· Città del Vaticano ·

A cinquant’anni dalla morte di John Ford
Intervista al critico Alberto Crespi su Ford e l’epica cinematografica

Omero
nella Monument Valley

 Omero nella Monument Valley  QUO-196
28 agosto 2023

Una rilettura completa dell’opera del regista americano John Ford che scava nei personaggi, nelle trame, ma soprattutto nel mondo che quell’opera ha saputo costruire. Questo l’obiettivo del volume Il mondo secondo John Ford (Roma, Jimenez, 2023, pagine 272 pagine) del critico cinematografico Alberto Crespi, voce inconfondibile del programma radiofonico di RadioTre Hollywood Party, direttore della rivista Bianco e Nero presso il Centro Sperimentale di Cinematografia. È stato per anni critico cinematografico del quotidiano «L’Unità» e attualmente scrive, sempre di cinema, su «La Repubblica». Il percorso del libro parte da un film: Ombre rosse. Crespi analizza  i nove passeggeri della diligenza collegandoli ad altrettanti elementi fondamentali dell’opera di Ford. Così, parlando di Ringo (John Wayne) analizziamo la figura dell’eroe fordiano, mentre parlando di Dallas (Claire Trevor) scopriamo che Ford è un regista assai più “femminile” di quanto si creda, e così via. Ma non solo: il libro spazia dal rapporto tra Ford e la politica alla dimensione poetica del suo modo di fare cinema. E ancora il Sud, l’alcol, gli indiani, la guerra, l’Irlanda, cancellando cammin facendo i pregiudizi che hanno spesso accompagnato questo regista e il genere western. 


Il libro si chiude con il racconto di quando Howard Hawks va a trovare John Ford; è martedì 28 agosto e il loro non è un saluto ma un addio: John Ford moriva a 79 anni venerdì 31 agosto di 50 anni fa. Il libro di cui si parla è quello che esce il primo settembre, Il mondo secondo John Ford (Roma, Jimenez Edizioni, 2023, 272 pagine) di Alberto Crespi, che non è una biografia del grande regista né un saggio di critica letteraria ma una lettera d'amore, un gesto di gratitudine per uno (se non il) dei registi “del cuore”. Un libro che conferma che l’amore e la conoscenza vanno di pari passo: se il lettore italiano vuole conoscere John Ford da oggi sa a chi rivolgersi.

Incontro Alberto Crespi in una Roma agostana e assolata e partiamo proprio da quella ultima pagina, con lo struggente incontro tra Hawks e Ford che hanno tanti punti di contatto e altrettanto punti di divergenza, per cui il primo può essere definito “il prosatore” e il secondo “il poeta”.

“Hawks è il re dei generi:” risponde Crespi “li frequenta tutti, uno, il gangster-movie, quasi lo inventa con Scarface, Ford, invece, sembra ma non è un regista di generi. Soprattutto di western. Sfugge a molti che per 13 anni, da 3 Bad men (1926) a Ombre rosse (1939), non dirige western. E anche successivamente non fa certo solo western. Molti film di Ford sono difficilmente inquadrabili in un genere preciso. Perché Ford non è un cineasta classico. Non gli interessa la perfetta architettura narrativa dei film di Hawks. I suoi film spesso difettano sul piano della continuità e della costruzione drammaturgica. Hanno altri pregi. A Ford non importa “raccontare storie” in modo tradizionale. Ford prende i personaggi e li colloca all’interno di situazioni emotivamente estreme.

