· Città del Vaticano ·

Papa Francesco è arrivato in Mongolia

Con il piccolo gregge
di una terra sconfinata

 Con il piccolo gregge di una terra sconfinata  QUO-200
01 settembre 2023

Una giovane donna dagli occhi a mandorla, in abiti tradizionali di cotone e seta color rosso sgargiante, porge una coppa avvolta in una sciarpa azzurra a Papa Francesco, il quale vi attinge un pezzo di yogurt secco, alimento che da generazioni sfama i pastori mongoli nelle loro lunghe peregrinazioni attraverso la Grande steppa. Il Pontefice è appena atterrato all’aeroporto internazionale Chinggis Khaan di Ulaanbaatar e il primissimo impatto del suo viaggio in questo remoto Paese dell’Asia centrale, primo Pontefice a mettervi piede, è con le tradizioni nomadi di questo antico popolo, semplice, umile e frugale, ma orgoglioso della propria cultura.

La ragazza ha lo sguardo fiero della sua gente che da tempo immemore vive nella “terra dell’eterno cielo blu”, come la chiamano da queste parti. E proprio un cielo terso, con una temperatura insolitamente primaverile, ha accolto stamane il vescovo di Roma all’inizio del suo 43° viaggio internazionale. Tutt’intorno montagne, pascoli verdi e silenzio, quello stesso a cui aveva invitato poco dopo il decollo dall’Italia nel pomeriggio precedente, durante il consueto saluto ai 70 giornalisti presenti sul suo stesso volo. Dapprima parole di ringraziamento «per il lavoro che farete», poi il consueto giro lungo il corridoio, con l’ormai inseparabile bastone, per rivolgersi personalmente a ciascuno: con alcuni ha scambiato cordiali battute, da altri ha ricevuto doni, diversi dei quali particolarmente significativi: come la sciarpa bianca offertagli dall’inviato della testata web mongola «The Defacto Gazete» o la borraccia crivellata di fori di schegge che la giornalista spagnola di Radio Cope ha chiesto di benedire: appartiene a un soldato ucraino scampato a un’esplosione; l’ha portata in una chiesa di Leopoli per ringraziare Dio di essersi salvato, e lì è destinata a ritornare dopo la benedizione pontificia. Inoltre Francesco, su domanda dell’inviato dell’agenzia di stampa italiana Ansa, ha commentato la notizia della morte sul lavoro, avvenuta a mezzanotte, di cinque operai travolti da un treno nel Torinese, sottolineando come tali incidenti sono sempre una mancanza di cura, una calamità, un’ingiustizia, e che i lavoratori sono sacri.

Al termine il Papa ha voluto parlare di nuovo del viaggio e impugnando il microfono ha detto che «andare in Mongolia è andare presso un popolo piccolo in una terra grande. La Mongolia sembra non finire e gli abitanti sono pochi, un popolo piccolo [poco numeroso] di grande cultura. Credo che ci farà bene capire questo silenzio, così lungo, così grande. Ci aiuterà capire cosa significa, ma non intellettualmente: capirlo con i sensi». Perché «la Mongolia si capisce con i sensi», ha puntualizzato suggerendo di «ascoltare un po’ la musica di Borodin, che è stata capace di esprimere cosa significa questa lunghezza e grandezza della Mongolia». Eppure, sebbene la superficie sia immensa, ben 5 volte maggiore di quella dell’Italia, in questo Stato dell’Asia centro-orientale incuneato tra due giganti come la Federazione Russa e la Cina ci sono meno di tre milioni e mezzo di abitanti, che lo rendono uno dei Paesi meno popolati del pianeta, con una densità demografica di 2 persone per chilometro quadrato. L’assenza di sbocchi sul mare è infatti la causa di un clima subartico, estremamente mutevole e rigido, che rende inospitali diverse parti del territorio, nonostante la magnificenza paesaggistica, tra montagne punteggiate di bacini lacustri, vaste pianure erbose che poi degradano nell’arida steppa fino al più grande deserto freddo del pianeta, quello del Gobi.

