· Città del Vaticano ·

I volti della povertà in carcere - 3

Antonietta

 Antonietta  ODS-013
02 settembre 2023

La terza tappa del viaggio tra «I Volti della Povertà in Carcere» è segnata dal ritorno nel raggio femminile, dove incrociamo sguardi di donne di tante nazionalità, velati da inquietudini diverse di cui ti accorgi al solo passargli accanto. Nel raggio c’è un giardino, uno spazio dedicato alla cura della persona, una sartoria, una saletta comune ricreativa e ogni cella è abitata come una casa in miniatura. La Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti ha creato, in collaborazione con la Direzione del Carcere di San Vittore, un laboratorio di ostie, che vengono prodotte da donne con condanna definitiva e donate ogni settimana a decine di chiese e istituti religiosi in tutta Italia. Quest’attività rieducativa consente alle detenute di ricevere un compenso minino, ma soprattutto di iniziare a pensare al futuro, oltre la prigione.

«E non abbandonarci alla tentazione,
ma liberaci dal male»

«Da dove devo iniziare?» mi chiede mentre si stringe nelle spalle e nel suo maglione di lana infeltrito. L’accento è subito familiare e le chiedo di raccontarmi qualcosa della sua vita. «Sono pugliese e ho quattro figli: due vivono a Rimini e sono educatori di ragazzi disabili, una a Torino e fa l’infermiera e l’ultimo studia per diventare frate a Reggio Calabria. Mio marito beveva e quando ero incinta di Pasquale (il più piccolo) mi ha colpita con un coltello ed è stato arrestato. Non mi bastava lavorare in campagna per mantenere i miei figli, facevo anche le pulizie, ma mi hanno sempre pagata pochissimo. Quando i miei figli sono andati via, mi sono trasferita a Roma per lavorare come badante».

Nel cortile che ci ospita ci sono qualche albero di agrumi, sedie e tavoli in pietra, panchine di ferro, la piccola statua di una Madonna con le mani giunte. Sembra il giardino di un vecchio manicomio da cui si vede solo un pezzetto di cielo grigio e le robuste grate di ferro davanti alle finestre dei piani superiori che incombono su questo finto senso di libertà. Da quelle grate, giovani detenute sghignazzano, gesticolano e, a voce alta, cercano di richiamare la nostra attenzione: «Pure noi vogliamo essere intervistate! Antonietta, cosa avrai da raccontare tu che sei così vecchia?».

Antonietta non è vecchia, ha 55 anni, però i suoi occhi sono anziani, il volto rugoso, le sue parole malinconiche e bisognose di consolazione. «Pasquale — prosegue Antonietta mentre i suoi occhi si velano di lacrime — si è avvicinato alla religione sin da piccolo, faceva il chierichetto e il nostro parroco diceva che sarebbe diventato prete. Il suo desiderio era di aiutare gli altri e ha deciso di diventare frate minore seguendo le orme di San Francesco».

Cerchiamo un fazzoletto e le parole giuste per avvicinarci al suo cuore ferito e alla sua povertà, che in carcere è ancor più manifesta, perché non ha vestiti e prodotti per lavarsi, non ha denaro per comprare nulla. Sua figlia ha provato a mandarle un contributo, ma ha sbagliato numero di matricola e i soldi le sono tornati indietro. Potrà lavorare in carcere tra qualche mese, rispettando i turni delle altre detenute, che intanto le prestano il bagnoschiuma e qualche sigaretta.

Le chiedo di raccontarmi perché è finita qui. «Ero in Puglia, nel 2017 mi hanno tagliato la borsa e rubato documenti, cellulare e chiavi di casa. Dovevo telefonare ai miei figli e ho comprato un telefono usato, che non sapevo fosse stato rubato. Nel 2023, durante una breve gita a Milano, sono stata arrestata davanti al Duomo dopo quasi sei anni dall’inizio del processo, fatto in mia assenza». «Antonietta — le chiedo — come sta in carcere? Le mancano i suoi figli?»

«In cella sono con altre tre detenute, una di loro sta male e non mi fa dormire. Faccio qualche attività, vado a Messa la domenica e la sera dormo presto perché mi annoio. Ieri ero triste perché pensavo ai miei figli, poi Suor Chicca mi ha stampato una foto di mia figlia e l’ho sentita vicina». Le chiedo se prega e in cosa spera. «Certe volte vorrei pregare, ma non so pregare bene. Mi ricordo il “Padre Nostro”. Pasquale mi ha dato il crocifisso che porto al collo. Qui dentro mi protegge. Solo pregare mi aiuta ad andare avanti».

«Arrivederci Antonietta, le auguro di iniziare presto a lavorare così il tempo qui avrà un senso! Se riuscisse potrebbe farsi assegnare ai laboratori di ostie che sono un luogo di rinascita e di pace, in cui non avrà bisogno di formule per pregare e per ritrovarsi. Sono sicura che suo figlio Pasquale sarebbe molto contento».

di Rossana Ruggiero