Per incarnare questi personaggi ricorre molto spesso a quelli che definiamo attori-feticcio, con una frequenza molto superiore rispetto ad altri registi hollywoodiani (e anche questo è legato al suo status di produttore, e al suo controllo sul casting). John Wayne, Henry Fonda e — negli ultimi anni — James Stewart sono i leading men preferiti, ma prima lo stesso ruolo è toccato a Harry Carey e a Victor McLaglen, poi diventato un super caratterista. Ward Bond è l’attore che ha girato più film con lui in ruoli importanti (24 film), ma il recordman è Jack Pennick con 41, altri interpreti fissi, o molto ricorrenti, sono Ben Johnson (inizialmente stunt-man: Ford lo promosse attore dopo che, sul set di Il massacro di Fort Apache, salvò la vita a Fonda durante un ciak pericoloso), Harry Carey Jr. (figlio del citato Carey) e poi tanti altri da Maureen O’Hara a Ken Curtis (suo genero nella vita), da John Carradine a George O’Brien. Una volta che i personaggi “reagiscono”, possono anche cambiare registro in modo talvolta spiazzante. Pensiamo al finale di Sentieri selvaggi, ricco di colpi di scena (uno dei vertici assoluti della sua filmografia): non c’è nulla di narrativamente coerente in questa scena, eppure funziona, come l’epica di Omero. In fondo anche Achille infierisce sul cadavere di Ettore e poi lo restituisce, commosso, al padre piangente. Gli eroi di Omero hanno scatti d’ira e gesti di pietà egualmente incongrui e improvvisi. Gli eroi di Ford sono così. E se è per questo, non c’è nulla di narrativamente coerente in tutto Sentieri selvaggi, che è forse il film con più errori di continuità in tutta la storia del cinema (e non parliamo della comparsa che, nella scena del guado del torrente gelato, indossa un paio di vistosi occhiali da sole) così come non c’è nulla di coerente nemmeno nell’uso della Monument Valley e del Lucerne Dry Lake in Ombre rosse”.

Ecco, Ombre rosse che diventa il canovaccio del suo saggio, per cui ogni capitolo è riferito a uno dei 9 personaggi “abitanti” della diligenza che corre in the “wilderness” come esponenti dei temi che intendi trattare: l’eroe fordiano, la donna fordiana, l’Irlanda, la politica, la legge, gli indiani... Ombre rosse è la matrice, il testo “classico” del cinema di Ford?

Sì e no. André Bazin l’ha definito il culmine del classicismo hollywoodiano. Secondo me è vero esattamente il contrario. Ombre rosse è un film espressionista, contenente molti registri diversi. Inizia come una commedia di costume ambientata nel West: i primi venti minuti introducono i personaggi e sono di fatto un ritratto al vetriolo di una società bigotta, dove gli ubriaconi come il dottor Boone e le prostitute come Dallas sono reietti, «victims of a foul disease called social prejudice (vittime di una brutta malattia chiamata pregiudizio sociale)», nelle parole di Boone. Poi il film diventa un viaggio iniziatico dove le parti en plein air sono nettamente minoritarie rispetto agli interni ricostruiti in studio (la Monument Valley si vede soprattutto nei trasparenti riutilizzati in teatro di posa). E tali interni sono cupi e claustrofobici, fotografati da Bert Glennon come se fossimo in un film tedesco degli anni Venti. E, sì, ci sono i soffitti, come fa notare Peter Bogdanovich a Orson Welles nella loro famosa intervista. «Certo che ci sono i soffitti in Ombre rosse — risponde Welles — non penserai che io creda di essere l’inventore del soffitto?». «Lo pensa molta gente», ribatte Bogdanovich, e Welles chiosa: «Molta gente dovrebbe rivedersi Ombre rosse». E Welles definisce Ford «a poet and a comedian»: non è facile tradurre la parola “comedian” (l’italiano “comico” non rende l’idea) ma il senso è chiaro. Nei film di Ford si ride. In ogni film c’è un fool, come direbbe Shakespeare (in Ombre rosse è il postiglione Andy Devine, ma anche il mercante di liquori interpretato da Donald Meek e il citato dottor Boone, Thomas Mitchell, danno il loro contributo). La scena di Sfida infernale in cui un attore trombone dovrebbe recitare l’Amleto è esemplare, e la frase di Doc Holliday (Victor Mature) che la apre dice tutto: «Shakespeare in Tombstone…». Lì c’è la sintesi di tutto il cinema di Ford, di tutto il western, forse di tutto il cinema, quindi forse della storia del mondo. Shakespeare a Tombstone. L’alto e il basso, la commedia e la tragedia. E Shakespeare cos’era, se non «a poet and a comedian»? In fondo i suoi capolavori sono scritti in versi, esattamente come i film di Ford.

