· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
La misteriosa storia del “Great Zimbabwe” come metafora di un intero continente

I segreti di un impero africano

 I segreti di un impero africano  QUO-212
15 settembre 2023

La storia del “Great Zimbabwe” è avvincente e può essere considerata una delle grandi metafore della straordinaria ricchezza che caratterizza le civiltà africane. Per questo non possiamo fare a meno di raccontarla. Stiamo parlando di un insediamento urbano, anni luce distante dall’immaginario occidentale. La sua collocazione geografica è a circa 240 chilometri dalla capitale dello Zimbabwe, Harare, vicino al lago Mutirikwe e alla città di Masvingo. L’altitudine è di 1.140 metri sul livello del mare e l’ubicazione non è casuale: a settentrione e a meridione scorrono i fiumi Zambesi e Limpopo, mentre a oriente si trova la pianura costiera mozambicana dell’oceano Indiano, mentre sul versante opposto, a occidente, si dispiega il deserto del Kalahari. Dunque, una posizione strategica per la difesa e il commercio.

Ma andiamo per ordine. Nel 1867, in un giorno non meglio precisato, un cacciatore di nazionalità tedesca, un certo Adam Renders, rinvenne casualmente le rovine di una misteriosa città nel cuore dell’Africa australe. Sebbene egli non comprese di cosa realmente si trattasse, ebbe modo di parlarne a suo figlio e ad alcuni conoscenti i quali si resero conto dell’importanza di quel ritrovamento quando alcuni anni dopo, precisamente nel 1871, un suo connazionale, Karl Gottlieb Mauch, di professione esploratore e geologo, visitò il sito archeologico.

Fu proprio lui a darne notizia con grande enfasi e dovizia di particolari, sorpreso per l’imponenza delle antiche vestigia a cui si sforzò di attribuirne un’identità storica. Le mura dell’insediamento, a dir poco possenti e in alcuni punti alte 11 metri, erano state edificate utilizzando tonnellate e tonnellate di pietra granitica a secco, assemblate insieme con dovizia. In alcuni settori del complesso urbano le costruzioni gli apparivano così possenti da indurlo a scrivere in una missiva: «La città non può essere stata edificata dagli africani, poiché lo stile architettonico è troppo elaborato. È sicuramente opera di coloni fenici o ebrei». Le conclusioni a cui Mauch giunse furono condizionate dalla mentalità coloniale del tempo secondo cui le popolazioni autoctone non sarebbero mai state in grado di realizzare simili opere architettoniche.

Occorre comunque precisare che l’esistenza di questa città, denominata appunto “Great Zimbabwe”, era già stata segnalata precedentemente da numerosi viaggiatori lusitani, anche se poi ne era, per così dire, andata perduta la memoria. Infatti, fonti storiche portoghesi, risalenti al xvi secolo, furono le prime a parlare di questa misteriosa città. Il primo documento che menziona le rovine della città chiamando l’intera area archeologica nella lingua shona “Zimbabwe”, fu redatto nel 1531 da Vicente Pegado, capitano della guarnigione portoghese di Sofala, sulla costa dell’attuale Mozambico. Ecco cosa egli scrisse: «Tra le miniere d’oro delle pianure interne tra i fiumi Limpopo e Zambesi c’è una fortezza costruita con pietre di dimensioni meravigliose e non sembra esserci malta che le unisca...Questo edificio è quasi circondato da colline, sulle quali ve ne sono altre simili a esso nella lavorazione della pietra e in assenza di malta, e uno di essi è una torre alta più di 12 braccia [22 metri]. Gli indigeni del Paese chiamano questi edifici Symbaoe, che nella loro lingua significa corte.»

Pare comunque certo che Pegado ebbe informazioni riguardanti la localizzazione della città — direttamente o indirettamente — dall’esploratore e trafficante lusitano António Fernandes, esiliato in Africa per gravi crimini commessi in Portogallo, che aveva parlato dell’acropoli della città denominata “Imba huru” (“Grande recinto”), da lui visitata (probabilmente nel 1511 o 1515), situata sulla collina più alta, come fortezza del Regno Monomotapa, «fatta interamente di pietra e senza calcina». Il sito venne successivamente raggiunto da altri esploratori e missionari, i quali ritornando in Europa diffusero la voce di aver finalmente trovato il favoloso Paese biblico di Ophir, quello da cui proveniva la mitica regina di Saba.

