· Città del Vaticano ·

A colloquio con Éric-Emmanuel Schmitt sul suo ultimo libro dedicato a Gerusalemme

Nella città dove tutto
è iniziato (e nulla finisce)

Eric-Emmanuel Shmitt, Jerusalem, photo by Afif H. Amireh
21 settembre 2023

«Imparare di nuovo a camminare» è il verso conclusivo della poesia Visita al Santo Sepolcro, di Jean-Pierre Sonnet, gesuita, biblista e poeta belga che ha dedicato il suo ultimo libro a Gerusalemme, La città dove ogni uomo è nato (Bologna, 2023, pagine 100, euro 9, traduzione di Carlo Albarello). Regalo questo libretto appena uscito per i tipi della Marietti a Éric-Emmanuel Schmitt, anche lui reduce dalla città tre volte santa e autore di un libro-reportage su questo «strano viaggio cominciato parecchi anni fa». Nella sede della Lev, coeditrice insieme alle Edizioni e/o de La sfida di Gerusalemme. Un viaggio in Terra Santa (pagine 160, euro 17, traduzione di Alberto Bracci Testasecca, arricchito da una lettera di Papa Francesco all’autore) uscito in questi giorni,  m’incontro con lo scrittore francese per conversare e partiamo proprio da quel verso di Sonnet che insiste sul camminare per diventare «angelo di una notizia felice». La notizia felice è, dice Schmitt, che «io sono cambiato: quando sono arrivato al Santo Sepolcro qualcosa di totalmente inaspettato è successo, qualcosa che non avevo mai immaginato: ho sentito con i miei sensi la presenza di un morto di 2000 anni fa, del mistero del cristianesimo, fondato su di un morto vivente, ne ho fatto esperienza».

Guardo quest’uomo di 63 anni, pieno di energia che sprizza da ogni poro, con le spalle grandi e il volto da pugile che incornicia due occhi vivaci, acuti come quelli dei bambini in preda ad una gioia misteriosa e mi viene spontaneo chiedergli conto di questa felicità, di fare un bilancio di questo viaggio tanto a lungo atteso, perché tutto convergeva nella vita di Schmitt verso questa città, sin da quando nel 1995 aveva scritto il romanzo Il Vangelo secondo Pilato.

Lei era partito alla volta di Gerusalemme, scrive all’inizio del libro, «per dare un corpo alla mia fede», è avvenuto proprio così?

Sì. Quando ero in procinto di partire mi trovavo come sulla soglia di un desiderio, quello di camminare nei luoghi dove tutto è cominciato e tutto ha preso forma. E alla fine del libro devo registrare e raccontare che ho incontrato questo corpo, il suo odore, la sua consistenza. Ho provato a descrivere a parole l’esperienza vissuta al Santo Sepolcro e non è stato facile ma posso dire che il viaggio si è compiuto perché ha dato corpo alla mia fede. Prima avevo una fede intellettuale, mentale, basata solo sulla lettura dei quattro Vangeli e sulle mie ricerche sulla storia del cristianesimo. Ho riconquistato la dimensione fisica, materiale, della fede, che è fondamentale. È stato un regalo, una grazia che mi ha sconvolto e che mi sta cambiando.

Il libro descrive efficacemente tutta la fatica nell’accogliere l’impatto della Terra Santa, così affascinante e respingente allo stesso tempo. Quando arriva a Nazareth si trova costretto a scrivere: «Nazareth è uguale a mille altri luoghi. Ho percorso migliaia di chilometri per trovare la banalità». E qualche pagina più in là formula l’ipotesi di una vera e propria “la sindrome di Nazareth” che esprime «la sproporzione tra il punto di partenza e quella di arrivo».

Questa è stata forse la prima lezione del pellegrinaggio: scoprire lo straordinario in mezzo all’ordinario. E ha cambiato il mio sguardo perché ora penso che non ci sia nulla di ordinario. Arrivato a Gerusalemme la cosa si complica ulteriormente. Lì trova un muro e trova le condizioni perfette per una tragedia, dimensione – scrive — questa ben diversa dal dramma...