Di Ford le piacciono proprio questi due aspetti: la poesia e l’umorismo. La prima collegata al paesaggio naturale, il secondo al paesaggio umano. E quindi, aggiungo io, emerge la sua pietas, intesa qui non solo in senso religioso ma come sguardo “umano”, misericordioso direbbe Papa Francesco, sulle fragilità umane.

Mi spinge a una riflessione che nel libro non c’è, perché partendo dai nove personaggi di Ombre rosse (sui quali il libro è strutturato) mi mancava un personaggio “religioso”, che permettesse di analizzare il rapporto di Ford con la religione e con la spiritualità. Il tema in realtà c’è, nel libro, ma sparso qua e là. Perché la pietas ovviamente è presente nel suo cinema e percorre anche film che di religioso, a un primo livello, non hanno nulla. Ed è curioso come sia, talvolta, legata alla comicità. In questo senso, il personaggio chiave è quello del giudice Priest, interpretato da Will Rogers in Il giudice e da Charles Winninger in Il sole splende alto. Già nel cognome che Irvin Cobb ha dato al suo personaggio si evidenzia una sovrapposizione di ruoli: Priest è un amministratore della legge ma è anche un salvatore di anime, una guida spirituale. Tanto che i cittadini ai quali impedisce un linciaggio girano poi per il paese con uno striscione che recita «He saved us from ourselves (ci ha salvato da noi stessi)». Priest è anche, in entrambi i film, un personaggio comico — e soprattutto Rogers lo interpreta in questa chiave. Così come ha spunti comici padre Lonegan, il prete cattolico interpretato da Ward Bond in Un uomo tranquillo. In fondo, in questo film, è in tutto e per tutto una scena comica quella in cui tutta la cittadinanza di Innisfree finge di essere protestante per salvare il posto al reverendo protestante Playfair in occasione della visita di un superiore. Come si vede, qui Ford “piega” in chiave comica — e in ultima analisi utopica — una differenza, quella fra cattolici e protestanti, che nella storia dell’Irlanda ha provocato immani tragedie. E qui si tocca un nodo essenziale: Ford era cattolico, da bravo irlandese, ma aveva con la religione un rapporto tutto suo. Non era un praticante assiduo e odiava ogni forma di bigottismo. Nel suo cinema ci sono almeno due personaggi di preti protestanti descritti con grande calore: oltre al citato Playfair di Un uomo tranquillo, bisogna ricordare soprattutto il reverendo Gruffydd di Com’era verde la mia valle (Walter Pidgeon), che è quasi il co-protagonista del film e ha due tratti importantissimi. È un ex minatore, il che gli permette di capire le lotte e le difficoltà degli abitanti di Gilfach Goch, e soprattutto — udite udite! — è un prete innamorato, costretto a farsi da parte per non interferire nel destino della bellissima Angharad (Maureen O’Hara) che pure lo riama. Gruffydd è un personaggio nobilissimo, uno dei leading men più “positivi” di tutto il cinema fordiano; e naturalmente l’amore gli dà una complessità e un’umanità inusitate. L’altro importante prete fordiano (senza nome) è ovviamente Henry Fonda in La croce di fuoco, ispirato al famoso romanzo di Graham Greene Il potere e la gloria. Qui, tutta la riflessione etica del film è racchiusa nel fatto che si tratta di un uomo perseguitato, in fuga dalla “legge” messicana che vuole gli uomini di Chiesa esautorati e fucilati (il film, in originale, si intitola The Fugitive). Ford riesce a identificarsi in uomini di Chiesa quando sono dei fuggiaschi, degli innamorati respinti o, per dirla con una parola, dei fuorilegge. Tanto è vero che in un altro film, In nome di Dio, prende proprio i personaggi di tre banditi e li trasforma in novelli Re Magi. In altri film la religione è presente in modo sommerso, o come istituzione. È evidente quanto Ombre rosse sia una sorta di vangelo apocrifo, con un bimbo che nasce (quasi) in una stalla, un agnello sacrificale che muore (il sudista Hatfield), una Maddalena che si redime (la prostituta Dallas) e alcuni viaggiatori che devono percorrere un viaggio in territorio ostile per raggiungere Lordsburg, la “città del signore”; e non è certo un caso che Mrs. Mallory (Louise Platt) senta “le trombe” dei soldati mentre sta pregando. Anche Il traditore (scritto, come Ombre rosse, da Dudley Nichols) è pieno di simbologia cristiana, con il delatore Gypo che muore all’ombra della croce. Ma è raro che Ford metta in scena la liturgia in modo esplicito, e comunque solo a condizione che entri in modo fluido nella trama. In questo è curiosamente simile a Tolkien, che pur essendo notoriamente e profondamente cattolico costruisce una cosmogonia in cui non c’è un dio, né un pantheon di divinità: i personaggi di Tolkien devono trovare dentro di sé le forze per opporsi al Male, così come i personaggi di Ford si muovono in un mondo (sia esso il West, la seconda guerra mondiale o altri scenari storici) dove la religione istituzionale può essere, a volte, persino un impiccio, e comunque qualcosa da costruire, da raggiungere. In Sfida infernale, la chiesa di Tombstone è in costruzione: e su quello che sarà il suo pavimento si balla, perché — come dice John Simpson, l’uomo che la sta costruendo e che non è un sacerdote — «ho letto la Bibbia da cima a fondo e non ho trovato nemmeno una parola contro il ballo».

