Lo scorso 5 agosto, durante il viaggio apostolico in Portogallo in occasione della Giornata mondiale della gioventù, Papa Francesco ha incontrato nel pomeriggio i gesuiti presso il «Colégio de São João de Brito», una scuola di Lisbona gestita dalla Compagnia di Gesù. Come di consueto nelle visite pontificie fuori dall’Italia ne è scaturita una conversazione il cui testo integrale, parzialmente anticipato questa mattina dal quotidiano “la Repubblica” viene pubblicato oggi, lunedì 28, sul sito de “La Civiltà Cattolica”, a firma del direttore, padre Antonio Spadaro. Nel corso del dialogo spontaneo, libero e diretto, il vescovo di Roma ha discusso con i suoi “confratelli” portoghesi sulle sfide generazionali, sulla testimonianza profetica dei religiosi, sulle tensioni intraecclesiali e sul senso dello sviluppo della dottrina, ma ha trattato anche questioni che riguardano la sessualità umana — incluse l’omosessualità e la transessualità —, la Chiesa del futuro e la sinodalità. Ha quindi approfondito il senso del suo appello perché nella Chiesa ci sia posto per «tutti, tutti, tutti». Pubblichiamo stralci delle risposte di Papa Bergoglio alle domande rivoltegli:
Il lavoro con i poveri, che nella Formula ignaziana è implicito, nella Compagnia ha però seguìto varie strade, varie piste; c’è stata anche qualche deviazione, ma è stata una ricerca molto intensa, soprattutto nel secolo scorso.
Ricordo che in Argentina – quando io ero studente – uno dei padri andò a vivere in una villa miseria, e lo guardavano un poco di traverso, un po’ come accadeva a padre Llanos a Madrid. Era considerato un pazzo. Ora non è più così. Oggi vediamo che la stessa spiritualità ci porta in quella direzione, verso un impegno con coloro che stanno ai margini: non solo al margine della religione, ma anche al margine della vita.
Poi, ai tempi di padre Janssens, sono nati i centri di ricerca e di azione sociale, che all’epoca hanno aperto un bel cammino di riflessione, e infine è arrivato l’«inserimento» diretto, la scelta di vivere con le persone povere. Perciò ho menzionato quel prete, uno di quelli che hanno avuto il coraggio di inserirsi. Oggi l’inserimento tra i poveri aiuta noi stessi, ci evangelizza. Sant’Ignazio ci fa fare un voto, quello di non cambiare la povertà nella Compagnia, se non per renderla più stretta. In questo c’è un’intuizione, uno spirito di povertà che credo dobbiamo avere tutti.
Insomma, che cosa c’è nella spiritualità ignaziana? Sì, c’è l’opzione per i poveri e di accompagnare i poveri. Ma forse è l’unico modo in cui si realizza la giustizia sociale? Non è il solo modo. Ci sono mille maniere di avvicinarci ai problemi sociali. L’inserimento, probabilmente, ha una splendida autenticità, perché significa condividere. E permette di conoscere e seguire la sapienza popolare (...)
I poveri hanno una sapienza speciale, la sapienza del lavoro, e anche la sapienza di assumere il lavoro e la sua condizione con dignità. Quando il povero si «incattivisce» perché non sopporta la sua situazione – ed è comprensibile –, allora possono farsi strada il rancore e l’odio. Anche quello è il nostro lavoro: nell’accompagnarlo, bisogna evitare che il povero se ne faccia travolgere, nella prospettiva di aiutarlo a camminare, a progredire e a riconoscere la sua dignità. Nei quartieri poveri ci sono problemi seri, che non sono più seri di quelli che a volte ci sono nelle zone residenziali, salvo il fatto che questi restano nascosti.
Ci sono problemi seri, ma c’è anche molta sapienza, nelle persone che vivono del loro lavoro, che hanno dovuto emigrare, che soffrono, e lo si nota da come sopportano la malattia, come sopportano la morte. La pastorale popolare è una ricchezza, e quindi quelli di voi che sono chiamati a svolgerla, fatelo di cuore, perché è un bene per tutta la Compagnia.
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La gioia che ho più presente è la preparazione al Sinodo, anche se a volte vedo, in alcune parti, che ci sono carenze nel modo di condurla. La gioia di vedere come dai piccoli gruppi parrocchiali, dai piccoli gruppi di chiese, emergano riflessioni molto belle e c’è grande fermento. È una gioia.
A questo proposito voglio ribadire una cosa: il Sinodo non è una mia invenzione. È stato Paolo vi, alla fine del Concilio, a rendersi conto che la Chiesa cattolica aveva smarrito la sinodalità. Quella orientale la mantiene. Allora disse: «Bisogna fare qualcosa», e creò la Segreteria per il Sinodo dei vescovi. Da allora in poi c’è stato un lento progresso. A volte, in modo molto imperfetto. Tempo fa, nel 2001, ho partecipato come Presidente delegato al Sinodo dedicato al vescovo come servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo. Nel momento in cui stavo preparando le cose per la votazione di ciò che era giunto dai gruppi, il cardinale incaricato del Sinodo mi disse: «No, questo non metterlo. Toglilo». Insomma, si voleva un Sinodo con la censura, una censura curiale che bloccava le cose.
Sul percorso ci sono state queste imperfezioni. Erano molte, ma al tempo stesso era una via che si percorreva. Quando si sono compiuti i cinquant’anni dalla creazione della Segreteria del Sinodo dei vescovi, ho firmato un documento redatto da teologi esperti in teologia sinodale. Se volete vedere un bel risultato dopo cinquant’anni di strada, guardate quel documento. E negli ultimi 10 anni stiamo progredendo ancora, fino a raggiungere, credo, un’espressione matura di ciò che è la sinodalità.
La sinodalità non è andare in cerca di voti, come farebbe un partito politico, non è una questione di preferenze, di appartenere a questo o a quel partito. In un Sinodo il protagonista è lo Spirito Santo. È lui il protagonista. Quindi bisogna far sì che sia lo Spirito a guidare le cose. Lasciare che si esprima come fece al mattino di Pentecoste. Credo che quello sia il cammino più forte.
A proposito di preoccupazioni, ovviamente una cosa che mi preoccupa molto, senza alcun dubbio, sono le guerre. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, in tutto il mondo le guerre sono state incessanti. E oggi vediamo che cosa sta accadendo nel mondo. Inutile che aggiunga parole.
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Voi dovete accogliere l’inquietudine dei giovani e aiutarli a svilupparla, affinché quell’inquietudine non si trasformi in un ricordo del passato. In altre parole, l’inquietudine deve potersi sviluppare a poco a poco. La Giornata Mondiale della Gioventù è una semina nel cuore di ogni ragazzo e di ogni ragazza. E quindi non può finire per diventare la memoria di una sensazione del passato. Deve approdare a un frutto, e non è cosa facile. Vi chiedo di proseguire, con i giovani che ci sono, ma anche con quelli che non hanno partecipato. Qui l’acqua è stata smossa per bene, e lo Spirito Santo ne approfitta per toccare i cuori. Ognuno di questi ragazzi ne esce diverso, questa «diversità» deve mantenersi. E ora tocca a voi: accompagnateli affinché si mantenga e cresca. È il momento di gettare le reti, nel senso evangelico della parola.