Erede dell’Impero mongolo, uno dei più estesi della storia umana, fondato nel 1206, la nazione è stata poi una provincia cinese tra il xvii secolo e il 1921, quando conquistò l’indipendenza con l’aiuto dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss) con cui mantenne stretti legami geopolitici. Con la caduta dei regimi d’ispirazione comunista anche qui in Mongolia si ebbero manifestazioni di massa nell’inverno del 1990, che avviarono un incruento processo di liberalizzazione politica, sancito dalla nuova Costituzione del 1992, in cui venivano garantite libertà di espressione e di religione. Grazie allo spirito di apertura e di tolleranza che attinge ai valori dell’armonia e del dialogo così diffusi nel continente asiatico, nello stesso anno furono allacciate relazioni diplomatiche con la Santa Sede e tre missionari di Scheut giunsero nella capitale del Paese di tradizione sciamanica e a maggioranza religiosa buddista, in cui non c’era nemmeno un cattolico. L’implantatio ecclesiae iniziò in pratica da zero, tra difficoltà linguistiche e culturali, ma oggi, dopo soli trent’anni, il risultato è sotto gli occhi del Pontefice, che nonostante l’età e i problemi di deambulazione ha percorso oltre ottomila chilometri per incontrare il piccolo gregge della Chiesa locale: 1500 mongoli che costituiscono la ben poco numerosa, ma vivace e attiva, comunità locale.

In realtà le radici del cristianesimo qui risalgono almeno al decimo secolo, grazie alla diffusione lungo la “via della seta” di comunità nestoriane di tradizione siriaca. Purtroppo tale presenza è stata discontinua e solo dopo la caduta dei regimi d’ispirazione marxista poterono arrivare quei primi tre evangelizzatori della congregazione belga del Cuore Immacolato di Maria, a capo dei quali c’era il sacerdote filippino Wenceslao Padilla come superiore dell’allora missio sui iuris, divenuto dieci anni dopo primo vescovo del Paese con l’elevazione della stessa a prefettura apostolica. Fu il cardinale Crescenzio Sepe, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli e inviato speciale di Giovanni Paolo ii, il cui pontificato stava volgendo al termine, a conferirgli l’ordinazione episcopale. Il Papa polacco confidava nella lettera di incarico che il suo desiderio di recarsi in Mongolia non poteva realizzarsi e incaricava Sepe di essere i suoi occhi e la sua anima pastorale in un Paese in cui i cristiani erano uno sparuto gruppetto. Nella circostanza il porporato, che già era stato a Ulaanbaatar l’anno precedente per il decennale delle relazioni diplomatiche con la Santa Sede, dedicò anche la nuova cattedrale dei Santi Pietro e Paolo. A monsignor Padilla, morto d’infarto nel settembre 2018, è poi succeduto il missionario della Consolata di origine piemontese Giorgio Marengo, cui Bergoglio ha dato la porpora lo scorso anno, facendone il più giovane membro del collegio cardinalizio.

C’era anche lui, come sempre sorridente, ad applaudire il momento dell’atterraggio del velivolo con a bordo il Pontefice, che un paio d’ore prima di raggiungere lo spazio aereo mongolo aveva sorvolato quello cinese.

Quando l’Airbus A330 è apparso nell’area riservata al cerimoniale sulla pista dello scalo di Ulaanbaatar, subito sono saliti a dare il benvenuto a Francesco l’incaricato d’affari ad interim della nunziatura apostolica e il capo del Protocollo della Mongolia. Quindi il Papa è sceso con un ascensore a terra, dov’erano ad accoglierlo due donne: il ministro degli Esteri, Bettsetseg Batmunkh, e la giovane che gli ha offerto la tazza di yogurt prodotto con il latte di yak.

Attraversato il picchetto della guardia d’onore, con i soldati nella tradizionale divisa rossa, blu e gialla (i colori della bandiera nazionale) disposti su due file e dopo la presentazione delle delegazioni, il Papa e Batmunkh in due auto separate hanno raggiunto una sala dell’aeroporto per un breve colloquio privato.

