Per un docente scrivere dei propri studenti non è così semplice. Forse perché si svela qualcosa che, pur accadendo all’interno delle mura di un’aula, per quanto siano pubbliche, resta sempre intimo, nell’abbraccio tra professore e alunni. Ma, data la circostanza, è bene che i lettori sappiano di ragazzi straordinari.
Eravamo alla fine della scuola, quando non si distingue la fatica dell’anno passato dall’ardente desiderio di arrivare all’ultimo giorno. Le ore sempre più “lunghe” e svariati segni di impazienza da parte degli studenti e dei loro prof. Decisi, dunque, di far vivere una mattinata differente dalle solite. «Ragazzi, ho pensato di portarvi alla mensa della Caritas, a Colle Oppio. Cosa ne pensate?». Appena pronunciai questa domanda, l’entusiasmo si propagò sul loro viso. «Prof, ma che bello! Sì, ci piacerebbe tanto». Secondo la normativa una classe non può svolgere attività extrascolastica se non con il consenso del Consiglio di classe. Avvisando chiaramente prima la dirigenza, appena ci fu occasione, presentai la domanda ai miei colleghi. Su tre classi che volevo portare, firmarono il modulo solo per due. La terza classe, un quinto, non poteva partecipare: «Troppe attività ad aprile; hanno appena fatto la gita; ho fatto lezione solo poche ore con loro; hanno la maturità...». Il Consiglio pertanto decise.
Il giorno seguente riportai la notizia agli studenti. La classe alla quale non era stato dato il permesso rispose in un modo a me inaspettato. «Prof, ma non è giusto! L’esperienza alla Caritas vale molto di più di ogni lezione e spiegazione!... Se vogliono prepararci alla maturità dovrebbero permetterci di fare di più questo tipo di esperienze…».
Capendo che per loro era davvero importante e non un modo per non fare lezione, proposi di organizzare, senza permessi scolastici, il servizio alla mensa di Via Marsala, presso l’Ostello don Luigi Liegro, che si svolge la sera. La proposta fu tanto ben accolta che anche alunni che non si avvalevano della mia materia hanno voluto partecipare. E così un gruppo di giovani prossimi alla maturità hanno speso un pomeriggio svolgendo tutte le mansioni, con entusiasmo, dedizione, passione, come se l’avessero sempre fatto. Andai a trovarli, mentre svolgevano il servizio e vedere un gruppo di giovani, abituati a studiare latino e greco, lamentosi per ogni questione, con lo sguardo aperto e generoso verso ogni povero in fila per un pasto, posso assicurare che è stato eccezionale. Dicendolo con Italo Calvino: «Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore».
Da questa esperienza, mi sono interrogata sul rapporto che esiste tra giovinezza e povertà. Non proponendo una ricerca troppo scientifica, al momento mi interessa trovare parole che mostrino il tipo di legame che esiste tra questi due mondi, apparentemente distanti. La prima espressione che userei è legame originale. Sembra che tra i giovani e i poveri ci sia un rapporto antico, come dall’origine della storia umana, come se da sempre si capissero; possono passare generazioni, ma tra di loro c’è un linguaggio comune. Si può pensare alla storia di Andrea Riccardi, Biagio Conte o del recente Nicolò Govoni, nominato alla candidatura del Premio Nobel a soli 27 anni, per aver aperto scuole per minori rifugiati, in paesi poveri.
La seconda è legame di fascinazione. I giovani per il loro ancora informe, ma forse proprio per questo, più determinato senso di giustizia, sono fascinati dal mondo dove l’ingiustizia prende volto, e vogliono conoscerlo, renderlo concreto. Non si accontentano dell’idea. Cito Filo, studentessa del quinto, a cui era stato negato dai prof la partecipazione al servizio mensa: «Prof, mi sono sentita come quando ci sono i pranzi di famiglia, dove si riuniscono i parenti che non si vedono da una vita e ti trovi a versare acqua ad uno zio, o una cugina che non hai mai visto. In quella circostanza le distanze non esistono più, sentiamo solo di essere a casa. Ecco, per me è stato così!».
E per concludere, ma con il desiderio che questa domanda resti e apra gli occhi a infiniti mondi di alleanza tra giovani e poveri, direi legame di empatia. La sofferenza, il dolore e l’abbandono sono realtà che i ragazzi conoscono bene, e quando nei banchi di scuola riescono a trovare parole e gesti per saperli vivere, si alzano audaci e vanno a servire con animo leggero tutti coloro che nella propria vita ne hanno fatto una condizione radicale.
di Giuditta Bonsangue