vigliacchi abbandonare chi
ha bisogno di aiuto

Credo che il “barbonismo domestico” sia peggiore e più dannoso di quello di strada. Quello di strada è una condizione che si subisce (raramente viene scelto), ma ha un grande vantaggio: ti mette a contatto con altre persone, non ti senti mai solo, hai da raccontare e ascoltare, da ricevere e da donare un sorriso nonostante tutti i tuoi problemi.

Il “barbonismo domestico” ti dà l’illusione che stai comunque vivendo una vita “normale”. Ti fa rinchiudere dentro quattro mura, solo con i tuoi problemi, i tuoi egoismi, la tua vigliaccheria, vigliaccheria che copri nascondendoti. Ti toglie il coraggio di confrontarti, di relazionarti con gli altri.

Oggi viviamo in una società che, con il suo egoismo, tende sempre più a isolare, a sovrastare chi è più debole.

La solitudine per me è figlia di questo.

Ci sono persone che cercano di coprirla comprando grosse macchine, cellulari di ultimo tipo e cose varie. Altre (cosa ancora più grave) la coprono con cocaina e altre sostanze. Poi, però, si accorgono di essere sole.

L’abbandono è la cosa più sporca e vigliacca che l’essere umano possa concepire. Perché abbandonare a se stessi chi ha bisogno di aiuto è da vigliacchi.

Per quanto riguarda la vecchiaia, la vedo come un’occasione. Da una persona vecchia c’è tantissimo da imparare: saggezza, esperienza... Se sapessimo gestire tutte le esperienze, sono sicuro che saremmo tutti più ricchi di valori. Perché sono i vecchi, gli anziani, a trasmettere ancora dei valori, come quello della solidarietà. E nel frequentarli ti accorgi di non essere solo.

Gli invisibili
“underground”

«Sarà capitato anche a voi di avere un articolo in testa». Sì, un articolo, e anche abbastanza triste, non “una musica” allegra come la canzoncina che cantava la Carrà. Un articolo che narra di una persona, per lo più anziana, trovata morta in casa, e solo perché — dopo mesi — i condomini hanno avvertito cattivo odore provenire dal suo appartamento. Dov’erano stati fino ad allora?

La risposta a questa domanda è, quasi invariabilmente: «Non ci siamo preoccupati. Era una persona molto riservata. Conduceva vita appartata. Non si vedeva quasi mai».

Questa risposta ci rinvia alla causa vera, profonda, della morte. L’eventuale autopsia potrà appurare che il decesso è avvenuto per uno o più dei malanni senili di cui soffriva il/la poveretto/a. Ma questo è il meccanismo, l’atto tecnico, finale, di un processo avviato ben più a monte.

Queste persone sono ancora più “invisibili” degli “invisibili”. Questi ultimi — le persone che vivono per strada — non sono poi tanto invisibili: stanno alla luce del sole, basta non voltarsi dall’altra parte.

Ma se è vero che solitamente in strada si finisce a causa di un rovescio economico-finanziario e di una “incompatibilità ambientale” con la famiglia, per coloro di cui parliamo sembra che agisca principalmente quest’ultimo fattore: hanno una casa, dispongono di un reddito che permetterebbe loro di mantenersi, ma sono soli: non hanno famiglia o è come se non l’avessero.

Non si vive di solo pane, e questa è la nuova povertà: la solitudine, la mancanza di rapporti, di affetti, del “pane supremo”.

In fondo, anche questa è una conseguenza di ciò di cui cantano Simon e Garfunkel in «The Sound of Silence».

Come aiutare costoro? Un “invisibile” palese lo si può soccorrere, lo si conosce, si sa di che ha bisogno; ma un “invisibile” underground, occulto? Chi sa chi è, dov’è, perché è nel disagio — se non sociale — esistenziale?

La maestra senza più
nessuno

Sono cresciuto e ho abitato sempre in un quartiere di periferia e di persone strane, naturalmente tra virgolette, ne ho conosciute tante. Alcune erano sempre state considerate persone tranquille, “normali” — per quello che vale questa parola —. Poi, a un certo punto, le vedevo cambiate. Alcune avevano visto andar via i figli, altre avevano perso il marito o la moglie. Erano sole, completamente sole.

Mi ricordo bene di una signora che abitava nei pressi di un parco dove portavo Gaia, mia figlia, a giocare. Un giorno la vidi rovistare nei cassonetti dell’immondizia. Ci rimasi male perché sapevo che era una persona benestante, non certo ricca, ma con una casa di proprietà. Viveva della pensione di maestra elementare e quando le parlavi ci stava con la testa.

Poi seppi che aveva cominciato a portarsi a casa tutto quello che trovava, non parlava più con nessuno se non solo per inveire, come fanno certi vecchi, con chiunque incrociava. La gente del palazzo diceva che aveva pure cominciato a bere.

Dopo le cose, cominciò a portarsi a casa anche degli animali che trovava in giro, gatti e cani, e a lasciare sul pianerottolo cose da mangiare. La gente del condominio provò con le buone a farla ragionare. Ma lei non ne voleva sapere. C’era una puzza indicibile e si era cominciato a vedere anche qualche topo.

La storia finì malissimo. Dopo parecchi interventi dei vigili e dei carabinieri, e qualche ricovero in tso (trattamento sanitario obbligatorio), la signora perse la casa e tutto ciò che aveva.

