Il Vangelo
La complessa questione della libertà dell’uomo, di come essa si incarni nel travaglio storico dell’esperienza individuale, è l’inquietudine che agita il fondo della grande letteratura: che cosa significhi essere uomini liberi è, forse, la domanda che attraversa ogni grande storia. Attraversandola, si rivolge all’interpretazione del lettore, coinvolgendolo — talvolta persino suo malgrado — nel la drammatica di una risposta.
Forse non è banale e neppure inutile ricordare che la medesima domanda attraversa, proprio allo stesso modo, anche la Scrittura evangelica, rappresentando, con ciò, il nesso, l’anello di congiunzione tra due mondi, quello del la fede nel Dio di Gesù e quello della letteratura, apparentemente estranei. Ritornarci significa scoprire una buona ragione per la loro originaria complicità.
La semplice tesi, forse bizzarra, ma non azzardata, che soggiace a queste brevi note è che la letteratura sia uno degli strumenti necessari per vivere la fede. Per dirla in modo brutale: per coltivare una fede adulta, c’è bisogno di leggere le grandi storie. Qualche anno fa, con espressione diventata celebre, Carlo Maria Martini diceva di distinguere non tanto tra credenti e non credenti, quanto tra «pensanti e non pensanti». Personalmente, mi accorgo di essere portato sempre più a distinguere tra lettori e non lettori.
Il punto di forza di questa tesi è il riconoscimento che la scrittura evangelica è un testo narrativo (con pochissime eccezioni, che vanno comunque nella direzione del la poesia, non della dottrina). Più a fondo ancora, la scrittura evangelica non è solamente il testo con più alto rilievo dogmatico del cristianesimo, ma è il suo linguaggio fondamentale, la sua lingua madre, per così dire, quella lingua attraverso la quale il mondo cristiano ha imparato ad articolare tutte le altre (la liturgia, la teologia, il diritto). Così, di fatto, è stato e così dovrebbe sempre essere: il cristiano dovrebbe essere avvezzo al racconto ben prima che al catechismo, fin dai suoi primi passi. Non tutti i cristiani sono chiamati a essere teologi, ma nessuno che dica «Gesù è Signore» può farlo senza esse re stato l’ascoltatore o il lettore del grande racconto della storia di Gesù e di chi — amandolo o detestandolo, seguendolo o crocifiggendolo — lo ha incontrato.
A partire da questo, che è senz’altro noto, vorrei proporre due punti di vista che mi sembrano non scontati, due nodi in cui la questione della libertà e del suo racconto si svela come vincolo originario tra letteratura e Scrittura evangelica. A questi due nodi teorici farò segui re una scena evangelica, una sorta di icona che mi pare esserne simbolicamente sintetica.
La non-necessità della scrittura
Con tutti i limiti di ogni definizione, possiamo forse concordare sul fatto che la libertà è ciò che si oppone alla necessità, che libero è quell’uomo che, per quanto gli è possibile, si affranca dal necessario. Certo, difficilmente un pensiero sulla libertà può fermarsi a questa prima constatazione: senz’altro essere liberi significa anche ben altro. Non manca chi faccia notare, talvolta con accigliata severità, che la libertà non è la licenza, perché riguarda la destinazione della propria vita e non semplicemente la liberazione dai vincoli a essa imposti. Se corriamo il rischio di questa semplificazione, tuttavia, è perché da sempre l’uomo vuole destinare la propria vita liberamente, appunto, scegliendo ciò che non è vincolato da una necessità; ce lo ricorda, se non altro, la grande tradizione francescana, sin dai tempi del suo fondatore, che ha fatto della piccolezza, della non-necessità, persino di una sorta di follia, il cuore del suo carisma.
