· Città del Vaticano ·

Napoli, settembre 1943

Quattro giornate
gloria di un popolo

  Quattro giornate  gloria di un popolo  QUO-221
26 settembre 2023

Il 28 settembre 1943 tre soldati tedeschi in ritirata capitarono a villa Montesano, dimora nobiliare poco fuori Napoli, già residenza dei gesuiti e poi dimora del musicista Domenico Cimarosa. In questa villa, a causa dei bombardamenti alleati, in 866 casse di legno era stata trasferita gran parte del reale archivio di stato partenopeo.

Riferita ai superiori la scoperta dell’archivio, il 29 settembre un ufficiale tedesco si recò a villa Montesano per esaminare il materiale. Abitava nelle vicinanze il conte Riccardo Filangieri, il quale scrisse immediatamente una lettera al comandante tedesco, avvertendolo che il materiale depositato nella villa era d’immenso valore storico (vi si trovavano anche l’archivio angioino risalente agli anni 1239-40, e almeno 375 preziosissime pergamene e carte del regno di Sicilia). Inutile fu l’appello del conte Filangieri: il comandante tedesco Walter Scholl ordinò di bruciare l’intero archivio laddove si trovava, cioè nella villa stessa. Alcuni contadini capitati per caso in zona riuscirono a malapena a salvare undici casse di documenti. Filangieri avrebbe pubblicato un rapporto sulla distruzione di queste carte sull’«American Archivist», nell’ottobre del 1944.

È questo un episodio sintomatico della volontà distruttiva dei tedeschi, del loro voler fare terra bruciata di tutto ciò che si lasciavano alle spalle nelle fatidiche “quattro giornate di Napoli” (26-30 settembre 1943). Era la Napoli di Curzio Malaparte, delle divise ritinte «color di lucertola», cedute dagli inglesi al Corpo italiano di liberazione. Ma era molto, molto di più.

Per giungere a una sintesi di quelle gloriose giornate di resistenza italiana, occorre rubare agli storici Giovanni Cerchia e Isabella Insolvibile due basilari considerazioni. Anzitutto, le “quattro giornate” fecero di Napoli la prima città europea che si liberò da sola dall’invasore tedesco, senza aiuti esterni. E inoltre occorre uscire dal luogo comune dello “scugnizzismo”: Napoli si liberò per un concorso di popolo politicamente multicolore e socialmente caleidoscopico, nel quale i bambini non rappresentavano (lo ricorda Cerchia) che l’8,3% del totale dei combattenti.

Da ciò si ricava una terza considerazione: per quanto disordinata, la resistenza dei napoletani fu piena e insita a una popolazione che aveva patito sofferenze inenarrabili e che, proprio per questa ragione, non aveva ormai nulla da perdere, se non la vita lottando per la libertà.

Ciò era effetto degli errori della monarchia ma anche degli alleati. Come narra Tardini, «questi ultimi non avevano capito l’importanza della caduta di Mussolini e i vantaggi che ne avrebbero potuto subito ritirare». Mentre, d’altro canto, «fu colpa imperdonabile di re Vittorio Emanuele iii di non aver “in anticipo” negoziato con gli alleati la caduta di Mussolini. Avrebbe potuto farlo senza difficoltà, di nascosto, come di nascosto fece poi le trattative dell’armistizio. Il fatto fu che gli alleati appresero dalla radio la caduta di Mussolini: la loro tesi fu che era tutto un gioco e che non si sarebbero lasciati abbindolare».

Abbiamo illustrato quale fosse la ferocia dei tedeschi verso il patrimonio archivistico partenopeo. Possiamo immaginarla, in grado maggior, verso le persone. Come sappiamo, la rivolta napoletana esplose dopo varie avvisaglie per le ordinanze emanate dal comandante tedesco della piazza di Napoli, Walter Scholl, il 22 settembre 1943, e dal locale prefetto Domenico Soprano. Si chiedeva agli uomini abili al lavoro di mettersi al servizio dell’esercito tedesco. Un documento tratto dagli archivi inglesi ci informa del fatto che «particolarmente crudeli furono le misure contro quegli italiani fra i 18 e i 35 anni che mancarono di rispondere al proclama tedesco del 22 settembre, che chiedeva loro di presentarsi per il lavoro coatto nell’esercito tedesco». Il documento, redatto poco dopo la liberazione della città, e non destinato alla diffusione, stilava poi un elenco degli atti miserandi perpetrati dai tedeschi ai danni di Napoli. «Questo periodo è chiamato “il regno del terrore” dai napoletani. […] Napoli era famosa per l’abbondante dotazione di acqua sorgiva. I tedeschi hanno fatto saltare l’acquedotto principale in sette punti e tutte le riserve, tranne una, si sono prosciugate. […] Del pari il nemico ha distrutto gli impianti di pompaggio, rendendo così impossibile portare l’acqua, se mai ce ne fosse stata disponibile, alle zone più alte della città».