Ha citato Orson Welles e la sua ammirazione per Ford, eppure i due sono davvero molto diversi, non trova? Semmai Spielberg che nel saggio definisce “il più fordiano”. Che cosa tiene insieme questi tre registi, forse l’epica?

Con Welles, Ford ha in comune la personalità, il suo essere un individualista all’interno dell’industria, la lotta sotterranea contro il sistema. Solo che Ford aveva vent’anni più di Welles e in quel sistema era nato e cresciuto, mentre Welles ci arriva come un uragano, tenta di piegarlo ai propri metodi e ne viene distrutto. Un po’ sono le circostanze, il fatto che Welles venisse percepito da tutti, a Hollywood, come un elemento estraneo; un po’, Ford doveva essere infinitamente più furbo, malleabile e manipolatore al tempo stesso. Spielberg ha raccontato molte volte il suo incontro con Ford, prima di metterlo in scena nel finale di The Fabelmans. Tanto che, quando inizia quella scena, molti di noi se la sono “spoilerata” da soli, perché sapevamo come andava a finire. Rimane la sorpresa di vedere, nei panni di Ford, un artista come David Lynch (per altro perfetto). È difficile immaginare due cineasti più diversi di Lynch e Spielberg, eppure entrambi condividono con Ford la capacità di essere sempre personali pur lavorando nell’industria più “spersonalizzante” che esista. Ma per paradossale che possa sembrare, il vero fordiano dei due è Lynch! Perché anche Lynch, per tornare alla definizione di Welles, «is a poet and a comedian», del tutto insofferente rispetto alle strutture tradizionali del racconto cinematografico, mentre Spielberg è più spesso un romanziere, un erede della Hollywood classica. Però anche lui, a volte, ha il mistero della grande poesia. Duel e Lo squalo sono due incontri con il pericolo, due riscritture di Moby Dick in cui il grande nemico rimane senza nome e senza motivazioni comprensibili. Né capiremo mai da quale popolo venga E.T., perché fossero sbarcati sulla Terra, che cosa volessero da noi: E.T. viene sul nostro pianeta, sparge tenerezza e saggezza e torna da dove è venuto. Queste “epifanie”, nel cinema di Spielberg, hanno qualcosa di fordiano perché sono inspiegabili, quindi rimangono nel regno ambiguo della poesia senza cadere nella quotidianità della prosa.