Ora, se c’è una cosa che accomuna la scrittura evangelica e la letteratura — in particolare quella stagione che è, a giudizio di molti, la vetta della letteratura europea, ossia la grande epoca del romanzo — è questo: entrambe avrebbero potuto non esserci. So di avere appena sostenuto la necessità della narrazione per il cristianesimo, ma si tratta di una necessità che si è generata da una libera scelta tra le infinite possibili. Siamo soliti leggere la storia come una serie di passaggi in qualche modo consequenziali l’uno con l’altro, come momenti successivi di una progressione meccanica, quasi geometrica. Senza voler qui proporre una filosofia della storia — ma anche senza dimenticare che, spesso, finiamo per abbracciarne implicitamente una — vorrei sostenere che questa non-necessità merita di essere pensata, se vogliamo comprendere la scrittura alla luce della libertà. Vangelo e romanzo sono stati due eventi liberi, senza alcuna necessità, due eventi che, nel loro libero sorgere, hanno generato una necessità. È andata così, per fortuna.
Ci sono pochi processi “naturali”, nella storia della cultura. Che la scrittura umana sia fatta per raccontare storie, ad esempio, non è affatto un’evidenza incontrovertibile. Moltissime civiltà, nonostante avessero la scrittura, non scrivevano le loro storie. La Persia achemenide, ad esempio, aveva istituzioni elaboratissime, aveva una formidabile visione di un’umanità universale, aveva un senso molto profondo della pluralità delle culture e si era sviluppata in quel magico pezzo di mondo in cui sono nate le prime scritture umane. Eppure non ha mai scritto le sue storie. Esse venivano probabilmente raccontate oralmente, tra mandate di generazione in generazione, ma non scritte. La scrittura cuneiforme persiana (elamitica, in un primo momento, poi babilonese), che troviamo sulle le epigrafi monumentali di Persepoli o di Pasargade, dava voce alle stupefacenti plastiche degli edifici. La sua lettura chiedeva sempre una presenza, anche solo nella forma di una statua o di un bassorilievo, di una auctoritas, di un magister. Era rito e non mito. L’Avestā, il testo sacro dello zoroastrianesimo, così come ci è giunto, dopo una complessa storia redazionale, non contiene storie ma preghiere, massime e riti: se lo paragonassimo ai libri cristiani, sarebbe una sorta di salterio, non di vangelo. Se sono esistite religioni senza narrazioni, allora la scrittura evangelica, narrazione della scena originaria della vita di Gesù, non esiste per qualche forma di necessità intrinseca all’atto di fede. D’altra parte, c’è stato, nella storia del cristianesimo, anche chi ha creduto prima che i quattro vangeli fossero stati scritti.
Quando si parla della scrittura evangelica, si tende a sottolineare la sua vicinanza alla vicenda storica di Gesù: implicitamente, secondo un principio storiografico quasi scontato, più la narrazione è prossima all’evento che attesta, più è autentica e credibile. Questo è senz’altro vero, ma non è notevole. Ben più interessante, infatti, è accorgersi che la scrittura della vita di Gesù si è fatta strada solo in seconda battuta, in un tempo in cui la comunità dei cristiani aveva già elaborato (ce lo mostrano le lettere paoline, più antiche dei vangeli) una sua primitiva teologia, una sontuosa innologia, una liturgia propria e una struttura organizzativa e gerarchica. La cronologia della storia redazionale dei quattro vangeli, pur con differenti sfumature, è chiarissima su questo. Se ci fosse concesso romanzare un poco le vicende della prima comunità cristiana, potremmo dire così: a un certo punto i discepoli si accorgono che, tra i margini delle cose necessarie (pregare, organizzare la vita, pensare la fede), rischiava di perdersi l’essenziale.
