· Città del Vaticano ·

Diario ucraino/8

Da Leopoli un grido
per la pace

 Da Leopoli un grido per la pace   QUO-196
28 agosto 2023

«Leopoli è ovunque» scrisse Adam Zagajewski che vi nacque il 21 giugno del fatidico 1945. Da intendersi così: questa città — nucleo intimo della regione galiziana, sempre contesa fra polacchi, austro-ungarici, russi, dove l’identità ucraina sente battere soprattutto oggi il suo cuore pulsante —, chiama in causa anche noi perché ci spinge a riflettere sul senso profondo che unisce i popoli. Cos’è una nazione? La lingua in cui pensiamo, scriviamo e parliamo? Il terreno dove abitiamo? I valori in cui ci identifichiamo? Un patto che abbiamo firmato e che vogliamo a tutti i costi far rispettare? Le favole che mamma ci raccontava quando eravamo bambini? La tradizione storica alle nostre spalle? Il frutto di una guerra? La memoria del passato? Il sogno del futuro?

Nel mio viaggio in Ucraina, da Černivci a Kyiv, da Poltava a Kharkiv, da Izyum a Leopoli, ho sentito nascere e svanire tali domande una per una, non in astratto, bensì molto in concreto. Giunto al termine del percorso, mentre attraverso a piedi il confine polacco, incrociando i soldati in entrata e molte ragazze in uscita, ho l’impressione di veder passare davanti ai miei occhi tutte le persone che incarnavano questi interrogativi: Alina, sfollata a ottant’anni come le accadde da bambina; padre Michele, teso a pregare per i nemici; il dottor Sergij, impegnato a firmare i moduli di accettazione per i ricoveri; Anja, preside di Izyum, che mi ha detto di avere il russo quale lingua materna; la piccola Masha, di cui conservo il pupazzetto da lei confezionato; Arthur, giovane studente di Kharkiv, pronto a partire, se necessario, per il fronte; suor Olexsia, il cui sguardo, quando le chiesi in modo impertinente come faccia a conciliare pace e giustizia, resta per me indimenticabile.

Sì, Leopoli è ovunque. Ma c’è un posto dove la capitale culturale del Paese diventa un ferro incandescente, capace di bruciare gli animi di chi ci va: si chiama Lychakivske, lo storico cimitero settecentesco dove sono sepolte tutte le personalità più influenti del Paese, da Ivan Franko, forse il più grande scrittore ucraino, alle migliaia di polacchi caduti dopo la Grande guerra. Proprio di fianco a loro ci sono le vittime del primo conflitto ucraino-russo, quello del 2014. Dal promontorio interno al camposanto, subito dopo la cinta muraria, ho visto scollinare i tram accanto a un campo da football dove i ragazzi giocavano spensierati. La storia umana pareva un fiume impetuoso, capace di trascinare via tutto: tronchi, fiori, morene e detriti. Vita e morte s’intrecciavano. Ma la vera emozione l’ho provata mezz’ora dopo, quando sono arrivato dalla parte opposta, nella zona nuova destinata ai caduti più recenti.

Centinaia di tumuli erano allineati sul grande pianoro in mezzo alle bandiere, ognuno con la fotografia del defunto: quasi tutti ragazzi nati alla metà degli anni Novanta, i baschi verdi e grigi, gli occhi accesi, lo sguardo carico di giovinezza, alcuni in uniforme, altri in abiti civili, chi coi capelli corti da marine, chi lunghi da cantante rock. Futuri spezzati. Passioni tradite. Energie dissipate. Progetti infranti. Vite incompiute. Bellezze recise. I parenti arrivavano alla spicciolata parcheggiando l’automobile di fronte alle tombe. Padri dagli sguardi pietrificati. Madri in preghiera. Sorelle vestite di nero. Anziani affranti. Giù in fondo, stavano scaricando dal camion le nuove bare. Di fianco c’era un vasto campo in terra battuta, ancora vuoto, pronto ad accogliere i prossimi.

È qui che mi sono reso conto fino a che punto l’essere umano — nel persistente «conflitto mondiale a pezzi» che disonora il pianeta, per usare l’immagine coniata da Papa Francesco —, continui a disattendere le sagge parole di Immanuel Kant: «In guerra bisogna evitare le azioni che rendono impossibile ogni futura riconciliazione». Prima o poi, vogliamo sperarlo, russi e ucraini troveranno un accordo siglando qualche protocollo formale. Ma quanto tempo impiegheremo tutti noi per risanare i pozzi avvelenati?

di Eraldo Affinati