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Nel film «Io Capitano» di Matteo Garrone l’odissea dei migranti africani vista in controcampo

Gli occhi di Seydou, i nostri occhi

 Gli occhi di Seydou, i nostri occhi  QUO-205
07 settembre 2023

Quella che vedrete è una storia di fantasia; ma i fatti raccontati sono tutti veri. Perché Io Capitano, l’ultimo, intenso e drammatico film di Matteo Garrone, presentato nel pomeriggio di ieri alla Mostra del cinema di Venezia e da oggi nelle sale italiane, non inventa nulla, mostrando senza sconti il dramma dei migranti africani che tentano di raggiungere l’Europa. In questa pellicola, di un realismo sconvolgente, c’è tutto: la dolorosa scelta di partire lasciando casa e affetti, le speranze di una vita migliore, il viaggio estenuante attraverso il deserto, la terribile prigionia nei centri di detenzione libici tra sevizie e torture, l’angosciante traversata del Mediterraneo su improbabili imbarcazioni; la disperante disillusione e la costante ombra della morte che incombe in ogni momento.

Ed è esattamente questa la trama del film, una sorta di odissea contemporanea che il regista affida a due ragazzi, i cugini Seydou e Moussa, che lasciano Dakar, capitale del Senegal, in cerca di un futuro. Non scappano da una guerra o da una vita di stenti, vogliono semplicemente vedere il mondo e coronare un sogno: amano la musica, sperano di avere successo in Europa, forse in Italia o in Francia. Non li fermano i racconti di morte di chi ha già fatto, senza riuscire, quello stesso viaggio e di chi comunque sa cosa li aspetta. Ci viene chiesto di seguirli, passo dopo passo, di muoverci alla loro stessa altezza, cambiando punto di vista. Garrone non concede nulla all’immaginazione e molta parte del film punta su ciò che accade dall’altra parte del Mediterraneo. Sullo schermo scorrono immagini che richiamano quelle che talvolta arrivano sui social e raramente sui grandi network dell’informazione. Come la foto, recente, di Dosso Fati e della figlioletta Marie, morte mentre attraversavano il deserto al confine tra la Libia e la Tunisia, che solo per un attimo ha squarciato il velo di silenzio sulla tragedia che si consuma nel Sahara; o come i filmati inviati dai carcerieri libici alle famiglie dei migranti per chiedere soldi per liberarli; video che mostrano violenze indicibili anche su minori.

Non è difficile, quindi, sovrapporre ai volti dei giovanissimi protagonisti quelli dei tanti migranti — uomini, donne, bambini — che vediamo arrivare sui barconi in Italia, Grecia e Spagna. Io Capitano è una storia che ne racchiude migliaia di altre; quelle raccontate da quanti sono arrivati vivi o hanno tentato la traversata, spesso portandosi dietro il devastante dolore di un lutto, la perdita di un figlio, una figlia, un fratello, una sorella, un padre, una madre, un parente, un amico, morti di sete e di fatica nel deserto, uccisi dalle percosse in una prigione, soffocati nella stiva di una imbarcazione stipata all’inverosimile di uomini, annegati nel Mediterraneo in attesa di un soccorso mai arrivato o arrivato troppo tardi.

In Io Capitano — che pure non manca di momenti di tenerezza e di sprazzi favolistici tipici del cinema di Garrone, con un sottotesto facilmente riconducibile a «Pinocchio», tra grilli parlanti, mangiafuoco, gatti e volpi, una fata e anche un Lucignolo — ci sono le vite sempre in bilico di chi è fuggito, la crudeltà di chi approfitta senza alcuno scrupolo della loro disperazione. Ma c’è anche, latente, il cinismo, ammantato di buone intenzioni, di chi, non riuscendo a trovare soluzioni politicamente gratificanti e pur sapendo cosa accade, chiede ad altri di fare il lavoro sporco, pagandoli. Uno strano «aiutiamoli a casa vostra», verrebbe da dire — anche se dei Seydou e dei Moussa questa stanca e sempre più vecchia Europa avrebbe disperato bisogno —, che ripulisce l’immagine, ma non le coscienze. Perché nel deserto e in mare si continua purtroppo a morire. Così come non si è certo fermato il flusso lungo la cosiddetta rotta balcanica, anche questo dramma portato alla ribalta di Venezia dal film di Agnieszka Holland Green border, che racconta un’altra odissea, quella dei migranti che arrivano in Belarus per raggiungere la Polonia, restando intrappolati al confine.

Garrone ha affermato di non aver voluto fare un film politico, ma di aver solo voluto raccontare una storia, a suo modo epica, in controcampo. Ma è indubbio che le immagini di Io Capitano, potenti e prive di qualunque retorica, squarciano lo schermo per colpire lo spettatore dritto allo stomaco, anche se l’obiettivo vero è la testa, per scuoterla dal torpore dell’assuefazione. Sì, perché in fondo ci si sta abituando agli sbarchi continui di migranti, ai naufragi, ai morti in mare, anche a ciò che succede in quel deserto così lontano, così come lontane sembrano le coste libiche, nella distorsione indotta da dichiarazioni demagogiche, che parlano alla pancia della gente e non al cuore.

Molte sono le scene che resteranno impresse di Io Capitano, un film che andrebbe proposto ai giovani, nelle scuole, e non solo. Immagini forti. Ma una in particolare colpisce più di altre, la meno cruda, ma la più toccante: il volto, solcato da una lacrima, della mamma di Seydou che ha appena compreso di non essere riuscita a dissuadere il figlio dal partire per quel maledetto viaggio, nonostante le sue impacciate rassicurazioni. In quella lacrima ci sono il dolore e la disperazione che tutti dovremmo sentire, almeno un po’, per le migliaia di Seydou e Moussa che non ce l’hanno fatta. E forse, cambiando punto di vista, cominceremmo a vedere il mondo con occhi diversi. E a capire.

E a proposito di sguardi, spesso la cinepresa indugia sul volto di Seydou Sarr, 21 anni, di Dakar come Mooustapha Fall (Moussa), sui suoi profondi occhi neri. In particolare nella scena finale quando, a bordo del fatiscente peschereccio che i trafficanti gli hanno imposto di condurre in Italia, rivendica a gran voce di essere riuscito a portare in salvo tutti, uomini, donne e bambini. Seydou è affetto dalla stessa malattia degenerativa che ha portato alla cecità la sua vera mamma. Ma dopo il film è arrivato in Italia, dove viene curato. Forse i suoi occhi si salveranno.

di Gaetano Vallini