
Nella scena finale del film Io Capitano, Seydou, il protagonista, parla finalmente “da capitano” al suo equipaggio e dice essenzialmente tre cose: «siete uomini, non potete fare così!», poi invita tutti a confidare in Dio, in Allah che può salvarci, e infine rivolgendosi ai primi soccorritori italiani, grida «Io capitano!» e che nessuna vita si è persa, nessuno è morto.
Tre frasi che sintetizzano efficacemente il film, drammatico, epico e fiabesco, realizzato da Matteo Garrone che mercoledì scorso è stato candidato agli Oscar. Un film importante che va visto e rivisto. E ad una seconda visione molte cose, piccoli dettagli, emergono, si rivelano e danno a pensare, come ad esempio questa sintesi finale racchiusa nelle parole di Seydou. Un protagonista poco loquace per tutto il film, che parla poco, con la bocca, ma con gli occhi (bravissimo l’attore, Seydou Sarr, meritato il premio Mastroianni) esprime tutto quello che passa nel cuore di un adolescente che ha un sogno nel cuore. E il sogno non è solo quello della felicità e del successo, che immagina di trovare in Italia, ma è anche quello che nessuna vita umana si perda. Seydou cammina per tutto il film e la sua figura si rivela progressivamente come quella di un moderno buon samaritano, sempre pronto a soccorrere chi cade, chi rischia la vita, chi non ce la fa più. Pagando di persona. Stando lì vicino a chi soffre, con una presenza dolce, calda, semplicemente umana.
Ecco perché dice quelle parole: siete umani! Per ricordare, a se stesso e agli altri, cosa vuol dire “essere umani”. Chi è veramente uomo non si può comportare così. Così come? Come si vede anche nella scena finale ma soprattutto durante l’intera arcata narrativa del film: da animali.
E qui emerge un dettaglio che era sfuggito alla prima visione: il ruolo delle donne. Il film si apre e si chiude con due donne, anzi con due mamme. Nella prima parte del film si vede la famiglia e il villaggio del Senegal che Seydou sta abbandonare. È una lunga sequenza dominata dalle donne. Di Seydou e dell’amico Moussa non si vedono i padri, ma, ben presente lì nella sua carnalità, al centro della scena spicca la figura della mamma del protagonista. Tra i due scoppia un conflitto, proprio sulla decisione relativa al viaggio. La vediamo solo qui, nella breve parte iniziale del film ma in realtà questa donna accompagnerà Soydou per tutto il viaggio. È lei la forza che spinge Seydou che continua a sognarla proprio nei momenti più terribili.
Da questa donna madre e matriarca si arriva alla seconda mamma, una giovane ragazza che partorisce nella nave nell’ultimo tratto del viaggio di Seydou che lo vede finalmente “uomo”, veramente “capitano”. Fino a quel momento sembrava aver subito un po’ tutto di quello che gli capitava, lo stesso viaggio sembra più un’idea dell’amico Moussa che un suo progetto. Seydou è un ragazzo che cerca di far felici tutti, il che vuol dire, essenzialmente, in quel contesto, di farli vivere e mantenerli in vita. Questo per lui è essere capitano: salvare vite, custodirle, vegliare su di esse. Commovente è il momento in cui Seydou ritrova, dopo un’odissea nell’odissea, l’amico Moussa, ferito, annichilito, spaesato. Lo abbraccia, gli accarezza la testa e gli parla con dolcezza del loro vecchio sogno. All’inizio Moussa sembra non riconoscerlo, la testa quasi penzolante, priva di coscienza.
Ricorda da vicino la scena del finale de Il cacciatore di Michael Cimino, con Michael (De Niro) che abbraccia l’amico Nick (Walken) ormai perso e lo riporta per un attimo, l’ultimo, in vita, ricordandogli le amate montagne. Un gesto materno quello dei due amici, Seydou e Michael che tengono stretto nelle mani il volto dell’amico perduto e ritrovato. Le donne, dunque. Lo scatto finale il “neonato capitano” Sydou lo fa quando vede questa seconda donna che sta per diventare mamma. Lì diventa finalmente quello che era destinato a essere, un uomo adulto, serio, affidabile perché responsabile. In mezzo tra queste due figure di maternità che, come fari, sospingono il cammino del giovane senegalese, c’è l’orrore, il buio, la ferocia degli uomini. Degli uomini maschi. Non ci sono donne per tutta la parte centrale del film, ci sono uomini che, per lo più, sono mercanti di altri uomini. Li vendono e li usano, se serve li torturano, tutto questo solo per denaro. Ci sono alcune piccole eccezioni luminose a questa regola, ma per tutto il film quello che lo spettatore vede è l’abisso che, per avidità, l’uomo può raggiungere.
Al punto che quando il capitano Seydou deve calmare la furia del suo equipaggio ormai disperato e sbandato e scuotere le loro coscienze, può fare solo una cosa: invocare Allah, l’unico che può salvarci. E a quel punto tutti li ascoltano. Sanno bene che l’uomo, da solo, non si salva, lo hanno saputo sulla propria pelle. Resta la domanda se anche le coscienze degli spettatori si lasceranno scuotere dalle parole del capitano Seydou.
di Andrea Monda