Stessa sorte era toccata agli impianti elettrici, sicché Napoli era al buio. Non diversamente era accaduto per il sistema di trasporto, con strade deliberatamente distrutte e tram e bus incendiati, sequestrati o resi inutilizzabili in altri modi. «I tedeschi portavano via ogni veicolo, automobile o camion che potessero trovare. In alcuni casi portarono via solo gli pneumatici e distruggevano o abbandonavano le carcasse dei veicoli. Neppure le ambulanze e i veicoli dei pompieri furono risparmiati».

A tutto ciò si aggiungevano la distruzione dei magnifici hotel sulla via Partenope (l’Excelsior, il Vesuvio, il Santa Lucia, il Royal), il blocco dei tunnel, il bombardamento degli edifici pubblici come università e ospedali, la distruzione dei mulini, e così via.

Compresso tra gli alleati che avanzavano da sud, ormai poco distanti da Napoli, e i tedeschi che distruggevano la città, rapinavano e uccidevano con atti di assoluto arbitrio e d’inutile crudeltà, c’era il popolo napoletano. Ed esplose quello che la Insolvibile ha efficacemente descritto come lo «sfastidio»: la noia, l’insofferenza e il disagio profondo che si trasformarono in azione e in ribellione, «la molla che ti fa scattare, che trasforma la rassegnazione in frustrazione e poi rabbia, presa di posizione, opposizione, rivolta».

Civili e militari, uomini e donne di ogni ceto e di ogni credo, si votarono alla liberazione di Napoli. Gli storici e gli archivi ce ne hanno consegnato i nomi. Tutti loro ben sapevano di star dando la vita per un ideale, e in molti la persero. Particolare crudeltà fu riservata alle donne. I documenti conservati negli archivi inglesi riportano testimonianze drammatiche del fatto che «le uccisioni di civili italiani non furono meramente atti di singoli soldati tedeschi, ma spesso furono eseguite in obbedienza a ordini diretti dei loro ufficiali, il tutto come parte di una campagna per terrorizzare la gente».

Furono persino collocate trappole esplosive che uccidevano, mutilandole, tante persone innocenti in luoghi pubblici frequentati anche dai bambini. Persone di rango elevato furono prese in ostaggio. Accadde persino al vescovo di Cava dei Tirreni, monsignor Francesco Marchesani, e all’abate dell’abbazia di Corpo di Cava, don Matteo Renato Ildefonso Rea, scoperti a ospitare nelle strutture ecclesiastiche molti rifugiati e ricercati. Lo fece del resto anche suor Maria Antonietta Roncalli, superiora del convento dei santi Pietro e Paolo, la quale (questo il racconto del partigiano combattente Carlo Ajello, reperito da Cerchia negli archivi) «teneva nascosti circa cento giovani, noncurante delle minacce dei nazi-fascisti»; e che, dinanzi alla soldataglia tedesca, giurò «sul crocifisso che nessun giovane era nascosto nei locali sottoposti alla sua autorità».

L’impeto di resistenza a Napoli non si consumò in quattro giornate. Per essere più precisi, si dipanò in oltre venti giorni. Bombe e devastazioni si sarebbero registrate anche dopo l’arrivo degli alleati e la liberazione della città. «Radio Berlino predisse alcuni giorni or sono un bombardamento di Roma da parte degli alleati — si legge in un rapporto per Eisenhower del 9 novembre 1943 (non contenuto nelle carte del generale). Aeroplano tedesco ha bombardato Napoli stessa sera».

Roma era la prossima meta. Ma ormai per Napoli e per la sua gente si apriva un altro futuro.

di Matteo Luigi Napolitano