Infatti, la tragedia è quando non sembra esserci soluzione nel conflitto tra due posizioni egualmente legittime, il dramma è il racconto semplificato da parte di chi rifiuta la complessità, e oggi proliferano i mercanti del dramma. È pieno infatti di persone che hanno una soluzione semplice per un problema complesso. Ma la realtà è che le nostre vite spesso sono tragiche, dove le persone si contrappongono e le posizioni opposte hanno tutte una propria legittimità. È la condizione umana: due legittimità nello stesso tempo, come espresso in quel grande film di Jean Renoir, Le regole del gioco, dove il protagonista dice «il guaio a questo mondo e che tutti hanno le proprie buone ragioni». La tragedia qui a Gerusalemme ha un nome: fratricidio. Si è persa la consapevolezza di una fratellanza originaria, si è persa la memoria del padre comune. Una città, Gerusalemme, dove le pietre sembrano riuscire in qualcosa che gli uomini sono incapaci di realizzare: la coesistenza. Senza recuperare quella consapevolezza, dell’essere «fratelli tutti», si apre la porta al fratricidio. Se la fratellanza si indebolisce prevale il fratricidio. I fratelli diventano fratricidi quando dimenticano che hanno un’origine comune, quando uno crede che l’inizio della sua vita coincida con lui. La soluzione passa tramite la conoscenza reciproca, il sapere che abbiamo una storia comune, anche a livello genetico, che riguarda anche, per esempio, israeliani e palestinesi: anche loro sono fratelli.

Dal livello sociale e politico, il libro scende ad un piano personale, interiore e riflette sul tema del rapporto tra fede e ragione e qui lei fa entrare in gioco anche il tema della libertà. 

Sì, perché penso che l’uomo occidentale abbia dato troppo peso alla ragione ed essa tende a soffocarci mentre la religione ci offre la libertà perché è una proposta, a cui si può dare o no l’assenso. Lo so, è impertinente la mia posizione ma penso che sia proprio così. La ragione non lascia spazio alla libertà. E qui cito il “mio” Pilato con la sua celebre domanda: «Cos’è la verità?» per far comprendere che non mi sta a cuore la verità della logica, che si muove nel campo della necessità e non riguarda la mia libertà, non mi interpella; due più due fa quattro, punto. La realtà invece è per sua natura eccedente. A questa eccedenza risponde molto meglio la religione, anche con la sua “incertezza” di cui parla Pascal. La religione passa attraverso la libertà, niente ci rende più liberi della religione. Quando ho vissuto l’esperienza mistica nel deserto o al Santo Sepolcro ero libero di accettare o di rifiutare. E avrei anche potuto giustificare l’esperienza con spiegazioni emozionali o psicanalitiche, ma il fatto è che questa esperienza ha sollecitato la mia libertà.

Infatti, nel libro afferma che «a differenza della ragione che sottomette il nostro spirito, la religione sollecita la nostra libertà, le presenta una visione, un programma, valori, riti e spera nel suo consenso», però poi aggiunge che alcuni detestano questa libertà.

Infatti, e sono due tipi di persone, opposte tra loro, che rifiutano la libertà: i nostalgici della ragione, atei e agnostici, e i nostalgici di un’idea della religione integralista, fondamentalista. Due posizioni ideologiche, opposte che convergono. Entrambe non amano la libertà della religione, sono “allergiche” all’incertezza. Questa incertezza possiamo chiamarla anche “mistero”, qualcosa non di ignoto ma di incomprensibile. Il mistero è qualcosa che non si capisce ma si sente e può dare da riflettere e da sperare. Il mistero è dinamico, cresce insieme a te, anzi ti fa crescere. Come scrivo nel libro «continuo a non capire il mistero tanto quanto prima, ma lo percepisco intensamente. La mia fede è diventata un assenso alla realtà». Guardando la mia realtà devo riconoscere di aver ricevuto due doni straordinari, nella “notte di fuoco” nel deserto e dentro il Santo Sepolcro sono stato “visitato”. Credere per me oggi non è più ipotetico. Posso costruirmi a partire da ciò che ho ricevuto. Ora posso dire che la mia vita è costruita su questa capacità di stupirmi, di sentire tutto come fosse la prima volta: quando scrivo o dirigo per il teatro, quando scrivo un romanzo... in ogni cosa cogliere la novità, la freschezza, un po’ come fa Oscar il bambino protagonista di un mio vecchio romanzo.