Insisto sull’epica, visto che nel saggio viene citato Ariosto. Un poeta come Borges ebbe a dire che Hollywood, anche se per motivi commerciali, ha fatto risorgere l’epica con il cinema, e il cinema western in particolare. Il riferimento a Ford è scontato. Una volta parlai con Ludovico Alessandrini, all’epoca dirigente Rai, e lui sosteneva che non c’è un film solo, ma tutta l’opera di Ford è un po’ come l’Iliade e l’Odissea, con i suoi canti, una grande opera epica.

Proprio così. Ford non ha creato un’opera-mondo come Ariosto e come Tolkien. La sua opera-mondo è l’insieme dei suoi film, esattamente come l’opera-mondo di Borges è l’insieme dei suoi racconti. Paradossalmente quando Ford vuole essere epico, diventa meno poetico. Penso sempre a The Iron Horse, che rivisto a distanza di un secolo (è del 1924) è secondo me un film “vorrei ma non posso”, il tentativo di fare un’epica nazionale che rimane un po’ sulla carta, nonostante la potenza e la bellezza del tutto. Qualcosa del genere succederà con il penultimo film, Il grande sentiero, che nasce da un’intenzione lodevole: rendere epica la sconfitta dei Cheyenne — infatti si intitola in originale Cheyenne Autumn. E anche qui, la volontà epica non è realizzata fino in fondo. Ma se si mettono insieme tutti i suoi film, o almeno quelli davvero perfetti, nasce un’epica diciamo così “globale” che ha un senso complessivo indiscutibile. Ford è un poeta utopico, come Swift, come Thomas More. E l’utopia è l’America. In molti suoi film Ford mette in scena l’utopia di un Paese riconciliato dopo la tragedia della guerra civile, che per lui è un vulnus da rielaborare (non da rimuovere!). Ma la riconciliazione che sogna Ford, oltre che politica e religiosa, è umana, è interna all’uomo. Ford è un anarchico perché sogna la libertà dell’individuo, ma anche un umanista e forse addirittura un socialista (una volta lo disse di sé) perché sogna una società giusta e priva di conflitti. Il suo problema (ma la nostra fortuna, perché è la ricchezza della sua arte) è che era entrambe le cose: un individualista e un uomo di relazioni. Per questo è insensato chiedersi se, in L’uomo che uccise Liberty Valance, lui stia con Ransom Stoddard (James Stewart, l’uomo che porta law and order nel West) o con Tom Doniphon (John Wayne, il pioniere, l’uomo d’azione). Lui sta con entrambi, lui è entrambi. E a quel punto della sua vita, la consapevolezza dell’uomo (siamo all’inizio dei perigliosi anni Sessanta) fa sì che, nel film, l’affermazione di Stoddard si basi sull’autodistruzione di Doniphon. L’uomo che uccise Liberty Valance (cioè che pose fine al West libero e selvaggio) è Doniphon, ma chi approfitta di questo status, e ci costruisce una carriera politica, è Stoddard. È una doppia sconfitta, che però ha ottenuto una vittoria: come dice Vera Miles nella scena finale, in treno, quel Paese era un deserto, e ora è un giardino.

Questo libro è anche una bella occasione per smontare una serie di falsi miti, luoghi comuni ed equivoci che si sono accumulati su Ford..