Se ne stava lì, tra i bordi dei primi testi cristiani, il racconto della vicenda umana di Gesù e, insieme ad essa, dell’incerta fede dei discepoli, delle loro fragilità, della fatica di comprenderlo e riconoscerlo. Non sappiamo esattamente come, ma si decise che questa storia, fino a lì affidata dai testimoni oculari, dovesse diventare un testo, accessibile alla lettura e alla proclamazione nel mondo e nel tempo. Quando diventò un testo, probabilmente, il racconto dovette anche essere purificato da tante incrostazioni narrative che si erano andate costruendo attorno ad esso (i vangeli apocrifi ne sono una buona dimostrazione) e riportato il più possibile alla sua originaria semplicità. Quando diventa scritto, il Vangelo è una cosa nuova, inedita; da allora si erge, indimenticabile, al cuore della vita cristiana. Per tutto questo, noi dobbiamo ringraziare un’intuizione, una coraggiosa scelta di libertà, non un meccanismo.
Similmente, il romanzo non esiste per una fatale evoluzione della letteratura: avremmo potuto non averlo. Sono sempre esistiti (e ancora ne esistono, senz’altro) uomini liberi, maturi e consapevoli che non hanno mai aperto un romanzo. Eppure non possiamo ignorare che queste storie, oggi, ci siano. Guido Mazzoni, nel tentativo di descriverne l’origine, tra novel e roman, lo definisce come il modo in cui «raccontare qualsiasi storia in qualsiasi modo»; lo descrive come un genere del tutto particolare, che non ha una precisa identità tematica, ma che sorge, per così dire, a partire da tutto ciò che avanza, dai margini delle necessità che caratterizzavano gli altri generi letterari. Il romanzo nasce quando già la letteratura sembrava aver riempito tutti gli spazi del racconto umano: quello della tragedia, della commedia, dell’epica. Fin dai suoi inizi medievali — quell’improbabile intreccio tra il mondo cavalleresco e il mondo monastico — si nutre degli interstizi, si colloca nei bordi, negli spazi liberi e dimenticati. Gli eroi dei romanzi cavallereschi, i soldati di ventura, erano in fondo la periferia del mondo feudale, i secondogeniti che non ereditavano la terra. Da lì in poi, sempre più, si incomincia a raccontare “qualsiasi storia” in “qualsiasi modo”: in particolare si narra della vita quotidiana, degli uomini comuni (che non avevano avuto narrazione se non come maschere della commedia) con la stessa serietà dell’epica. Persino i romanzi più maturi, che sono ben rappresentati dalle opere di Dostoevskij, hanno ancora la stessa pretesa di raccontare ciò che nessuno aveva raccontato: la santità dei derelitti.
Il romanzo vive, dunque, grazie a un’opera di libertà, che apparecchia uno spazio nuovo, grazie ad autori che, probabilmente, hanno dovuto sgomitare per crearlo e, poi, ancor di più per mantenerlo vivo.
Ora, mi pare che questa figura di un luogo che, pur non rispondendo ad alcuna necessità, tuttavia diventa necessario, questo prodigio di un luogo libero che, una volta apparso, diventa vitale, intoni le frequenze di un contrasto. Con una luminosa intuizione, Silvano Petrosino, ha definito la letteratura «contro la cultura», aggiungendo: «per fortuna». Contro, per il filosofo, significa tanto contro la razionalità moderna (che si edifica su concatenamenti necessari), quanto contro la filosofia (contro ciò che Jean-Luc Nancy chiama la sua infinita chiacchiera). Parafrasando Petrosino, vorrei aggiungere: «contro la teologia, il vangelo, per fortuna».
La torsione delle libertà
Il contrasto è forse una torsione. La parabola del romanzo, così simile alla parabola della scrittura evangelica, dimostra una cosa: all’esperienza si torna sempre, con coraggiosa scelta, in seconda battuta. Alla carne della storia dell’uomo comune e persino alla carne di Gesù si torna in un secondo momento: questa mi sembra essere una caratteristica della narrazione. Altro che “fascino della diretta”: per comprendere la vita si deve compiere una torsione, ci si deve girare indietro, come riparando dalla colpa di averla già superata.
