Hic sunt leones
Un diritto

«L’istruzione è il grande motore dello sviluppo personale. È attraverso l’istruzione che la figlia di un contadino può diventare medico, che il figlio di un minatore può diventare dirigente della miniera, che il figlio di un bracciante può diventare presidente di una grande nazione.» A pensarla così è stato l’indimenticabile Nelson Mandela, mitico eroe nella lotta contro il segregazionismo razziale in Sud Africa. Come dargli torto? In effetti, come molti altri diritti, quello all’istruzione viene ormai dato per scontato nei Paesi appartenenti alle economie avanzate. Eppure si dimentica che spesso si tratta di un diritto negato in molte di quelle che, pertinentemente, Papa Francesco chiama «le periferie del mondo».
Sebbene negli ultimi anni l’istruzione nel continente africano abbia compiuto enormi progressi, tuttavia il cammino è ancora lungo. Le ragioni sono molteplici e meritano un’attenta disamina. Anzitutto occorre ricordare che le politiche di aggiustamento strutturale, concepite nell’ambito del Fondo monetario internazionale (Fmi) e della Banca mondiale (Bm) e imposte ai Paesi svantaggiati per poter accedere ai prestiti per lo sviluppo, penalizzarono fortemente i sistemi sanitari nazionali e l’istruzione. Esse trassero origine, così come le conosciamo oggi, da una serie di disastri economici globali durante la fine degli anni Settanta a partire dalle crisi petrolifere, del debito e dalle molteplici depressioni economiche. Se a ciò aggiungiamo l’instabilità geopolitica di vasti settori della macroregione subsahariana come i colpi di Stato, situazioni di belligeranza, corruzione e quant’altro, ancora oggi molti governi africani si trovarono in difficoltà nel reperire risorse economiche da investire nell’istruzione.
A tale proposito occorre ricordare, come già scritto ripetutamente su questo giornale, che il covid-19 ha fortemente penalizzato il sistema scolastico africano, un po’ a tutti i livelli: dalla scuola primaria all’università. A causa della chiusura delle attività didattiche imposta dall’applicazione delle misure governative di contrasto alla diffusione del coronavirus, secondo le stime di Save the Children quasi 263 milioni di bambini della scuola materna e secondaria — ossia circa il 21,5 per cento della popolazione totale africana — non sono stati in grado di frequentare la scuola.
Oggi, la situazione continua a essere fortemente critica per gli effetti devastanti dell’impennata dei tassi d’interesse a livello globale, a seguito della crisi russo-ucraina, che rende sempre più difficile la ricerca di fonti di finanziamento alternative per molti Paesi africani. Questo si traduce per i Paesi poveri non solo nell’assenza di un welfare degno di questo nome, ma anche di infrastrutture (strade, scuole, ospedali), necessarie sia alla lotta contro la povertà, sia alla creazione di condizioni atte ad avviare lo sviluppo. Secondo il report Transforming education in Africa (2021) dell’Unicef, il deficit educativo del passato si sta riversando sul presente. Basti pensare che una persona su tre nella fascia di età compresa tra i 25 e i 64 anni risulta analfabeta, e sono principalmente il settore centrale e quello occidentale del continente a contare il maggior numero di analfabeti, soprattutto per quanto riguarda la popolazione adulta. È evidente che in molti casi l’analfabetismo dei genitori diventa inevitabilmente uno dei principali fattori che ostacolano la scolarizzazione dei figli, ripercuotersi negativamente sul loro futuro.
Inoltre, secondo il rapporto Generation 2030 Africa 2.0 dell’Unicef, entro la metà del secolo nel continente africano si raggiungerà una cifra di un miliardo di bambini e adolescenti al di sotto dei 18 anni. C’è da chiedersi a questo punto quanti di essi riceveranno l’istruzione primaria e secondaria di base. Considerando che già oggi, su una popolazione di un miliardo e 400 milioni di abitanti, l’età media è di 20 anni, si comprende immediatamente la reale dimensione del problema.
A tutto ciò occorre aggiungere che l’accesso all’educazione scolastica rimane ancora una sorta di miraggio per non poche ragazze e giovani donne rispetto alla controparte maschile della popolazione che rappresenta la maggior parte degli studenti in grado di raggiungere i più alti livelli di istruzione. Questo disallineamento di opportunità tra maschi e femmine è una vecchia storia che affonda le sue radici nel passato e che si procrastina nel tempo. Ad esempio, già nel 2015, uno studio della Banca mondiale rilevava che il mancato investimento nell’istruzione femminile minava il miglioramento della condizione delle donne, rivelandosi un’occasione mancata per la loro emancipazione. Come osserva Sofyene Meddourene, esperto di geopolitica africana, «quando una parte della popolazione è marginalizzata, perseguire lo sviluppo diventa complesso, così come un accesso scolastico iniquo preclude alle donne l’ingresso alle cariche istituzionali con una conseguente riduzione della produzione di politiche che mirino a ridurre questa divisione di carattere sociale».
Naturalmente la sfida educativa per l’Africa, non può essere valutata solo in funzione delle iscrizioni avvenuta in questi anni, sia nelle scuole primarie e secondarie come anche nelle università, ma anche e soprattutto riflettendo sul binomio “scuola-lavoro”. A questo proposito vi sono numerose ricerche che evidenziano la non scontata correlazione tra l’innalzamento del livello di istruzione e l’acquisizione di un posto di lavoro. Le ragioni sono molteplici. In primo luogo, in Africa è diffusa l’occupazione informale, vale a dire che molte persone lavorano al di fuori dell’economia ufficiale ed è più probabile che un laureato senza lavoro risulti “disoccupato” rispetto a chi lascia la scuola primaria senza avere un’occupazione. In secondo luogo, i laureati sono spesso penalizzati dalla mancata industrializzazione dell’Africa, dalla debolezza sistemica del settore imprenditoriale privato autoctono e da quello del pubblico impiego.
Una cosa è certa: in tutto questo ragionamento è importante ricordare l’impegno dell’areopago missionario che nell’azione evangelizzatrice ha promosso e continua a promuovere il diritto allo studio.
Kwame Nkrumah, primo premier e poi primo presidente del Ghana indipendente, oltre ad essere stato il grande visionario del “Panafricanesimo”, non perse mai occasione per elogiare il contributo educativo della Chiesa cattolica finalizzato al progresso dell’Africa. Egli ebbe modo di parlarne in un incontro privato con il fututo Papa Montini quando quest’ultimo ancora ricopriva la carica di sostituto della Segreteria di Stato. D’altronde, Nkrumah era stato egli stesso allievo dei missionari e poi insegnante nelle loro scuole. Nel 1957, intervenendo in una conferenza agli universitari a Friburgo in Svizzera, lo statista ghanese disse queste testuali parole riportate fedelmente in Africa, A Christian Continent (Friburgo 1958): «La persona che mi ha presentato ha detto che io sono il responsabile del ridestarsi di questo grande continente. Credo che non sia vero. Se vogliamo considerare la situazione in modo più esatto, debbo dire che i responsabili della presa di coscienza di noi africani sono stati i missionari cristiani con le loro scuole». Indubbiamente, questo è uno dei tanti motivi per cui ancora oggi dobbiamo essere orgogliosi dei nostri missionari e delle nostre missionarie.
di Giulio Albanese