· Città del Vaticano ·

Intervista al cardinale Josef De Kesel in occasione della presentazione del suo libro

Cristiani
nella società moderna

 Cristiani nella società moderna  QUO-224
29 settembre 2023

Viene presentato questo pomeriggio alle 17.30 a Roma, all’Ambasciata del Belgio presso la Santa Sede, alla presenza dell’autore, il cardinale Jozef De Kesel, arcivescovo emerito di Mechelen-Brussel, il libro Cristiani in un mondo che non lo è +. La fede nella società moderna, della Libreria Editrice Vaticana (Lev). Dopo i saluti dell’ambasciatore Patrick Renault e del responsabile editoriale della Lev Lorenzo Fazzini, intervengono l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, e Massimo Borghesi, docente di Filosofia morale all’Università di Perugia, moderati dalla vaticanista del Tg3 Vania De Luca. Si tratta del primo libro tradotto in italiano del cardinale De Kesel, biblista e teologo che ha insegnato a Gand e a Lovanio. L’edizione originale francese è stata pubblicata nel 2021. Lo abbiamo intervistato alla vigilia della presentazione e della sua partecipazione al Concistoro e al Sinodo dei Vescovi che si apre il 4 ottobre.

Il suo saggio parte dalla constatazione che oggi non viviamo più in una società cristiana, ma che questo non significa la fine del cristianesimo. Anzi, questa crisi, scrive, si può rivelare come una grazia e un kairos per la Chiesa. In che modo?

Si, è veramente un kairos. A una condizione: che accettiamo di non essere più la religione culturale dell’Occidente. Viviamo in un mondo che non è più una società cristiana omogenea, ma pluralista, dove ci sono dei concittadini che hanno un’altra convinzione religiosa o non sono credenti. Nel passato, quando rappresentava la religione di tutti, ancora nel xix secolo, la Chiesa non era favorevole alla libertà religiosa. Adesso non è più possibile. Per poter vivere insieme, è necessario rispettare l’altro. Papa Francesco lo ha già detto più volte: non viviamo un’epoca di cambiamenti ma un cambiamento d’epoca. L’ascesa della cultura moderna ha cambiato la situazione. La Chiesa non è il mondo ma vive in mezzo alle nazioni. Dobbiamo accettarlo. Non perché siamo obbligati, ma con il cuore. La Chiesa non deve vivere necessariamente in un mondo cristiano e la situazione attuale presenta veramente un kairos, non per una pastorale di riconquista, ma di presenza. Come la comunità dei monaci di Tibhirine, che in Algeria erano presenti in un ambiente musulmano, senza nessun desiderio di proselitismo, ma come testimoni autentici del Vangelo con una grande amicizia e solidarietà nei confronti dei musulmani. Una Chiesa che non si impone. Una Chiesa più umile, più fraterna, più sinodale. Solo a questa condizione, la situazione attuale diventa veramente un kairos.

Al tempo stesso lei considera la tendenza alla privatizzazione della fede come un attacco al cuore della fede cristiana. Perché?

Nel mio libro invito la Chiesa ad accettare la secolarizzazione, non come un nemico o un ostacolo alla nostra missione, ma come una situazione normale, nella quale la Chiesa può vivere e compiere la sua missione. Con questo non voglio dire che la secolarizzazione non ponga nessun problema. Come la religione, anche la secolarizzazione può radicalizzarsi, e diventa secolarismo. E c’è una grande differenza: il secolarismo non nega la possibilità della fede, ma dice che la fede non ha nessun significato per la società. La religione ha senso solo per la vita privata. È la tesi della privatizzazione della religione in una società secolarizzata. Nello stesso tempo in cui difendo la secolarizzazione, dico no a questa privatizzazione. La mentalità secolarista chiede alla Chiesa e ad ogni religione di non occuparsi delle grandi sfide del mondo e della società: la povertà, l’ingiustizia, la violenza e la guerra, la crisi ecologica, la migrazione. E questo si oppone radicalmente al Vangelo e alla tradizione bibliche. Non si può separare l’amore verso Dio dall’amore per il prossimo. Affermare che il messaggio del Vangelo non ha niente da dire sulle grandi sfide della società, fa perdere alla Chiesa ogni credibilità.

Lei si augura per il futuro una Chiesa umile, più piccola, più professante e aperta. Riusciremo a costruirla? Ci potrà aiutare anche il prossimo sinodo?

Sono quattro parole veramente importanti per il futuro della Chiesa. Una Chiesa più umile: nel passato, quando era la religione culturale, aveva anche molto potere e molta influenza. Non è più il caso, ma non è grave, ed è normale. Forse lo viviamo come una crisi o una prova. Ma tutto questo rende la Chiesa più umile, e l’umiltà si trova al cuore del Vangelo. Una Chiesa più piccola, non necessariamente una minoranza: non rappresentiamo più tutti e non occupiamo più tutti gli spazi. E anche una Chiesa più professante, che non ha paura della sua identità e della sua missione. Che testimonia la gioia del Vangelo. Infine, una Chiesa aperta, non per adattarsi a tutte le evidenze di una cultura secolarizzata. Ma aperta al mondo e alle sue sfide e sofferenze. Non so se ci riusciremo, dipende dalla nostra risposta alla crisi. Se non siamo pronti a convertirci e a comprendere i segni dei tempi, credo che non saremo in grado di affrontare le sfide. È vero che questo non si fa in un giorno. Ma credo anche che il sinodo può essere di grande aiuto. E il suo tema è proprio la conversione e la riforma della Chiesa. Il sinodo riprende lo spirito del Concilio. Certo, riforme strutturali sono necessarie, ma si tratta prima di tutto di una conversione dello spirito. Non è per caso che Papa Francesco parla del pericolo del clericalismo. Una Chiesa sinodale significa al suo interno una Chiesa più fraterna, e nel suo rapporto col mondo, una Chiesa più umile. Una Chiesa aperta a quelli che cercano, che accoglie, non che condanna e vive sulla difensiva: e soprattutto che è solidale con gli uomini del nostro tempo, con le loro speranze e gioie e le loro tristezze e angosce.

di Alessandro Di Bussolo