Infine, sempre in macchina, Francesco si è diretto verso la sede di quattro piani della prefettura apostolica, sua residenza qui in Mongolia, nel distretto di Khan Uul, uno dei nove in cui è suddivisa la capitale, delimitata ai margini da quattro montagne sacre. All’arrivo nell’edificio di mattoni arancioni il Pontefice è stato accolto all’ingresso in un’atmosfera di festa dal personale e da alcuni fedeli che avevano preparato uno striscione blu: un bimbo gli ha offerto una stola, altri hanno intonato un canto; Francesco li ha salutati, intrattenendosi anche con un’anziana donna; poi una volta all’interno è stato salutato dallo sventolio di bandierine agitate da altri bambini e ha ricevuto in dono un mazzo di fiori.

Più “solitario” l’itinerario di una cinquantina di chilometri percorso nella circostanza dallo scalo aereo verso il centro cittadino: lungo la strada, naturalmente non il consueto bagno di folla dei viaggi internazionali, ma tanto verde, poche casette colorate in legno cavalli e mucche al pascolo e alcune ger, le tradizionali tende bianche a forma circolare usate dai pastori negli spostamenti al seguito del bestiame. La stessa capitale fu fondata nel 1639 come centro monastico buddista nomade, e solo dopo vari cambi di ubicazione e di denominazione, il più noto dei quali è Urga, nel 1778 si stabilì nell’attuale posizione a 1.350 metri di altitudine. Considerata la città santa dei mongoli, deve il nome attuale, che significa “Eroe Rosso”, a Damdiny Sükhbaatar, il leader rivoluzionario dell’indipendenza. Avvicinandosi all’agglomerato urbano, subito sono riconoscibili i dettami architettonici del realismo socialista, che ha governato il Paese per 70 anni fino alla pacifica transizione democratica: con una piazza centrale, edifici governativi monumentali, ampi distretti industriali che mandano fumo dalle ciminiere e grigie abitazioni a blocco per i lavoratori, oltre a istituzioni culturali ed educative. Ma oggi in questo tessuto si sono innestati gru e scheletri di strutture in costruzione, insieme ad avveniristici grattacieli di vetro, acciaio e cemento, come la Blue Sky Tower, alta 105 metri, che anche a motivo del traffico congestionato, contribuiscono a restituire l’immagine di una moderna metropoli caotica.

Resta comunque il fatto che un terzo dei mongoli sono ancora nomadi, dediti in prevalenza all'allevamento, minacciato dalla desertificazione dei pascoli. Ciò provoca una fragilità economica che si riflette in povertà e disoccupazione e soprattutto in un inurbamento sregolato. Perciò a mano a mano che si esce dal centro in direzione delle periferie, si finisce con l’imbattersi coi cosiddetti ger district, quartieri privi di fogne e di acqua corrente, formati dalle caratteristiche dimore itineranti delle famiglie delle steppe, che negli ultimi anni, sempre più numerose migrano verso la capitale, alla ricerca di una vita meno dura o a causa alla perdita di capi di bestiame. E poiché per molti i prezzi degli appartamenti sono proibitivi, allora la soluzione è piantare la tenda su un terreno libero; al punto che negli ultimi decenni la popolazione di Ulaanbaatar è triplicata, raggiungendo oltre il 40% di quella totale del Paese. Come hanno potuto constatare i membri del seguito papale che, insieme ad alcuni vescovi asiatici e ai giornalisti, nel pomeriggio hanno viaggiato per una quarantina di chilometri ai margini della città per raggiungere il Mongol Culture Park, sede di un evento denominato “Besreg Naadam”, consistente in manifestazioni folkloristiche tra danze, parate a cavallo, esibizioni di lotta e di tiro con l’arco, che è stato offerto dalle autorità governative locali per far conoscere meglio al mondo questa terra con le sue antiche tradizioni e gli sforzi compiuti per stare al passo coi tempi. 

dal nostro inviato
Gianluca Biccini