A tal proposito, il sacerdote missionario domenicano João dos Santos riportò le seguenti considerazioni nella sua opera Ethiopia Oriental, pubblicata nel xvii secolo: «Sulla cima di questa montagna vi sono ancora frammenti di antiche mura e rovine di pietra (…) Gli indigeni assicurano di aver saputo dai loro antenati che un tempo questi edifici appartenevano al palazzo della regina di Saba. Dicono che in questa zona sono state ritrovate grandi quantità di oro, trasportato per nave lungo il fiume Cuamas fino all’oceano Indiano (…) Altri raccontano che le rovine appartengono a una residenza di re Salomone. (…) Non posso fare delle affermazioni certe, e tuttavia penso che il monte Fura o Afura potrebbe essere la terra di Ophir, da cui venne trasportato l’oro a Gerusalemme.»

Questa ipotesi è stata naturalmente smentita dagli studiosi in tempi recenti, a seguito dei diversi rilevamenti archeologici effettuati con il metodo del radiocarbonio e della dendrocronologia. Si ritiene che almeno alcune sezioni del complesso siano state realizzate addirittura intorno al v secolo d.C., mentre le restanti strutture, quelle storicamente più recenti, come nel caso del maestoso “Imba huru”, risalirebbero a un periodo compreso tra l’ xi e il xiv secolo d.C. Pertanto non vi sono assolutamente legami con Saba, regina di Ophir.

Detto questo, l’insediamento nel suo complesso nasconde non pochi segreti ancora da svelare. Ecco che allora, aggirandosi tra le rovine, ancora oggi si rimane impressionati dall’aura di mistero che circonda la città. La verità è che finora non si è ancora compreso come sia stato possibile costruire nel cuore dell’Africa australe edifici così grandiosi, collocati a un’altitudine tale in grado di evitare le punture della mosca tse-tse, diffusa invece nelle pianure costiere e nelle valli fluviali. Ad esempio, tra le strutture più appariscenti ve ne è una lunga oltre 200 metri, spessa fino a 5, alta una decina, composta di blocchi di pietra perfettamente intagliati che fanno pensare a conoscenze ingegneristiche di un notevole livello. Gli scavi compiuti in questi anni sull’area collinare su cui sorge l’insediamento urbano hanno consentito di stimare una popolazione complessiva compresa tra i 15.000 e i 18.000 abitanti, portando alla luce diverse aree abitative. Il cosiddetto “Imba huru”, all’interno del quale era collocata la residenza reale, è ancora in buono stato di conservazione. Durante gli scavi sono stati rinvenuti oggetti di vario genere: perle di vetro e porcellane provenienti dalla Cina e dalla Persia, oltre ad altri manufatti stranieri, che attestano i legami commerciali internazionali del Regno.

Esso si reggeva economicamente sull’allevamento e sull’agricoltura e gestiva un fiorente commercio aurifero verso le coste dell’oceano Indiano. Il sito, da cui come avrete ben compreso trae il nome lo Zimbabwe come Paese, è stato dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 1986. Oggi, il consenso più recente tra gli studiosi, sembra attribuire la costruzione del “Great Zimbabwe” ai membri della cultura Gokomere, che sono stati gli antenati dei moderni Shona dello Zimbabwe. D’altronde proprio la parola “Zimbabwe” significa “case di pietra” in Shona. Nel suo periodo di massimo splendore, il “Great Zimbabwe” faceva parte di una vasta e ricca rete commerciale, una sorta di federazione, con molti siti — circa 200 — sparsi nell’altopiano interno dell’Africa meridionale: da Manyikeni in Mozambico a Mapungubwe in Sud Africa.

Non sono ancora chiare le ragioni che hanno determinato la scomparsa di questa civiltà che potrebbero riferirsi ai cambiamenti climatici, come anche all’instabilità politica. Una cosa è certa: come abbiamo visto, i colonizzatori, quando rinvennero i resti del “Great Zimbabwe”, non vollero ammettere che quelle vestigia fossero la memoria di un glorioso passato Afro. Come osservò pertinentemente l’antropologo tedesco Herbert Ganslmayr, «non si voleva credere che la città fosse stata costruita da una popolazione africana». Un pregiudizio oggi ancora duro da scalfire.

di Giulio Albanese