Allora non riuscivo a capire come fosse stato possibile tutto questo. In fondo, pensavo, era una donna alla quale non mancava niente. Ma non era così. La solitudine è la malattia del nostro secolo: da un giorno all’altro ti ritrovi senza nessuno, completamente solo. E tutto sfuma di giorno in giorno.

Basta anche
un sorriso

Molti conoscono il “barbonismo di strada”, quel fenomeno che riguarda persone per le quali casa è la strada: nessuna regola, nessun affetto e legame, una vita fuori dagli schemi convenzionali, anche se spesso vissuta non per scelta, ma determinata da eventi drammatici e da una povertà estrema. Meno evidente, ma altrettanto drammatico, è anche il fenomeno del “barbonismo domestico”, nel quale lo stesso stato di isolamento e di abbandono viene vissuto all’interno delle mura della propria abitazione, che diventa allo stesso tempo rifugio e prigione.

Questa forma di esclusione sociale non riguarda solo persone anziane o adulte. Anche i giovani ne sono coinvolti. Il temine “hikikomori” (“stare in disparte”), usato in Giappone per indicare adolescenti e giovani che evitano qualsiasi contatto diretto con il mondo esterno, è ormai diventato familiare in tutto il mondo. Anche in Italia, soprattutto dopo la pandemia, i casi si sono moltiplicati.

Ad ogni modo si tratta di una forma di povertà estrema, nascosta dietro la porta di una casa. Per affrontarla occorrono persone appositamente formate. Ma anche ognuno di noi può fare la sua piccola parte. Innanzitutto smettendola di vivere come estranei, facendo finta di non sapere che dietro quella porta c’è una persona sola. Può bastare anche solo un saluto, un sorriso, una piccola dimostrazione di attenzione, per mostrare che “fuori” ci sono persone per le quali ogni vita ha valore e merita di essere vissuta.

I sacchi neri
della spazzatura

Il sacchetto nero dell’immondizia era lì, mezzo pieno. Sembrava che mi guardasse e aspettasse che si compisse il suo destino. Ricambiavo lo sguardo e, tra me e me, dicevo: «Tanto domani scendo e butto anche quello di oggi». Mi ero accorto che da un po’ di tempo avevo sempre meno stimoli ad uscire di casa. Mi trascinavo pigramente dal letto al divano e sempre più raramente mi lavavo. Erano mesi che non facevo una doccia completa. Giustificavo me stesso dicendo che il getto dell’acqua funzionava a intermittenza.

Quando uscivo era solo per comprare il minimo indispensabile alla sopravvivenza. Pane, pasta, olio (di semi)… era quello che mi potevo permettere con i pochi soldi che avevo. Da quando aveva chiuso l’edicola di Marisa, non prendevo più neanche il giornale, dove ormai leggevo solo i programmi della tv e poco altro. E quando le cose da mangiare cominciavano a scarseggiare mi inventato improbabili ricette come la pasta col rosmarino e l’erba cipollina.

Intanto i sacchi aumentavano di numero, di volume e di puzza. Per cercare di contenere il cattivo odore mettevo i sacchi dentro un altro sacco e un altro sacco ancora. Sacchi e scotch non mi mancavano! Ma di scendere e arrivare ai cassonetti non se ne parlava proprio.

Erano passati un paio di mesi dall’ultima volta in cui avevo buttato la spazzatura e i sacchi neri avevano cominciato ad occupare l’intera cucina. Pioveva, anzi diluviava. Iniziai allora a gettare dalla finestra al secondo piano un sacchetto, poi un altro e un altro ancora. Mi sentivo liberato. Verso sera, andai alla finestra e da dietro i vetri vidi che alcuni sacchi si erano aperti, forse erano stati strappati da qualche cane in cerca di cibo. Mi ritrassi come un ladro, colto in flagranza di reato.

Mi buttai sul letto e dopo vari tentativi riuscii a prendere sonno. Mi svegliai di soprassalto ed era mattina. Andai in cucina e mi affacciai alla finestra. I sacchi neri non c’erano più.

Splendeva il sole.

Quando la casa
è una prigione vera

Per ogni persona, casa e lavoro sono i capisaldi sui quali si basa la propria dignità e la propria appartenenza alla società civile. Quando uno dei due viene meno si finisce in un angolo. Si è messi all’angolo.

In carcere, la casa è una cella, dove lo spazio a disposizione è sempre insufficiente. Il più delle volte, condividi quel piccolo ambiente con altre persone e tutto diventa complicato soprattutto quando si profila una lunga detenzione. L’unico spazio “privato” è la cabina del telefono o lo spazio dove puoi incontrare i tuoi parenti quando ti vengono a fare visita. Allora ti accorgi che involontariamente diventi un oggetto. E ci vuole tanta pazienza e capacità di adattamento.

Per chi sta in carcere, avere all’esterno una casa vera è la “ricchezza” necessaria – così come la possibilità di svolgere un lavoro – per poter aspirare ai benefici dei permessi o della semilibertà e tener viva la speranza (che non è certezza) di poter un giorno espiare una parte della condanna fuori dall’istituto di pena.

Così, anche in quel luogo dimenticato dallo Stato che è il carcere, la casa e il lavoro sono importanti per la tua dignità e per il tuo reinserimento sociale. Così come dice la Costituzione. Ma questo non è il mondo reale.

Elio

Domenico

Fabrizio Salvati

Antonio

Angelo Zurolo

Furio

s.c.