Uno dei luoghi comuni più duri a morire è che Ford fosse un reazionario, un uomo di destra. Ma curiosamente esiste anche il luogo comune opposto, che fosse quasi un radical, in gran parte legato alla famosa assemblea dei registi in cui — secondo la leggenda — si batté per Mankiewicz contro De Mille, e contro il maccartismo. Le cose non andarono esattamente così, come racconta il documentatissimo libro Hollywood Divided di Kevin Brianton. Intanto, sia De Mille sia Mankiewicz (allora presidente della Directors Guild of America) erano repubblicani (Mankiewicz divenne democratico anni dopo). E Ford non parlò contro De Mille, che era suo amico, ma contro l’idea di costringere i registi a un loyalty oath, un «giuramento di fedeltà» nel quale dichiaravano di non essere comunisti. Ford era prima di tutto un libertario, ed era contro ogni lista nera. Le sue posizioni politiche non sono mai state esplicite, ma sappiamo che sostenne Roosevelt durante il New Deal e sostenne Nixon durante la guerra in Vietnam. Amava il Sud e i suoi valori, ma idolatrava Lincoln. Era, anche politicamente, un uomo pieno di contraddizioni e, per citare Walt Whtiman (e Bob Dylan) «conteneva moltitudini», nessun luogo comune, nessuna “casella” in cui chiuderlo gli renderebbe giustizia.

Ma il principale luogo comune che, mi sembra, circola ancora su Ford è lo stesso che riguarda tutto il western: che sia “roba da maschi”. È chiaro che il western, anche per biechi motivi di verosimiglianza storica, sia un genere più maschile che femminile. Però mi sembra giusto affermare due cose, una ovvia, l’altra assai meno. La prima: nei film di Ford, western e non, ci sono personaggi femminili forti, interessanti, complessi, dominanti. Pensiamo solo a Maria di Scozia (Katharine Hepburn), alle donne incarnate da Maureen O’Hara, alla splendida Shirley Temple di Alle frontiere dell’India, alle due donne aggressive (Ava Gardner e Grace Kelly) che si disputano Clark Gable in Mogambo e naturalmente al microcosmo femminile che popola il capolavoro finale, Missione in Manciuria. La seconda, che potrebbe lasciare di stucco qualche “fordiano” superficiale: i maschi Alpha, nei film di Ford, non sono vincenti, bensì sono spesso sconfitti, o comunque vivono la propria mascolinità e il proprio ruolo di leader nelle rispettive comunità in modo assai problematico. Pensate solo a quanto è imbranato Wyatt Earp (Henry Fonda) di fronte a Clementine Carter (Cathy Downs) in Sfida infernale, quando lei gli dice che «non sa nulla delle donne» o lo guarda maliziosamente per farsi invitare a ballare. In questo, Ford ritrova alla fine Hawks: tutto il cinema di Hawks è la storia di come gli uomini siano emotivamente bloccati e le donne siano sveglie e piene di iniziativa. Naturalmente Hawks gioca questo tema all’interno della commedia sofisticata (perché tutti i film di Hawks, alla fine, sono commedie) mentre Ford, che doveva avere con il femminile un rapporto assai meno spigliato dell’amico, si ferma prima, alla soglia dell’innamoramento — che è una situazione narrativa che Ford non padroneggia fino in fondo. Forse i suoi uomini sono irrisolti proprio perché non sanno innamorarsi, non hanno tempo: Ethan è stato innamorato anni prima, ma doveva star lontano, in guerra, come Ulisse, e quando torna Penelope (la Martha di Dorothy Jordan) ha sposato uno dei Proci che per di più è suo fratello! Wyatt Earp è innamorato ma non sarebbe mai capace di dirlo a Clementine, e infatti chiede spiegazioni al barista (J. Farrell MacDonald) ricavandone come risposta la battuta più bella della storia del cinema («Sei mai stato innamorato, Mac?» «No, ho fatto il barista per tutta la vita»). L’amore nei film di Ford (e non parliamo del sesso) è sempre fuori scena, come la violenza nella tragedia greca. E quando sembra irrompere con tutta la sua forza, è un equivoco: in Un uomo tranquillo il sensale ubriacone Micheleen (Barry Fitzgerald) visita la casa nuziale di Sean e Mary Kate dopo quella che avrebbe dovuto essere la loro prima notte, vede il letto distrutto (ma non per quello che pensa lui…) e mormora: «Omerico». E invece tutto deve ancora accadere…

E comunque abbiamo citato Omero e Shakespeare, e questo è sufficiente.

di Andrea Monda