Ricordo un passaggio che mi ha colpito alcuni anni fa, in un testo di Emanuele Trevi, una elegante riflessione letteraria e laica sul tema delle virtù. Trevi commenta una delle grandi icone della carità, la figura di San Martino, a partire da un affresco di Simone Martini che raffigura la nota scena del taglio del mantello. La posizione del cavallo mostra che il santo soldato, nel momento del dono, ha superato il povero, è già andato oltre: per donare la metà del suo mantello è costretto a una torsione: «Si tratta di rivolgersi indietro, dunque, di rifare un cammino già per corso senza alcun frutto». La carità — riflette — ha forse sempre questa forma: un ritorno su ciò che era stato dimenticato, una svolta rispetto al peccato di essere andati oltre, di avere avanzato senza indugiare. Una conversione dal necessario (la meta di Martino) verso ciò che era stato ignorato (il povero), ma anche verso un passato che era parso irrilevante, non necessario: per capire la vita occorre accorgersi che siamo in difetto nei suoi confronti, siamo in debito di attenzione. Avanzare da uomini, talvolta, significa avanzare retrocedendo, come i figli di Noè (quelli saggi) di fronte alla nudità del padre. In fondo anche i discepoli, di fronte al Risorto, dovettero compiere la stessa torsione, dopo aver dato per scontato il fallimento, la fine, dopo avere letteralmente messo una pietra sopra la loro storia con Gesù. I racconti della risurrezione sono una conversione, un ritorno — inizialmente riluttante — alla sua morte. Prima ritorno di donne al sepolcro, poi di uomini che vogliono verificare i vaneggiamenti delle donne, infine ritorno di tutti al pensiero della sua morte, alle sue ferite mai realmente comprese. Senza questa torsione, nessuna resurrezione è possibile.
Il segreto della libertà che irraggia nella letteratura e nella scrittura evangelica, è il ritorno su ciò che era perduto, su ciò che avremmo potuto perdere. La libertà dell’uomo è questa torsione, forse è soprattutto libertà di tornare indietro, alla storia passata, mai realmente conclusa, per sprigionare ciò che in essa giace nascosto.
Una medesima forma di libertà, dunque, una medesima conversione della libertà accomuna la letteratura e la scrittura evangelica. Con ciò non voglio, bene inteso, accampare i diritti del cristianesimo sul romanzo: esso l’ha spesso osteggiato mettendo all’indice molti capolavori, condannandone gli autori; ha colpe storiche evidenti nei confronti della letteratura. Ma è giunto il momento di superare la colpa e di voltarsi, come Martino sul povero. Può essere l’occasione per riscoprire, una complicità necessaria tra la letteratura e il cristianesimo, magari ricominciando a raccontare le storie di chi, clandestinamente, ha coltivato il le game e ha mantenuto vivi i contatti un po’ di straforo.
Anche la moderna scienza dell’anima, la psicoanalisi, è essenzialmente memoria e narrazione; essa costruisce fin dal suo sorgere una figura di razionalità inseparabile dalla clinica del racconto e dalla guarigione della memoria. Michel De Certeau sostiene che questa è la grande scoperta di Freud, una scoperta di cui Freud forse non fu all’altezza, perché si scontrò con la pretesa di scientificità della nascente disciplina:
Curiosamente, mentre Freud si nutre dell’Aufklrung scientifica del xix secolo e si dà appassionatamente da fare per ottenere il riconoscimento della “serietà” del modello accademico viennese, sembra essere preso alla sprovvista dalla sua stessa scoperta.
La letteratura contro la cultura, il vangelo contro la cristianità, la narrazione contro l’Aufklrung. Viene da chiedersi se non sia giunto il tempo di girarci tutti insieme e di superare questa aporia moderna, questi contro, nei quali la hybris di saperi necessari condanna l’esperienza del soggetto ad essere inaffidabile e irrilevante. Magari provando a fare fronte comune contro il vero grande nemico che si staglia all’orizzonte: la disumanizzazione e il tramonto della libertà.