Presentando il suo libro a Roma il cardinale Tolentino è partito da questo splendido passaggio: «Il mio cristianesimo non costituisce un sapere, ma un modo di abitare ciò che la mia ragione ignora. Grazie a esso mi dirigo attraverso una foresta, l’oscura condizione umana. Sempre a tentoni, ma con sempre più luce». Un’immagine quasi dantesca della vita vista come «selva oscura»...

Quando ero ateo vedevo la condizione umana simile a quella del labirinto in cui ci si smarrisce e da cui non si esce. Adesso la vedo come un cammino, anzi, come un passaggio. Il cammino è oscuro però ci sono delle luci per proseguire nel cammino e per uscire. Per questo ammiro molto le persone che sono profondamente atee, perché pensano che per fare luce hanno soltanto la lampada che loro stessi hanno fabbricato. Io la lampada, l’ho ricevuta. Gli atei attraversano la vita con coraggio, io l’attraverso con fiducia.

Questa sfida di Gerusalemme di cui lei parla è legata al fatto che, come scrive nel libro, «Gerusalemme ci sveglia. O meglio, Dio ci sveglia attraverso Gerusalemme» e più avanti: «Il luogo in cui tutto è cominciato, niente è finito». Una città aperta, che non chiude e non può essere chiusa in definizioni, ma dispiega una potenza vitale e, nel suo cuore, una promessa.

Esatto, perché Gerusalemme siamo noi, gli umani. Capaci di tirar fuori il meglio ma anche il peggio di noi stessi. Questa città è un concentrato delle diversità e delle contraddizioni umane: fraternità e fratricidio, il muro e il ponte. E quindi può parlare a tutti gli uomini: al cristiano, all’ebreo, al musulmano e al non credente. Quando ho attraversato Gerusalemme la città mi chiedeva: chi sei? Alla fine del viaggio rispondevo: “sono cristiano” e, sempre alla fine, ero ancora più io stesso di prima ed insieme sentivo l’obbligo di riconoscere gli altri. Gerusalemme è una chiamata, nello stesso tempo, ad approfondire la propria identità e a rispettare l’identità degli altri. Un luogo unico.

Alla fine lei risponde alla domanda di Gesù «chi dite che io sia?» e dice che da ragazzo pensava a Gesù come a un mito, poi ammetteva che era un profeta, da più grande è arrivato ad affermare che era un filosofo, infine oggi può mormorare che è il Figlio di Dio». Questo verbo, “mormorare”, è un richiamo biblico, la teofania di Dio a Elia sul monte Oreb...

Credo alla forza del mormorare, del sussurrare. Uno si fa capire meglio dall’altro quando mormora rispetto a quando grida. Abbiamo bisogno di parlare sottovoce e smettere di gridare, perché parlare così, con un mormorio leggero, crea l’intimità. È come nella musica, bisogna lasciar spazio ai diversi toni, alle sfumature, e anche al silenzio.

Infine, la nudità. È un tema che torna spesso in queste pagine. Gli uomini, scrive, vivono i tre momenti più importanti della vita, da nudi: nascere, amare, morire. E questo libro appare come una lunga confessione, un mettersi a nudo. Forse perché Gerusalemme è una città che mette a nudo?

In un primo tempo la città provoca il contrario, un istinto, un desiderio di protezione, di avere una corazza di difesa, ti trasforma in un carapace. Ma dopo aver frequentato la città, essa ti porta a essere quello chi siamo. È un rituale iniziatico questa città. Io ero già stato in qualche modo a Gerusalemme, quando ho scritto Il Vangelo secondo Pilato, ma oggi ho vissuto l’esperienza concreta, fisica. Anche se scrivere è un’esperienza per me molto particolare, ha a che fare con il partorire e il nascere, perché la penna rivela i pensieri più reconditi di chi scrive. Quando mi capita di parlare e rispondere alle altre persone, anche su temi complessi, penso o parlo in modo molto netto, diretto, perché nella vita normale sono soltanto io. Ma quando prendo la penna e scrivo tutto diventa molto più complesso, perché non sono più io, ma sono gli uomini, sono in un terreno dove ci incontriamo tutti. Un po’ come è Gerusalemme.

di Andrea Monda