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Un prete, un profeta un maestro e uno scrittore che spezzava il pane dell’istruzione

 Un prete, un profeta un maestro e uno scrittore  che spezzava  il  pane dell’istruzione   ODS-013
02 settembre 2023

Mentre camminavo in via della Concilia-zione c’erano molti poveri seduti sui marciapiedi, quasi richiamati lì dalla sensazione di poter essere accolti meglio che altrove. Uno, in particolare, nero africano in elegante camicetta a fiori, urlava frasi inconsulte sullo sfondo della meravigliosa cupola, chiamando a raccolta chissà quali spiriti burloni, forse redarguendoli o desiderando istruirli. Avrei voluto domandargli: dimmi, come posso aiutarti? Di cosa hai bisogno? A ben pensare, stavo andando a chiederlo ad altri come lui.

Raccontare la storia di don Lorenzo Milani ai senzatetto di Palazzo Migliori, una trentina di ospiti in grande maggioranza uomini, ma con qualche donna, tutti seduti davanti a me nella terrazza a fianco del colonnato di Bernini, tre di loro assiepati in piccionaia ad osservare dall’alto: sembrava un’idea eccentrica di Piero, coordinatore di questo giornale, peraltro appoggiata da Carlo che, insieme a Marco, coordina la struttura gestita dalla Comunità di Sant’Egidio. Invece è stato tutto molto naturale: mi sono sentito immediatamente a mio agio, cenando insieme ai residenti come se fossimo vecchi amici. Alcuni già li conoscevo perché, qualche settimana prima, ero stato invitato a una riunione dove si discuteva di poesia e canzoni: difficile dimenticare i volti e le parole di quel primo incontro, con citazioni esotiche e creative, fra «Rose rosse per te» di Massimo Ranieri, «Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers» di Fabrizio De André e Paolo Villaggio e gli indimenticabili versi che Clemente Rebora dedicò in «Viatico» al soldato caduto “laggiù nel valloncello”. Pochi giorni dopo Leonardo, una volta appreso di un mio prossimo viaggio in Liguria, mi aveva spedito una bellissima mail raccomandandomi le tappe irrinunciabili che avrei dovuto fare nella sua amata Genova.

Cominciando a parlare del priore di Barbiana, ho avuto subito l’impressione di ricevere il dono unico e prezioso dell’au-tentica attenzione. Avendo sempre insegnato lettere negli istituti professionali per l’industria e l’artigianato, rivolto a ragazzi spesso difficili e poco scolarizzati, sono abituato a dovermi conquistare il silenzio, quindi apprezzo molto quando lo trovo, per così dire, già pronto.

Chi era don Lorenzo Milani, nato a Firenze il 27 maggio 1923 e qui scomparso il 26 giugno 1967? Un sacerdote, un profeta, un maestro e uno scrittore. Un sacerdote perché, se non avesse preso i voti al Cestello, il seminario fiorentino in riva all’Arno, rovesciando come un guanto la tradizione aristocratica da cui proveniva, con una madre ebrea che aveva preso lezioni di lingua inglese da James Joyce a Trieste, niente di quello che poi è successo sarebbe accaduto. Un profeta perché poco prima di morire, stroncato dalla leucemia a soli quarantaquattr’anni, ricoverato all’ospedale Carreggi di Firenze, disse al cardinale Ermenegildo Florit, che ne aveva ostacolato l’azione: «Io sono più avanti di lei di cinquant’anni».

Le persone dinanzi a me mostravano reale interesse per le vicende di quello strano prete di cui quest’anno celebriamo il centenario della nascita. Così, mentre parlavo, li vedevo assentire con implicita adesione sentimentale, prima ancora che intellettuale. E questo mi dava ulteriore forza per proseguire.

Don Milani aveva intuito cose che noi ancora oggi stentiamo a comprendere sul ruolo centrale che la scuola dovrebbe avere in ogni consorzio umano, sul necessario rinnovamento del linguaggio della Chiesa, sul rapporto coi giovani, sulla giustizia sociale, sulla storia italiana, sul pacifismo e sull’obiezione di coscienza. Un maestro perché credeva che il sapere serve solo per darlo. Chi tiene per sé la propria cultura, distillandola magari soltanto a vantaggio di pochi eletti, è destinato alla sterilità. Bisogna spezzare il pane dell’istruzione.

Questo passaggio, in particolare, che spesso mi capita di evidenziare nelle conferenze alle quali vengo invitato, non poteva non sommuovere gli animi di chi mi stava ascoltando con passione superiore alla norma. Giustamente Marco, al mio fianco durante il discorso, ha ripreso l’intuizione affermando il carattere corale di ogni apprendimento: in fondo era quello che stavamo cercando di realizzare, nel nostro piccolo, facendo scuola agli indigenti.

E infine don Lorenzo Milani, mi sono premurato di aggiungere, è stato anche, seppure sotto mentite spoglie, un grande scrittore del Novecento italiano, in forma epistolare, nel solco più puro della nostra tradizione (senza tornare ai testi petrarcheschi o a Santa Caterina da Siena, basti pensare a Ugo Foscolo, alle «Ultime lettere di Jacopo Ortis»), con una differenza essenziale rispetto a questi classici: non ricopiava in bella. Scriveva di getto e poi spediva, così come viveva: a fondo perduto, senza curarsi del risultato che avrebbe potuto conseguire, ma avendo fede nell’azione che stava realizzando.

Gli interventi degli astanti, nella seconda parte del caratteristico convegno, sono stati diversi: tutti precisi e puntuali. Chi ha rimarcato l’importanza della dimensione verbale, indispensabile per organizzare il pensiero. Chi ha sottolineato l’umanità milaniana, capace di trascinare gli ultimi della Terra verso una reale consapevolezza di sé stessi. Chi ha richiamato la matrice toscana del suo eloquio. Chi ha esaltato il coraggio del sacerdote fiorentino che pure restò, per quanto ribelle, sempre ubbidentissimo. Formidabile, in tale prospettiva, la riflessione proverbiale di Vasilj: «Meglio essere un povero pulito che un ricco sporco».

Così è stato facile per me chiudere citando la famosa lettera a Pipetta,
il compagno comunista, al quale
il priore ribadì la propria incondizionata amicizia tuttavia annunciando il futuro tradimento: «Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso».

Sarebbe stato questo il bel finale della nostra splendida serata romana, col venticello fresco e il cielo azzurro che spuntava come uno smalto fra le colonne di marmo, se non mi fosse rimasto in testa lo sguardo perso nel vuoto di molti altri barboni che ho incrociato tornando a casa, compreso quello del giovane africano che nel frattempo si era calmato, non gridava più, pareva esausto con le spalle appoggiate al muro del porticato.
«I poveri li avete sempre con voi»
(Mc 14,7).

di Eraldo Affinati