«È questo il mio figlio, l’amato»
Esiste una scena della vita di Gesù in cui tutto ciò affiora con singolare evidenza: la pericope evangelica del battesimo al fiume Giordano. Si tratta di un episodio su cui i vangeli sinottici sono particolarmente concordi, seppure con alcune differenze di intonazione. Mi sembra particolarmente interessante notare che il passaggio, oggi piuttosto innocuo nella predicazione, ha avuto un ruolo centrale in una stagione rilevantissima della storia della teologia, attorno al iv-v secolo. Si tratta dei secoli delle grandi controversie cristologiche, durante i quali sono stati costruiti, elaborati, perfezionati i fondamenti della teologia cristiana, così come oggi la conosciamo. Tra le molte questioni, sono soprattutto in gioco due grandi opzioni: la visione adozionista o ariana e la visione cattolica della divinità del Figlio. In breve, si trattò di capire se Gesù sia diventato Figlio di Dio per una singolare elezione, per un atto adottivo da parte del Padre o se lo sia dall’eternità increata. Non entro nel merito, ovviamente, anche perché immagino che tutti ne abbiamo conoscenza, seppur vaga.
Ciò che rende la scena dal battesimo fondamentale, soprattutto per gli ariani e per gli adozionisti, è la comparsa del Padre, che avrebbe in qualche modo elevato l’uomo Gesù a Figlio suo, pronunciando la frase: «È questo il mio Figlio, l’amato». Chiunque abbia seguito una visita guidata, anche minimamente approfondita, ai mosaici di Ravenna, ha probabilmente sentito illustrare le differenze tra il Battistero degli Ariani e il Battistero Neoniano, motivate (talvolta con qualche certezza di troppo) proprio dalla distanza dottrinale. Si fa notare, ad esempio, che nell’iconografìa ariana, l’acqua che scende su Gesù proviene direttamente dalla colomba dello Spirito, non dalle mani del Battista, come in quella cattolica. Quel che è certo è che, iconografia a parte, nel testo evangelico non vi sono prove evidenti, né a sostegno dell’una, né dell’altra tesi. Se il mondo cristiano ha optato per la divinità di Gesù «prima di tutti i secoli», non è a motivo di qualche sottigliezza esegetica: è la vita di Gesù tutta intera ad autorizzare questa decisiva scoperta della teologia. Di contro, la formulazione dogmatica torna a illuminare il testo evangelico e a indirizzarne la comprensione. Se torniamo nel merito del brano, infatti, ariani e cattolici finirono per leggere l’intervento del Padre, la sua voce dal cielo («È questo il mio Figlio, l’amato») in due moti opposti.
Per i primi la parola del Padre è performativa, crea una realtà che prima non c’era. Ovviamente tutto ciò è possibile: il Dio biblico, nel racconto della Genesi, crea il mondo parlando, poiché le parole di Dio, a differenza delle nostre, so no un tutt’uno con la realtà, sono al contempo vere e reali. La potenza della Parola del Padre e la grazia dello Spirito avrebbero, dunque, prodotto la divinità di Gesù, allo stesso modo in cui avevano dato vita alle cose al principio del mondo.
La posizione cattolica è più complessa: la voce del Padre, in questo caso, non è performativa, ma narrativa. Il Padre, al Giordano, non fa nulla, ma più semplicemente svela, indica a tutti una presenza divina che già da tempo abita, non vista, la storia umana. La voce dal cielo non trasforma l’uomo Gesù in un Dio, ma afferma qualcosa di simile: «C’è uno in mezzo a voi che è mio Figlio, era mio Figlio anche prima che ve lo dicessi, è mio Figlio anche se voi non lo riconoscete, sarebbe mio figlio anche se io non lo dicessi. Eppure è necessario che io parli per rendere possibile il vostro riconoscimento, la vostra fede e la sua missione, attraverso la mia predilezione: ora ascoltatelo!»
Il Figlio è uno di noi, era tra noi: lo abbiamo incontrato, ma non siamo stati in grado di riconoscerlo, gli siamo stati accanto e siamo passati oltre, proprio come Martino aveva fatto con il povero. La voce dal cielo non fa miracoli, dunque, non cambia la natura delle cose, ma svela l’eccedenza all’interno della vita, quell’eccedenza che nessuno aveva saputo vedere e verso cui, ora, tutti sono chiamati a voltarsi, in ascolto.
Questa funzione narrativa della Parola di Dio, non solo non è meno importante di quella performativa, ma soprattutto non intacca affatto la sovrana generatività di Dio. Egli, che ha creato il mondo parlando, ha dato inizio al suo riscatto raccontando.
Non a caso i vangeli ci dicono che Gesù, prima del battesimo al Giordano, non aveva ancora iniziato il suo annuncio del Regno, né operato miracoli, né aveva preso la parola: lo farà solo dopo che la voce del Padre lo avrà riconosciuto come Figlio, quasi che egli stesso fosse in attesa di questo racconto. Pur non creando nulla, la voce dal cielo ha generato tutto, pur non operando nulla, a tutto ha dato inizio. Ecco, dunque, il punto: gli inizi della salvezza sono già tra noi, si tratta solo di accorgersene. Alla luce di questo, la narrazione non è più solo la ratio dell’uomo, ma è anche la ratio della Rivelazione: alla narratività del Padre, dopo la Pasqua di Gesù, i credenti saranno chiamati a partecipare con una parola molto simile.
Credo che i cristiani si condannino a una sorta di impasse, quando dimenticano la potenza narrativa della parola di Dio; credo che, per questa dimenticanza, finiscano per perdere una postura spirituale fondamentale: quella torsione della libertà verso un Dio presente, sebbene non visto. Quando il cristianesimo contemporaneo parla di annuncio, di evangelizzazione, quando si assume il compito di combattere la secolarizzazione imperante, si ha talvolta l’impressione che finisca per farsi carico di un compito impossibile, che in nessun caso gli compete: quello produrre la presenza di Dio nella storia degli uomini. Neppure Dio produce Dio; forse si possono produrre le cose del mondo, ma la divinità non si crea poiché è, in senso forte e assoluto, da sempre: c’è già. Non si può guardare a Dio come se dovesse attendere da una parola (tanto meno la nostra) il permesso di esserci. Il tempo presente, la contemporaneità secolarizzata, non è il tempo a cui si deve “portare Dio”, ma quel tempo in cui — proprio come in tutti gli altri tempi della storia — c’è bisogno di una parola che lo indichi, che lo racconti presente là dove non avremmo mai pensato che potesse essere, là dove eravamo passati oltre. Se il discepolo vuole fare un buon servizio alla storia della salvezza, deve ricominciare da qui. Ecco, dunque, un ulteriore motivo per coltivare un’abitudine alla narrazione: essa ci consente di ritrovare una postura spirituale corretta. La testimonianza di cui il mondo ha bisogno non è creatrice, né performativa: è narrativa.
Ciò illumina un ultimo aspetto. L’autorità di Dio non è un’autorità che crea magicamente l’accesso alla salvezza: è, piuttosto, un’autorità che autorizza a trovarlo.
Autorizza — non sostituisce, né rimpiazza, né vanifica — la libertà dell’uomo, la sua vita quotidiana, la carne della sua esperienza. Autorizza la fede stessa a quella torsione nei con fronti dell’esperienza grazie alla quale l’uomo si scopre capace di Dio. Non è bene perderlo di vista, perché una figura di autorità capace, attraverso la narrazione, di generare la libertà è proprio ciò che più manca, oggi, alla nostra storia.
di Roberto Maier